Quando eravamo femmine – Il libro

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QUANDO ERAVAMO FEMMINE
Lo straordinario potere delle donne
Anno: 2016
Euro 15.00
Isbn: 978-88-454-2608-7

Costanza Miriano, diventata un caso internazionale per i suoi libri anticonformisti sulla famiglia, racconta alle figlie il ruolo della donna nella società contemporanea. E, da par suo, intrecciando riflessione e racconti di vita quotidiana – tra amori imperfetti, appuntamenti con la pediatra persi e conference call dimenticate – ci restituisce l’immagine di una donna che sa di avere tra le mani i destini del mondo perché sa che il livello spirituale di un’epoca è dato dal livello spirituale delle sue donne, e che l’uomo agisce sul presente mentre la madre costruisce per l’eternità.

«Noi donne ci siamo, per così dire, emancipate, abbiamo conquistato la libertà di scegliere, nel lavoro, nell’amore, nella vita. Ma a che prezzo? Siamo davvero più felici? E soprattutto, rendiamo più felici le persone che ci sono affidate? Non è che per caso femminismo, rivoluzione sessuale e battaglie per la parità hanno finito per lasciarci più sole e tristi? Per rispondere a queste domande, dobbiamo liberarci dagli schemi della rivendicazione e capire quale grande privilegio sia l’essere femmine, destinate dalla natura ad accogliere la vita, chinandoci su di lei, in qualsiasi forma si presenti alla nostra porta. E quale grande avventura possa essere per noi diventare spose e madri, accanto all’uomo con cui possiamo arrivare a diventare una carne sola. Non sto mica parlando della casalinga anni Cinquanta: le tante donne che ho avuto la fortuna di incontrare – donne realizzate spesso anche nel lavoro – hanno percorso strade difficili, perfino drammatiche, eppure ne sono emerse straordinariamente capaci di vita, capaci di speranza contro ogni ragione. Mi hanno insegnato che essere felici è possibile, ma richiede un lavoro; che si può pure andare dove ci porta il cuore, ma poi bisogna chiamare il cervello perché ci venga a riprendere, e ci porti in un luogo segreto, dove si mette in moto una vita più feconda e piena. Quello che ho imparato da queste amiche vorrei insegnarlo alle mie fi glie, adesso che ancora mi ascoltano: poi – credo sia questione di minuti – saranno adolescenti e sarà troppo tardi.» Costanza Miriano

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Ho avuto una grossa difficoltà nello scrivere Quando eravamo femmine. Cioè una in più oltre a quelle solite – la casa gelata di notte, i colpi di sonno tra l’una e le due, la fame atavica verso le tre, la difficoltà nell’approvvigionamento notturno di beni atti a fornire le condizioni minime alla scrittura, quali il chococaviar Venchi, il salame e la Coca light. La difficoltà aggiuntiva di questo libro è stata che io avrei voluto raccontare tutta la sorellanza che ho scoperto da quando le persone che conosco e incontro sono aumentate di circa mille volte rispetto ai tempi in cui avevo un numero di amici normali (i tempi in cui nella mia rubrica i nomi erano salvati come Elisabetta, Luca, Giovanni e non Crisitinagenovamammadicinque o Ericareliquiamilano o Federicachiesanuova). Avrei voluto raccontare parte della bellezza conosciuta praticamente in tutta Italia, da Catania a Rovereto (o Pinerolo? È più a nord?), ma era troppa, troppa roba, e troppo pochi i neuroni rimasti liberi dopo le giornate trascorse a lavorare, a star dietro ai figli, a fare tutte le cose che noi mamme sappiamo bene e che tutte facciamo, mettendoci insieme però anche un’esagerazione di mail messaggi telefonate. E così tante sere sono finite in un nulla di fatto, a contemplare lo schermo – rigorosamente bianco – e poi a dormire sfinita con lo sterno sul tavolo e lo spigolo del tavolo in fronte.

Ecco, non so cosa ne sia venuto fuori, sono ancora troppo vicina alla tela: devo allontanarmene per vedere da lontano l’effetto che fa. Il desiderio era quello di scrivere un libro corale che facesse parlare insieme alla mia le voci di tante donne ascoltate, incontrate, conosciute. Non ne ho raccontate le storie perché spesso sono vicende appena adombrate, vagamente intuite, solo accennate. Quello che spero di avere riportato è il timbro di tante voci che non si riconoscono nei modelli di donna oggi prevalenti, e che qui ho cercato di raccontare alle mie bambine.

Ogni donna ha bisogno di una sguardo che la definisca: qualcuno che le dica che è bella. Ma quello che definisce ogni donna non è la risposta alla domanda (“quanto sono bella, io?”), quanto piuttosto la nostra scelta: chi vogliamo che risponda a quella domanda? Chi vogliamo che ci dica che siamo belle? In fondo, nella più intima verità di noi stesse, quello che ci definisce è “a chi voglio piacere io?”. Ognuna di noi vuole piacere a qualcuno, anche quelle apparentemente più autonome, perché l’indipendenza è un’illusione (io manco ci provo, a fare finta). Quindi, ripeto, a chi voglio piacere io?

Quello che ho sperimentato è che quando la mia risposta è “a Dio”, quando chiedo al Signore di restituirmi lo sguardo di amore che desidero sono più piena, più felice, dipendo di meno dagli altri e riesco ad amarli in modo più libero, non come chi si aggrappa, ma come chi si apre generosamente, perché sa che la sua pienezza non è messa in crisi da niente.

Siamo complicate, ogni tanto la nostra complicazione prende il comando. Talora sbrocchiamo, è vero, sono pronta ad ammetterlo serenamente. Altre volte produciamo pensieri inconsulti, e, certo, pochi minuti prima saremmo state pronte a giurare, sinceramente, che noi non saremmo mai state capaci di pensieri tanto folli, di parole tanto meschine, di azioni tanto irragionevoli. Eppure dieci minuti dopo le abbiamo fatte. Il fatto è che siamo piene di contraddizioni. Come tutti gli esseri umani, ma un po’ più dei maschi. Un maschio se vuole ti asfalta. Una femmina cerca di diventare la tua miglior nemica.

La soluzione non è scandalizzarci delle nostre contraddizioni, tanto non serve a niente. Non serve neppure dire “io non cambierò mai”, perché è vero, non cambieremo mai. Non da sole. La soluzione è ricomporre le nostre contraddizioni appoggiandole in Dio. Maria è la donna della contraddizione ricomposta. È lui che pareggia i conti col nostro cuore ferito, deluso, in attesa. Per questo per noi donne, soprattutto da una certa età in poi, è fondamentale mettere in moto una vita spirituale che ci protegga da noi stesse, dal dolore, che ci renda feconde davvero, che ci renda capaci di far vivere tutti quelli che ci sono affidati.

Secondo me le donne non diventano sacerdoti perché il sacerdozio a cui sono chiamate è quello del cuore: offrire ogni giorno sull’altare il nostro cuore stanco, imparare a ballare il ballo dell’obbedienza nel quotidiano, imparare a dire i sì di cui hanno bisogno tutti quelli che possiamo chiamare alla vita, ma a dirli con il sorriso e con la gioia di chi sa di essere piena e totalmente amata.

Quando questa pienezza ci manca non è colpa degli uomini cattivi, né del lavoro nel quale ci verrebbe impedito di realizzarci: è che l’abbiamo cercata nel posto sbagliato. In questo libro provo anche a ragionare con le mie bambine su parecchie bugie che ci hanno detto sulla liberazione sessuale, sul lavoro, sull’accoglienza alla vita. Bugie che ci hanno lasciate più sole e più tristi di prima. Ovviamente non possono mancare consigli fondamentali quali quelli sull’assoluta necessità di stendere dei punti luce sugli zigomi (c’è anche un patetico tentativo di dare una valenza spirituale alla stesura del primer prima del fondotinta).

È il tempo di tornare regine, di riprendere il nostro ruolo altissimo: noi siamo quelle che danno la vita, biologica e non. Noi siamo quelle che aiutano la vita quando è più debole. Noi siamo quelle che stabiliscono che timbro ha la vita di un’epoca, di un paese intero. Questo è il meglio della nostra vocazione, e da un certo punto della nostra storia abbiamo avuto un po’ troppa fretta di dimenticarcene. Forse non ci siamo rese conto di quanto abbiamo perso noi, e di quanto rischiamo di far perdere a quelli che dipendono da noi, perché intorno a una donna realizzata e felice la vita fiorisce, mentre intorno a una donna che lascia il controllo alla pazza di casa la morte trionfa. Ecco, questo vorrei spiegare alle mie bambine, questo, soprattutto, ho imparato da tante donne veramente feconde – che siano madri o no – incontrate in tutta Italia (e ormai anche fuori), donne unite da una profonda sorellanza. Donne spesso silenziose agli occhi del mondo e unite da una compagnia lieta, forte, capace di alleanza e generosità, con cui incoraggiarsi le une con le altre quando il ballo dell’obbedienza si fa stanco, i piedi incespicano per la stanchezza, gli occhi si chiudono o si annebbiano dal pianto. Donne capaci, quando serve, anche di dirsi qualcosa di veramente scomodo. “Hai la pelle mista, ma ti voglio bene lo stesso”.

Costanza Miriano