di Claudia Mancini LaPorzione.it
«L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio».
Così scriveva Italo Calvino ne «Le città invisibili», per ricordare che non esiste una “città umana” ideale, perfetta, senza difetti, in quanto la “città reale” è sempre l’espressione diretta degli uomini che la abitano.
La “città ideale” va perciò ricercata e costruita modificando la nostra “città reale” nel concreto di ciò che è migliorabile in essa:non «accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più». L’inferno non è l’umanità: l’inferno è la dis-umanità.
Vedo e, come cittadina italiana, non voglio prendere parte all’“inferno” della sentenza n. 16754 del 2 ottobre 2012; la Corte di Cassazione ha riconosciuto il “diritto” al risarcimento del danno per la “nascita indesiderata” di una bambina down ai genitori, ai fratelli e, per la prima volta nell’ordinamento italiano – contraddicendo due precedenti sentenze del 2004 e del 2009, alla stessa interessata.
La Cassazione si è pronunciata sul caso di una madre di Castelfranco veneto che aveva chiesto ad un medico tutti gli accertamenti necessari per escludere patologie gravi del feto. Il medico, invece di prescrivere l’amniocentesi che avrebbe permesso di scoprire la sindrome di Down, l’ha sottoposta unicamente al Tritestrivelatosi inattendibile. Secondo la sentenza della Cassazione, la responsabilità del medico non discende dall’omessa diagnosi, ma dall’aver impedito alla madre la possibilità di esercitare il suo diritto all’interruzione della gravidanza qualora fosse stata informata delle malformazioni fetali. Dal primo “diritto” negato alla madre, per estensione, consegue che siano risarciti anche: il padre del concepito, perché si trova costretto a crescere un figlio con disabilità; i fratelli del «nato malformato», perché il danno per loro consisterebbe nell’inevitabile minor disponibilità dei genitori nei loro confronti, in ragione del maggior tempo dedicato necessariamente al figlio disabile, e nella diminuita possibilità di godere di un rapporto familiare caratterizzato da «serenità e distensione»; lo stesso «nato malformato», per «alleviare la sua esistenza diversamente abile» resa necessaria dall’impossibilità per la madre di abortire.
Da notare: «Alleviare la sua esistenza diversamente abile» è un’acrobazia concettuale dell’ipocrisia, tipo “maternità responsabile”. Traduzione: se la madre avesse potuto uccidere la bambina tutto sarebbe stato apposto, invece la disabilità segna inevitabilmente in senso negativo sia l’esistenza della persona con handicap sia quella dei suoi familiari. A prescindere.
La sentenza, formalmente, è “solo” il risultato dell’applicazione della legge sull’aborto della quale, infatti, condivide l’“esprit des lois”: riconoscere il risarcimento allo stesso bambino down – per una disabilitànecessitata dall’impossibilita della madre ad abortire, equivale a considerare preferibile la non-vita rispetto ad un’esistenza segnata dalla disabilità.
Insomma, secondo la Cassazione, quella del disabile è un’esistenza inevitabilmente dannosa per tutti, e quindi è meglio non nascere. Questa sentenza è l’inferno, è la dis-umanità. L’abbiamo vista e non la vogliamo accettare; così, come scriveva Calvino, proviamo a «cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio».
Non è inferno l’umanità. L’umanità è la stragrande maggioranza dei genitori che accudiscono con amore i loro figli disabili; dei fratelli che imparano ad amare con i genitori e, dopo la morte di questi, continuano a prendersi cura dei congiunti disabili con dedizione. L’umanità è il rilevante numero di bambini disabili che, ogni giorno, studia, si sottopone alle terapie supplementari, ha amici, voglia di crescere e realizzarsi come tutti. L’umanità è chi s’impegna – o dovrebbe impegnarsi – a «far durare e dare spazio» a queste famiglie: insegnanti qualificati, personale medico e paramedico preparato, strutture adeguate, politici impegnati, leggi giuste, un sistema culturale propositivo e positivo. L’umanità riconosce la presenza di bambini affetti da disabilità come fonte di difficoltà e di disagi di ordine medico, scolastico, lavorativo, culturale, ma non si tira indietro: i problemi di un bambino non fanno di un bambino un problema. Sono i problemi che vanno eliminati per quanto è possibile, non il bambino. C’è sicuramente un residuo di problemi che non può essere risolto ma con cui l’umanità deve riappacificarsi, accettando che non esiste un’umanità perfetta, sana, senza difetti, e che la morte di chi non èpercepito perfetto non è certo l’approssimazione dell’umanità alla perfezione.
Nella dis-umanità dei pochi, splende l’umanità dei molti. La dis-umanità è solo la via più semplice, percorsa da coloro che chiamano “libertà” e “autodeterminazione” la debolezza di non saper accettare ciò che è «rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui», come ricordava Calvino. La dis-umanità è debole e superficiale: si arrende al “conveniente” e al “semplice”.
Non arrendersi alla disumanità, accettando il rischio di difendere e promuovere sempre il vero bene dell’uomo, è da sempre compito del magistero della chiesa. Sulla sacralità della vita, innumerevoli sono i documenti della chiesa cattolica; scegliamo di affidarci all’Enciclica Humanæ Vitæ, per chiarire in cosa la sentenza della Cassazione ci pare sovvertire tutta la legge morale, non solo quella evangelica ma anche quella naturale.
Nell’Humanæ Vitæ, innanzitutto, viene ribadito che: a) «la vita umana è sacra perché fin dal suo affiorare impegna direttamente l’azione creatrice di Dio»; b) è inscindibile la connessione – che Dio ha voluto e l’uomo non può rompere – tra il significato unitivo e quello procreativo dell’atto coniugale; c) sono dichiarate vie illecite – per la regolazione della natalità nello specifico, e per la morale cattolica in assoluto – la contraccezione artificiale e chimica, la sterilizzazione diretta, e l’aborto diretto anche per ragioni terapeutiche; d) è ammessa solo la regolazione delle nascite fondata sull’osservanza dei ritmi naturali. (I, 2-6; II, 7-16)
Se quanto fin ora esposto può sembrare rigorosamente attinente alla sola legge morale evangelica, in altri passaggi si sottolinea con fermezza quanto le vie del magistero non solo non siano contrarie alla legge morale naturale ma abbiano a cuore «l’instaurazione di una civiltà veramente umana». (II, 18)
L’Enciclica, con materna cura, vuole rispondere alle domande degli uomini che, nell’epoca contemporanea, «pensano sia venuto il momento di affidare alla ragione e alla volontà dell’uomo, più che ai ritmi biologici del suo organismo, il compito di trasmettere la vita» (I, 3); inoltre, mostrare come ritenere l’uomo libero di procedere a proprio arbitrio, nel compito di trasmettere la vita, sia contrario tanto alla legge morale naturale quanto pericoloso per la stabilità dell’ordine civile. A tal riguardo, viene detto che mai si può addurre come valida giustificazione al ricorso alla contraccezione, alla sterilizzazione e all’aborto diretto, «la ragione che in alcuni casi bisogna scegliere quel male che sembri meno grave». Infatti, «se è lecito talvolta, tollerare un minor male morale al fine di evitare un male maggiore o di promuovere un bene più grande, non è lecito, neppure per ragioni gravissime, fare il male affinché venga il bene, cioè scegliere ciò che è intrinsecamente disordine e quindi indegno della persona umana, anche se nell’intento di promuovere e salvaguardare beni individuali, familiari e sociali» (II, 14). Alla luce di questa verità di ragione, ci chiediamo: è corrispondente all’ordine naturale e rispettoso della dignità umana che una madre uccida un figlio, prevedendo che la sua disabilità potrebbe compromettere il benessere individuale della madre e della famiglia? Può la madre sostituirsi al figlio concepito nel decidere che una non-vita sia migliore di una vita disabile?
Ogni qual volta l’uomo, nella trasmissione della vita, pensa di essere libero di procedere a proprio arbitrio, non solo sovverte la legge morale tutta – evangelica e naturale – ma contribuisce anche al declino dell’ordine civile. Si legge nell’Enciclica: «Si rifletta sull’arma pericolosa che si verrebbe a mettere così tra le mani delle autorità pubbliche, incuranti delle esigenze morali. Chi potrà rimproverare ad un governo di applicare alla soluzione dei problemi della collettività ciò che fosse ritenuto lecito ai coniugi per la soluzione di un problema familiare?Chi impedirà ai governati di favorire e persino imporre ai loro popoli, ogni qual volta lo ritenessero necessario il metodo di contraccezione da essi giudicato più efficace? In tal modo gli uomini volendo evitare difficoltà individuali, familiari o sociali che s’incontrano nell’osservanza della legge divina, arriverebbero a lasciare in balia dell’intervento delle autorità pubbliche il settore più personale e più riservato dell’intimità coniugale» (II, 17). A ben guardare, infatti, cos’altro è la sentenza che conclude sia meglio non nascere che essere disabile, se non una delle estreme conseguenze della legge sull’aborto, cioè di una legge che riconosce all’uomo di poter disporre a proprio arbitrio della possibilità di generare la vita? Se non si riconoscono limiti alla possibilità di dominio dell’uomo sul proprio corpo e sulle sue funzioni, chi potrà più limitare la possibilità dell’uomo di disporre a proprio arbitrio della vita umana altrui, dal concepimento alla morte?
L’Enciclica si chiude esprimendo la consapevolezza che «la dottrina della chiesa apparirà a molti difficile o addirittura di impossibile attuazione, perché essa richiede impegno e molti sforzi individuali, familiari e sociali, anzi non è attuabile senza l’aiuto di Dio, ma a chi ben riflette non potrà non apparire che tali sforzi sono nobilitanti per l’uomo e benefici per la comunità umana» (III, 20).
Non abituiamoci alla dis-umanità, fino a prenderne parte e a non riconoscerla più. Con fede e ragione, impegno personale e sforzo collettivo, cerchiamo “chi” e “cosa” promuove l’umanità, «facciamolo durare e diamogli spazio».
fonte> la Porzione.it
“considerare preferibile la non-vita rispetto ad un’esistenza segnata dalla disabilità.”
…allo stato embrionale, potendo da embrioni decidere, noi che avremmo scelto?
Noi chi? “Voi” agnostici embrionali? O “noi” ipercattolici indottrinati?
«C’erano due gemellini, un maschietto e una femminuccia, così intelligenti e precoci che, ancora nel grembo della madre, parlavano già tra di loro. La bambina domandava al fratellino: “Secondo te, ci sarà una vita dopo la nascita?”. Lui rispondeva: “Non essere ridicola. Cosa ti fa pensare che ci sia qualcosa al di fuori di questo spazio angusto e buio nel quale ci troviamo? La bimba, facendosi coraggio: “Chissà, forse esiste una madre, qualcuno insomma che ci ha messi qui e che si prenderà cura di noi.”. E lui: “Vedi forse una madre tu da qualche parte? Quello che vedi è tutto quello che c’è”. Lei di nuovo: “Ma non senti anche tu a volte come una pressione sul petto che aumenta di giorno in giorno e ci spinge in avanti?”. “A pensarci bene, rispondeva lui, è vero; la sento tutto il tempo”. “Vedi, concludeva trionfante la sorellina, questo dolore non può essere per nulla. Io penso che ci sta preparando per qualcosa di più grande di questo piccolo spazio”.» (feed://www.cantalamessa.org/?feed=rss2&cat=11)
Quanto sopra a proposito degli “agnostici embrionali” 😉
@senm_webmistress, bellissima metafora! 🙂
E’ di padre Raniero Cantalamessa 🙂
Sì, avevo visto i “credits” 😉
Da embrione avresti scelto tra le due opzioni basandoti solo su una “previsione”: non sai cosa sia essere vivo ma neanche cosa sia essere disabile. Mettiamo anche che lo potessi sapere, e che scegliessi di nascere sano: chi ti dice che – nonostante le tue previsioni– da sano la vita non ti verrebbe presto a noia, mentre da disabile non ti dispiacerebbe?
Sulla vita e la morte di un soggetto non può decidere un altro soggetto in base ad una propria “previsione”. Il soggetto stesso, poi, può decidere da sano ciò che prevede sceglierebbe da malato?
…sofismi a parte, perché si dovrebbe tutti regolarci secondo le vs. convinzioni, e se non lo facessimo (noi quegl’altri)
saressimo necessariamente dis-umani?
@filosofiazero magari fossi capace di sofismi! credo solo di aver risposto ad una “ipotesi embrionale”, la tua. Ad una domanda ipotetica non puoi rispondere che con una domanda ipotetica. “Nada” nostre convinzioni/vostre convinzioni. “Dis-umani” non sta per “cattivi” ma per negazione dell’umanità, di ciò che attiene strutturalmente e universalmente all’essere umano. Quando un individuo decide per sè, può farlo contrariamente a ciò che è universalmente umano: ne risponderà in libertà davanti agli umini e davanti a Dio. Quando un individuo sceglie a posto di un altro (cellula, embrione, feto…senza le quali, in rigorosa successione, non si arriverebbe ad un “io e ad un “tu”), la sua scelta non deve perchè non può sconfinare oltre il rispetto dell’umanità. Non puoi scegliere un male certo, per un bene incerto. Uccidere una vita è un male certo, e nascere sano oggi è un bene incerto domani.
“nascere sano oggi è un bene incerto domani”, e dunque? si sconfinerebbe subito, come dite voi, nell’eugenetica scegliendo di avere un bambino sano, se fosse possibile? o, se preferite, di non avere un bambino che i genitori potrebbero pensare che vivrebbe male se nascesse?
Scusa ti ho risposto sotto 😉
“E’ inscidibile la connessione tra il significato unitivo e quello procreativo dell’atto coniugale”… Come mai questo silenzio tombale di commenti? Non ci sarebbe qui da sviscerare ed approfondire abbastanza?
Bel post! Grazie Claudia, soprattutto per l’invito a non abituarci alla dis-umanità.
@Carlo grazie della domanda, è l’occasione di precisare – come di legge nell’ Humanae Vitae (II, 11) – cosa significhi “l’inscidibile connessione tra il significato unitivo e quello procreativo dell’atto coniugale”. Come si legge, c’è da sfatare il “falso mito” della chiesa che impone l’atto coniugale SOLO a scopo procreativo. L’atto coniugale non deve escludere volontariamente che l’atto unitivo sia procreativo, ma non include che ogni atto unitivo sia solo procreativo”.
11. “Questi atti, con i quali gli sposi si uniscono in casta intimità e per mezzo dei quali si trasmette la vita umana, sono, come ha ricordato il recente concilio, “onesti e degni”, e non cessano di essere legittimi se, per cause mai dipendenti dalla volontà dei coniugi, sono previsti infecondi, perché rimangono ordinati ad esprimere e consolidare la loro unione. Infatti, come l’esperienza attesta, non da ogni incontro coniugale segue una nuova vita. Dio ha sapientemente disposto leggi e ritmi naturali di fecondità che già di per sé distanziano il susseguirsi delle nascite. Ma, richiamando gli uomini all’osservanza delle norme della legge naturale, interpretata dalla sua costante dottrina, la chiesa insegna che qualsiasi: atto matrimoniale deve rimanere aperto alla trasmissione della vita”.
Ciao Claudia, ti ho scritto un messaggio sul tuo account di la porzione.it; cari saluti.
Ciao Claudia,
Hai scritto un post molto interessante pieno di spunti, alcuni dei quali non avevo mai preso in considerazione.
Noi ominidi avremmo bisogno alcune volte di chiare parole che tranquilizzino le nostre coscienze perché tra il dire, il pensare e il fare c’è sempre il mare.
Io mi sono già messo d’accordo con Dio ma non so se lui è d’accordo con me su tutto, non c’è, per così dire, un patto di stabilità controfirmato. Ad ogni modo le linee essenziali sono condivisibili, vita sacra, contraccezzione, ecc. Chiaro che chiudendo alcuni buchi si formano falle da altre parti per via della pressione…
Triste conclusione: “ti avremmo amato (quanto meno accettato) se solo fossi stato sano” 😐
E se una qualunque forma di “disabilità” si fosse generata dopo la nascita (malattia, incidente, altro),
non potendo chiedere la tua soppressione (ancora no…), a chi avremmo fatto causa? 😐
Certo che questa sentenza dice al mondo: “Cari disabili, siete un peso per tutti, a iniziare dalla vostra famiglia! Perciò giusta la decisione di decidere di non farvi nascere…”
Anche se i puristi diranno: “No, si è solo tutelato il diritto (sic) della donna, di poter scegliere (doppio sic) 😐
Poi umanamente parlando, ci vuole molto coraggio, molto amore, e molta Fede, per accettare una di queste vita nella propria vita e queste famiglie sono troppo spesso abbandonate a loro stesse.
Bariom:
…non avremmo fatto causa a nessuno, non è questo il punto, il punto è: si può o non si può permettere a delle famiglie che sanno che il loro figlio nascerà con difficoltà gravi scegliere che questo figlio nasca invece, come dite e credete voi, in cielo beato e contento? o invece no, deve nascere in terra, per forza, obbligato, costretto, da una setta feroce, che vede la ferocia solo nelle altre sette?
filosofiazzero:
sei un fazioso insopportabile….nella prima domanda poni al centro il diritto della famiglia, nella seconda il diritto del figlio, a tuo comodo e piacimento (ossia tutto indirizzato verso la tua tesi).
Formula IL VERO PUNTO così e forse capisci meglio: Chi si può arrogare il diritto di vita su un’altra persona? E secondo quali parametri poi? Quelli tuoi? MA ABBI PAZIENZA….
…nessun dogma io sostengo, cerco solo di mettermi nei panni di quei genitori che scoprono
che il loro figlio avrà delle malformazioni gravi (non gli occhi non azzurri eccetra).
Voi avete già la risposta, mentre invece loro ci dovranno pensare.
A un embrione, lo so anche io, non gli si può chiedere cosa lui preferirebbe, se vivere, non vivere, se vivere sano, meno sano, eccetra…
Allora che decidano il suo babbo e la sua mamma, almeno.
La ferocia consiste nel volere avere ragione e (possibilmente) questa ragione imporla anche agli altri, come vorrebbero fare tutte le sette.
Anch’io mi metto nei loro panni (e l’ho anche scritto mi pare…), e affronterei una notizia del genere solo appoggiandomi in Dio, ma una verità (o quella che tu dici riteniamo tale, per dirla alla tua maniera…) va detta, e la questione qui non è “credere che Dio esiste o non esiste”, è: uccidere o non uccidere (tra l’altro chi è più debole) e avallare una legge, un giudice o quel che sia, che ti concede il diritto di farlo.
Non tutti i panni sono uguali. Ci sono i panni di Chiara Corbella che ha messo al mondo due figli sapendo che sarebbero vissuti solo pochi giorni però ha preferito farli nascere perchè, se si fa parte di quella che tu chiami una setta, si ritiene che il padrone della vita sia Dio e li ha consegnati nelle Sue mani battezzati, poi ne ha messo al mondo un altro sano ma per farlo nascere ha dovuto morire perchè aveva un cancro e ha preferito non curarsi per non danneggiare suo figlio. Che ferocia vero? Ci sono i panni di chi ha un figlio sano e poi però per un accidente diviene disabile e lo abbandona perchè il giocattolo si è rotto. E’ una storia vera, di un’Eluana non famosa. Non si chiama Eluana ma è ridotta come Eluana. Nessuno ne ha mai parlato perchè nessuno ha mai pensato di sopprimerla andando per anni in televisione per perorare la sua causa. E’ la figlia di una coppia benestante, bello lui, bella lei, bellissima la bimba. Belle macchine, viaggi di lusso, una vita da film. A meno di due anni la bimba, vivace come tutti i bimbi, ingoia il tappo di una crema mentre viene cambiata. La colpa non è di nessuno, la bambina era adorata. Può succedere, è un attimo. Va in anossia e si riduce a un vegetale. Il padre non regge alla nuova situazione. Probabilmente infantile, lascia moglie e figlia e continua la sua vita “dorata” con un’altra o con altre donne. La mamma si fa carico del problema: tiene a casa la bambina con la dovuta assistenza, si sacrifica, non ne parla mai con nessuno, mai un Porta a Porta, niente. Ci sono i panni di un uomo che non essendo il padre naturale di quest’altra Eluana, si innamora della mamma e si prende tutto il pacchetto, accudisce anche lui la bambina (che ormai ha vent’anni) come fosse sua figlia. Io non so quali siano i miei panni in materia perchè non mi sono mai trovata in situazioni simili. Non parlo di panni teorici (a parlare siamo buoni tutti), parlo di panni veri, quelli intrisi di lacrime e sangue. Però ho l’onestà di ammettere che, se mai mi fossi trovata incinta di un bambino down e avessi deciso di abortire, lo avrei fatto per egoismo. Non c’è un altro motivo. I bambini down, quando sono amati, sono felici e gioiosi e non vorrebbero mai non essere nati. L’amore è quello di Chiara, quello della mamma dell’Eluana ignota e dell’uomo che le ha fatto da padre. Quello del padre naturale è egoismo. E la ferocia denigratoria è solo la tua che ti permetti di definire una setta una religione che si basa sull’amore fino al sacrificio della propria vita proprio come ha fatto Gesù. Tu hai tutto il diritto di essere ateo e quindi di ritenere di avere il potere di sopprimere una vita ma di questa definizione ti dovresti solo vergognare!
brava Giusi
Grazie
Solo una postilla. A rischio di sembrare pignola, perché si tratta della scelta di una parola o di un’altra, la bambina di cui parla Giusy (quella che è andata in anossia per semplice disgrazia) NON è diventata “un vegetale”.
E’ una persona, un essere umano, e lo resterà sempre. Questi non sono vezzi linguistici: viviamo immersi in un’atmosfera culturale talmente inquinata che è facile finir per usare automaticamente dei termini che in realtà esprimono concetti lontanissimi da noi. “Vegetale”, per esempio. Per citare uno che ne sa molto più di me:
«[…] la nozione di stato “vegetativo” è una manipolazione linguistica, perché induce a pensare che il soggetto in questo stato non sia più un essere umano, bensì un vegetale.
Invece (come illustrava già Aristotele), è l’essere (la natura) di un’entità ciò che determina le sue potenzialità e che determina il suo agire (per esempio una farfalla ha una sua natura, perciò non può avere le potenzialità di un gatto e non può compiere le attività di un gatto e lo stesso vale per il gatto e le sue attività, che non possono essere quelle della farfalla): non si può agire in un certo modo se non si ha già la natura corrispondente […]. E la mera cessazione dell’agire non può cambiare la natura di un ente: un melo non smette di essere melo perché non produce più mele, un pesce non smette di essere pesce se non riesce più a nuotare e una persona non smette di essere persona se, in stato “vegetativo”, cessa di compiere attività razionali.»
Questo e molto altro di estremamente importante in
http://www.lanuovabq.it/it/articoli-stati-vegetativiroutley-insegna-5322.htm
Dimenticavo: Giusy, non voleva essere una critica acida contro di te, solo una riflessione per tutti. Certe parole ci galleggiano intorno come esche ed è meglio non abboccare 🙂
Hai ragionissima! Ci ho pensato io stessa dopo aver postato. In realtà ho usato un termine che usa la cultura (?) dominante e che non corrisponde a verità. Basta pensare a Salvatore Crisafulli che per i medici era in stato vegetativo e non sentiva niente. Si è svegliato (contro ogni previsione) e ha detto: “sentivo tutto, piangevo perchè non riuscivo a farmi capire”. La tua precisione era doverosa. Grazie! 😀
Volevo dire precisazione.
Ooops, dovevo scrivere Giusi e non Giusy. Altro esempio di come siamo ‘guidati’ dalla mentalità dominante… 😉
Lo fanno tutti perchè c’è questa “inglesizzazione” dominante. In realtà io all’anagrafe mi “intitolo” Maria Giuseppa come la nonna paterna. Non ti dico i drammi quando ero piccola per questo nome! Non mi piaceva. In famiglia mi hanno sempre chiamata Giuseppina. Anche questo nome non mi faceva impazzire. E lì a sognare di chiamarmi Isabella o Angelica. Poi a scuola le amichette ti danno sempre il diminutivo e allora è nato Giusi che mi sono risolta ad usare perchè ormai tutti mi identificavano così. Tornassi indietro, col senno di adesso, mi farei chiamare col nome della più bella del mondo: Maria! P.S. Non ho la prova scientifica ma posso assicurare che chiamarsi come la Sacra Famiglia è un privilegio. Ho potuto sperimentare personalmente la fondatezza di quanto diceva S. Teresa d’Avila riguardo a San Giuseppe: “Non mi ricordo finora di averlo mai pregato di una grazia senza averla subito ottenuta”. Pensa che faccia tosta la mia! Dopo aver “aborrito” per una vita di chiamarmi Giuseppa (più che altro perchè mi sembrava un nome da maschio) quando ho un problema vado da lui e dico: “Tu che sei il mio Santo….”. Ma quell’uomo è di una bontà infinita, mi ha perdonata… Ora mio nipote più grande (si sa come sono i ragazzi) per prendermi in giro (secondo lui) mi chiama Maria Giuseppa… Lo sai che mi fa piacere? 🙂
Nome d’alto rango in Cielo e anche in terra 😉
Molto gettonato per future principesse, regine e imperatrici (la Giuseppina di Napoleone era in realtà una Marie Josephe Rose).
Quella con i maggiori problemi all’anagrafe sembra essere stata una principessa di Sassonia-regina di Spagna il cui corredo onomastico completo era:
Maria Josepha Amalia Beatrix Xaveria Vincentia Aloysia Franziska de Paula Franziska de Chantal Anna Apollonia Johanna Nepomucena Walburga Theresia Ambrosia (era nata il 7/12…)
Apprezzo moltissimo questa nota, e i reciproci chiarimenti tra Giusi e Viviana. Dalla parola alla sostanza, il passo è breve, e così si “declassa” (ops, cambia, senza ordine gerarchico!) un soggetto a soggetto d’altra natura, e magari anche ad oggetto.
Ieri mi è capitato di ascoltare lo sfogo di una mamma, secondo me ha molto a che fare con questo argomento. Lei ed il marito hanno tre figli, un maschio e due femmine, ed aspettavano il quarto, un maschio. Al quinto mese, di fronte alla diagnosi di una malformazione incompatibile con la vita, è giunto l’inevitabile suggerimento: abortire (anzi, ad essere …pignola 😉 interrompere la gravidanza). La signora, sostenuta dal marito, ha scelto di accompagnare comunque questo figlio alla nascita, con la prospettiva che potete immaginare. La gravidanza non è durata nove mesi, al settimo (due mesi fa) c’è stato il parto, la nascita e la morte del bambino poche ore dopo. Ora, qual è il punto? Un bambino è nato ed è morto. Questa coppia sta lentamente elaborando un lutto. Questa donna sta soffrendo per la perdita di un figlio. Pensa a lui come ad una persona che le è venuta a mancare. E questa è una sofferenza, che fortunatamente può condividere con suo marito. Ok, qual è il punto? Il dramma aggiuntivo di questa coppia è che nessuno riconosce questa sofferenza, nessuno pronuncia parole di conforto come normalmente si fa in caso di lutto: per loro è stato uno shock accorgersi che tutti hanno considerato questo evento uno spiacevole incidente di percorso, una patologia da guarire, che ne so, un’anomalia fisica da resettare. Questa perdita, questa separazione da un figlio NON ha il conforto e il beneficio di un’umana solidarietà, di quella condivisione anche sociale del dolore che tanto può aiutare a lenire una ferita. Due genitori stanno provando qualcosa di “indicibile” e “incomunicabile” perché gli altri non capiscono come si possa soffrire la perdita di qualcosa che non è più percepito come soggetto umano. Da ‘figlio’ a ‘prodotto del concepimento’, ed ecco che l’azione dell’antilingua raggiunge e modifica la definizione del reale. Da questa modifica si generano poi relazioni fallaci, isolamenti non colmabili. Un padre e una madre oggi hanno bisogno di chi parli la stessa lingua e non ne trovano intorno, hanno anche rinunciato a “disturbare” amici e parenti che mostrano di non percepire la differenza tra un qualunque stato depressivo post-operatorio e la perdita di un figlio.
“E’ una persona, un essere umano, e lo resterà sempre. Questi non sono vezzi linguistici: viviamo immersi in un’atmosfera culturale talmente inquinata che è facile finir per usare automaticamente dei termini che in realtà esprimono concetti lontanissimi da noi”
Potere delle parole, cara Viviana.
La nota è il commento di
senm_webmistress
14 dicembre 2012 alle 09:10
questa impaginazione a volte è faticosa .-D
E’ il relativismo, signora mia. Dalla temperatura ‘percepita’ (l’altra sera un telegiornalista discettava in tutta serietà del rapporto numerico tra temperatura segnata dal termometro e temperatura percepita, come se fossimo tutti freddolosi o riscaldabili allo stesso modo) al lutto ‘percepito’; se a quella coppia fosse morto un animale da compagnia – scusate il cattivo gusto – il lutto percepito sarebbe stato più elevato?
@Angelina mi collego all’episodio che racconti anche se non è esattamente questo il caso, per ricordare che è necessario fare esplicita richiesta all’ospedale per ottenere il corpicino del bimbo nato morto, per potergli dare degna e cristiana sepoltura o verrà considerato come feto abortito e quindi uno “scarto ospedaliero”.
Cmq esiste una precisa normativa facilmente reperibile in internet
(es. http://www.laquerciamillenaria.org/news.asp?id=357), che fa anche distinzione sul numero di settimane in cui dovesse verificare l’evento.
Il punto è Alvise che nessuno ha il diritto di scegliere chi può stare al mondo e chi no…
Per me sceglierlo da feto o da “partorito” non c’è differenza. Si pensa di non poter accudire bene ad altri figli, allora si abbia il coraggio di sopprimere il più anziano che a rigor di logica a già vissuto più del neo-nato.
Sei troppo intelligente Alvise per non comprendere che è un piano inclinato e con questa stessa razio si farà per il malato o handicappato qulunque sia la sua età (già lo si fa con i vecchi) e magari perchè si scoprirà che il nascituro non ha… gli occhi azzurri!! Tanto è una “cosa”…
Poi dove sta la ferocia? Avrai letto il mio secondo pensiero…
Maria Giuseppa ed Alvise Maria: i due poli opposti….
a proposito: che la sciùra Costanza prepari i cani da slitta per arrivare a Cassina de’ pecchi e Nova,stasera….
Ma quando c’è Maria di mezzo……
Vorrei segnalare questo articolo sull’ambiguita’ dell’handicap che ho trovato molto interessante:
http://www.prolifenews.it/economia-e-vita/ambiguita-dellhandicap/