di Mario Barbieri
Grazie all’invito di un amico (anch’egli lettore di questo blog), ho avuto, lunedì scorso, l’opportunità e la gioia (la “fortuna” come si usa dire…) di assistere a uno dei tanti incontri che si svolgono durante il Meeting di Rimini. L’incontro dal tema “L’Uomo vale più della sua malattia”, ha visto le testimonianze di due relatori: la Dott.ssa Marta Scorsetti e il Reverendo Gerald Mahon.
Entrambe le testimonianze degne di nota e cariche di significati. Quella del Reverendo Mahon forse resa meno godibile dalla traduzione simultanea, che ovviamente, fatica a riportare intonazioni ed enfasi di un discorso, ma quella su cui vorrei soffermarmi e quella di Marta Scorsetti, Responsabile dell’Unità Operativa di Radioterapia e Radiochirurgia c/o l’Ospedale di Rozzano (MI).
Non si può disgiungere l’esperienza professionale della Dott.sa Scorsetti, dalla sua profonda carica di umanità, un’umanità coinvolgente ed empatica. Come non si può disgiungere questa carica coinvolgente, affascinante e positiva, dall’esperienza di Fede che permea la sua testimonianza ma, credo, la vita stessa di Marta (mi prendo la libertà di chiamarla per nome di qui in avanti). Così come mi è parso evidente, non sia possibile disgiungere la sua esperienza di Fede, dall’esperienza quotidiana dell’incontro con Cristo (alla quale se ho ben compreso si è, pur come laica, consacrata) che non è solo quello personale dell’io profondo, ma anche quello con il “Tu” dell’altro, con il Cristo presente in ogni Uomo e in particolare nell’uomo sofferente, dell’Uomo della Croce… L’uomo di fronte al suo Destino ultimo, alla sua Pasqua definitiva, ma che per molti è solo un tremendo faccia a faccia con la prospettiva della morte.
In questo suo stare costantemente, per scelta e per professione, costantemente di fronte alla sofferenza dell’Uomo guardandolo con gli occhi di Cristo e lasciandosi da Lui guardare attraverso gli occhi dei suoi pazienti, ho pensato Marta sia in fondo… molto Maria.
Questo mio commento però non vuole essere un incensare o lodare la persona Marta (la Dott.ssa Scorsetti), sebbene certamente motivi di lode ve ne siano, ma prendere la sua testimonianza appunto come quella di un Testimone della Fede e della Speranza, anche in quella che umanamente potremmo chiamare una “valle di lacrime”.
Se vi regalerete il tempo necessario alla visione della registrazione di questo incontro, sarà certamente più facile comprendere.
Ciò che più mi ha colpito e che la mia personale esperienza avvalora e ritrova, sono gli aspetti che ho cercato di riassumere in questi tre concetti: “attesa”, “vicinanza” e “presa di coscienza”…
L’Attesa è ciò che crea una “tensione”, una dinamica, un essere protesi “verso”, verso qualcosa o qualcuno.
Questa Attesa nel malato, soprattutto nel malato di una malattia come il tumore che, a torto o ragione, si considera quasi sempre una malattia senza speranza, si sposta da le normali attese del vivere, quelle che ogni giorno ci fanno “scendere dal letto”, ad una attesa inerme e svuotata di senso, della sola morte. Di fatto, la semplice diagnosi di un tumore, è per molti, semplicemente una condanna a morte, dai tempi più o meno certi, più o meno brevi (come se la persona non malata avesse di fronte solo certezze e un tempo infinito…).
La capacità, il dono, di Marta (in questo caso), è quello di saper ridestare l’attesa, il desiderio di un incontro, che può anche semplicemente essere quello del paziente con il suo medico, una persona – il medico – nella quale il malato, per la sua condizione, ripone comprensibilmente ogni fiducia e speranza. Un incontro che “accorcia i tempi”, che abbrevia le prospettive, spostandole da un tempo lungo e incerto, magari carico di timori, a quello immediato e più confortante “del giorno dopo”, della terapia che si andrà ad iniziare, ad una speranza più vicina e “tangibile”.
Si potrebbe obbiettare che questo sembra essere solo un sottile “inganno”, una forma di alienazione dalla realtà, ma proprio nella realtà che è Evangelica, del vivere ogni giorno al quale basta la sua pena, ma che è anche carico di opportunità, di novità, di grazie… tutte cose che ci vengono da Dio Padre, che ogni giorno ci dà un giorno nuovo, un giorno prezioso per la nostra conversione ed il cammino verso di Lui. Come dice Marta, un giorno in più che ci avvicina al nostro Destino, che abbrevia l’attesa con Colui che – da sempre – ci attende.
La Vicinanza è quella che potremmo identificare volendo, nella Parabola del Buon Samaritano, di colui che si fa prossimo, vicino all’altro, che si prende cura di… ma potemmo anche andare oltre.
E’ la vicinanza che aiuta il malato a non sentirsi solo e abbandonato, a non sentirsi rifiutato o evitato assieme alla sua malattia.
E’ la vicinanza che a volte non si riesce a trovare o sentire, persino nelle persone che nel lessico comune, si identificano appunto come le “più vicine”. Sono tanti i motivi e le ragioni per cui questo può accadere e può essere lo stesso malato a creare delle barriere, ma in reraltà è proprio ciò che il malato, il sofferente cerca e desidera e spesso lo cerca, più o meno inconsciamente, anche in chi, professionalmente, è chiamato a mostrargli una via di guarigione, una speranza.
Credo, ma non voglio fare di questa mia idea una realtà statistica, che un malato cambi più spesso medico per il fatto si sentirsi “un numero”, o una “cosa”, quasi una macchina su cui opera un meccanico, che non per le supposte o reali incapacità professionali del medico stesso.
Non è difficile comprendere quanto sia importante che un medico, ma anche un operatore sanitario di altro livello o competenze, abbia questa carica di Umanità, di capacità di Vicinanza, di attenzione verso il paziente. Questo al di là di qualunque connotazione fideistica.
Certo se poi la Fede ti dà di guardare con amore colui che come medico stai curando, vedendo in lui un Fratello una Sorella e il Cristo sofferente, già questo sguardo ti fa capace di curare le ferite dell’anima, di fugare le paure, di infondere fiducia, speranza, pace.
Non possiamo negare che vi è più di un momento – soprattutto nella malattia – dove l’Uomo si sente ed è, profondamente solo… una solitudine inaccessibile a chiunque, tranne che a Dio ed è bene ed è buono che, sino al sopraggiungere di quell’incontro, si possa essere accompagnati e “tenuti per mano” (anche fisicamente).
La Presa di coscienza. E’ un po’ il cuore della testimonianza che sto qui commentando: “L’Uomo vale più della sua malattia”, o se vogliamo, l’Uomo non è la sua malattia.
E’ ciò che Marta “annuncia” a chiare lettere ad alcuni dei suoi pazienti (forse a tutti), nel racconto/testimonianza dato al Meeting. E’ l’invito a prendere coscienza che noi non siamo “solo” il nostro corpo, né tanto meno siamo solo una parte di esso, né per l’appunto, siamo la nostra malattia, qualora fossimo malati. Eppure capita sovente di identificare l’Uomo con la sua malattia: “è un malato di…”; “sono un malato di…” e se la malattia è una malattia “mortale”, a volte ci si ritrova ad essere, una specie di “morto che cammina”.
In realtà per rivelazione e per fede sappiamo che l’Uomo è ben altro. E’ dotato di un’anima immortale al cui destino parteciperà anche il corpo, giovane, vecchio, malato o in salute che sia al momento della morte, ma rigenerato nella Resurrezione di Cristo quando verrà il Tempo.
Anche il non credente che si ribella all’idea della “finitudine”, della morte che tutto cancella, in fondo ci dice della profonda sete di infinito che il Creatore ha posto nel cuore dell’Uomo, la chiamata ad un Destino, la chiamata a scoprire appunto il proprio valore infinito.
Un valore, ed è questo il fatto per certi versi sconvolgente, che si può scoprire, gustare, sperimentare ogni singolo giorno, in ogni singolo istante, perché in questo nostro essere innestati nell’Infinito ogni istante non è detto debba essere vissuto come segno della finitudine, ma al contrario come istante che ci avvicina a Colui che non ha Tempo, né avrà fine e di cui siamo resi partecipi. In ogni istante ci si può sentire amati.
Amati per quello che si è, sani o malati… in modo speciale se malati, in modo specialissimo da Dio se ci si scopre con pentimento, peccatori.
L’Attesa e la Vicinanza, vanno a toccare quell’io profondo, quell’io che tutti siamo, che non può essere solo il nostro corpo, ma che nel corpo trova modo di mostrarsi, di darsi un dimensione, di comunicare con l’altro.
Ecco perché, anche senza entrare nell’immenso valore che hanno la malattia e la sofferenza per il Cristiano, discorso che porterebbe molto lontano, l’Uomo vale più della sua malattia, l’Uomo non è la sua malattia.
….può però succedere che la malatia annienti così tanto l’uomo da annientarlo, appunto, ante mortem (a dio piacendo)
Si Alvise, dici il vero ed è una triste realtà… 😐
Ed è anche questo uno dei motivi che ci spinge all’Annuncio di un Speranza che per chi crede è Certezza.
E ciò che ci spinge è “charitas christi”, non questione di convicere o convertire.
L’ha ribloggato su Beppe Bortoloso.
mi viene in mente che la persona vale in quanto tale, non per le scelte accessorie o per le situazioni che capitano, che non hai scelto.
e mi viene in mente che oggi invece non sei considerato persona in quanto tale, non solo nella malattia, ma in ogni situazione….tifoso, muore; napoletano, malato; scrittore, in fin di vita….
per questo Cristo credo non abbia guardato in faccia a nessuno quando scriveva per terra e diceva, chi è senza peccato scagli la prima pietra…(libera interpretazione assolutamente affatto ortodossa!!!)
“Dottoressa, lei ha il sole negli occhi”: credo che, se dovessi riassumere la testimonianza di Marta in una frase, userei questa.