di Costanza Miriano
Sono seduta in un vagone della metro, due ragazzi parlano fra di loro del loro prof, a occhio e croce sono universitari. A dire la verità uno parla, l’altro un po’ lo ascolta un po’ smanetta sul telefonino, che è poi l’occupazione prevalente dei passeggeri, soprattutto da quando c’è rete anche sottoterra. Diversi fissano il vuoto.
Pochi, se vogliamo essere precisi in questo momento uno solo, nel mio campo visuale, legge. Una cosa accomuna tutti: la faccia seria. Nessuno, ma proprio nessuno al momento sorride. A dire la verità neanche io, che devo scrivere questo articolo e non mi posso distrarre.
Eppure credo che questo dovrebbe essere il nostro compito in questa terra di missione che sono diventate le nostre città senza cattedrali, le nostre strade senza immagini sacre, le nostre metro senza sorrisi. Portare la buona notizia. Vorrei dire alla mia vicina di sedile, che sta giocando a briscola col suo cellulare, e al vicino dall’altro lato, l’operario rumeno con le mani crepate che lotta contro il sonno, vorrei dire che noi siamo a immagine di Dio!!! Che siamo di stirpe regale, divina, che noi somigliamo al creatore dell’universo. Siamo sicuri che possiamo essere malinconici, annoiati, demotivati? Tristi sì, va bene, quello può succedere, anche Gesù lo è stato.
Ma annoiati, grigi, no, non possiamo abituarci al miracolo che ci è annunciato dal primo capitolo della Genesi: “facciamo l’uomo a nostra immagine, secondo la nostra somiglianza”. Dice Joaquin Navarro Valls l’uomo che è stato a fianco di Giovanni Paolo II che il Papa aveva fatto una scelta di fondo dell’anima, la scelta di essere allegro. Perché a questa cosa, o ci credi, o no. E se ci credi, come puoi essere triste? Come è possibile non gioire di essere della stirpe dell’Onnipotente, a sua immagine?
fonte: Credere
…credo ergo gioio!
Sììììììììììììììììììì!!!!!!!!!!
@filosofiazzero: al massimo più che Descartes, pariodiamo sant’Agostino! “Credo ut gaudeam”… che sempre errato è, ma almeno suona meglio!
L’ha ribloggato su mondidascoprire.
Grazie!Ce lo ha ricordato Navarro Valls,ce lo ricordi ancora tu!Quale miglior riflessione per la Quaresima che prepara al Passaggio?
Mettiamola così: come mai quasi mai, in un vagone della metro come questo, di un treno, nelle sale di aspetto di un ospedale, ma ache in fila ad una biglietteria, piuttosto che in una pizzeria, ci accorgiamo che c’è qualcuno si “stirpe regale”?
Com’è che nessuno si accorge che c’è qualcuno che, oltre ad esserlo, ne è perfettamente consapevole?
O se vogliamo, per chi ci guarda, non c’è alcuna “luce” diversa, una consapevolezza di qualcosa che certo agli astanti resta velata di “mistero” (sinché non ne avrà domandato il motivo), ma non resta nascota?
Naturalmente non mi riferisco a Costanza, in questa specifica circostanza (non ero lì)… potrei anche dire semplicemente “Bariom parla per te…” (e ci sta tutta), ma dovrei notare ancor di più io, consapevole tra tanti inconsapevoli, se qualcuno di “stirpe regale” mi siede accanto o mi sta vicino… e accade ahimé molto, molto raramente.
Confidiamo in questa ormai prossima Pasqua… confidiamo che ci dia lo Spirito del Risorto, che apparve “trasfigurato” (tanto che i suoi non lo riconobbero), Lui, che già prima della Sua Morte, tanto diverso dagli altri uomini era, anche solo nel suo vivere esteriore.
Confidiamo, crediamo e chiediamolo, o dell’esser “Figli di Re” non resterà che pallido riflesso, non distinguibile dalla altre umane gioie di un momento.
Bariom:
…no, quelli di “stirpe regale” (cioè voi cattolici), non avete nessun “aura”, misteriosa o meno, che vi avvolga, come nei quadri dei santi. Non per nulla, anche nei quadri dei santi, i pittori hanno dovuto inventarsi l'”aureola” per distinguere quelli di stirpe regale dagli altri!
Credo che nemmeno la Pasqua potrà cambiare questo “fatto”!
@Alvise, infatti il cristiano non ha nessun “aurea”… non a quella mi riferivo, ma tu come sempre intendi ciò che ti è comodo intendere, per ribadir concetti a te cari.
Dei quadri od altre rappresentazioni che non siano icona (che di per sé già rappresenta la santità), l’aureola è “artificio pittorico” ad indicar ciò che brilla nell’animo e che traspare all’esterno.
Simbolo di quella mistica corona (mistica lo so non ti piace…) che il Re e i Figli Suoi, portan sul capo.
Libero poi di pensare che nulla traspare (anch’io l’ho detto, ma segnando un limite, non una impossibilità), come a te sempre piace fare.
Sulla luce poi, è chiaro che a te piace più la penombra, se non l’oscuro… 😉
Per anni ho preso la metro ogni giorno, e ricordo di aver avuto pensieri molto simili. Guardavo la fisionomia delle persone, ne scrutavo gli atteggiamenti (sette fermate!) chiedendomi quali pensieri avessero. E ad alcuni dedicavo (mentalmente) un “Angelo di Dio, che sei il suo custode…”
@angelina ti capisco. Personalmente, per andare al lavoro, attraverso 12 fermate della metro B, compreso tutto il tratto della B1 attualmente esistente, e 15 di autobus (e c’è di ben peggio nell’Urbe!)… E con un po’ di imbarazzo devo ammettere a me stesso che al più riesco a pregare per chi incontro e ha il volto più sofferente o stanco, sebbene le riflessioni di Costanza le ho fatte spesso, e sarebbe stato strano il contrario.
Questo lo faccio sempre anch’io: prego per le persone che incontro, quelle che sembrano più tristi e adoro lo Spirito Santo che è in loro (questo me l’ha insegnato un sacerdote).
Giusy.
…pigli la palla al balzo?
E a volte mi succede (non sempre ma spesso) che la persona per la quale sto pregando (e non sto guardando) alza lo sguardo e mi sorride…….
E’ bello pregare gli uni per gli altri.Hai mai pensato che sul quel metro’ c’e’ probabilmente qualcuno che sta pregando anche per te?
Magari!
Cara Costanza, a volte è davvero difficile vedere gli altri o se stessi di stirpe regala sulla metro o alla posta!se non altro però vedo tante persone che mi somigliano, di qualsiasi razza religione o cultura siano, ed è già qualcosa!
Anni fa, a catechismo, i bimbi mi dissero che a scuola avevano imparato che discendevano dalle scimmie. Li ho guardati e ho ammesso che forse loro era vero che discendevano dalle scimmie, ma io proprio no, perchè ero figlia di un Re e di una Regina! E’ stato l’inizio di un discorso fra noi a partire dalla Genesi, portato avanti con passione, e alla fine uno dei bimbi mi ha detto: Domani lo dico alla maestra che si sbaglia, forse lei non lo sa. Credo ci sia tanta gente che “non lo sa”, per questo sono tutti imbronciati.
Cara Franca, il problema non è tanto “saperlo”, quanto sperimentarlo, perché se anche lo sai e poi vivi (nel senso si vive – tutti) come mendicanti di questo o di quello, o peggio come schiavi di questo o di quello (e mi sa che le due cose cozzano un po’ con la “regalità”), c’è poco da fare…
Ecco perché la mia provocazione di cui sopra che chi lo sa, ma più opportunamente sperimenta di esserlo, lo mostri!
La lucerna, mi pare si usava dire, non è fatta per stare sotto al moggio… o sbaglio? 😉
Franca 35:
…non sono “tutti imbronciati”!
@filosofiazzero: guarda meglio… I più orgogliosi di essere “senza Dio” sono anche i più imbronciati in assoluto. Se non ci credi fatti un giro in qualche sitarello di “umanisti razionali” tipo l’UAAR. Ne gireranno di ulcere tra gli iscritti! 🙂
….dici dsavvero?!?
p.s. non fo giri per punti sitarelli!
Bariom:
…dici davvero?!?
@Alvise, io tendo a dire sempre “davvero”, tranne quando si sta scherzando… e qui ora, non sto scherzando.
La mia sopra non era indirizzata a Bariom ma a “Ubi Deus ibi pax”.
Chiedo scusa!
@filosofiazzero: oh icché tu dici? Qui sovrabbondano i tuoi giri, ed anche quello UAAR è fondamentalmente un blog, come questo. Peraltro lì certamente troveresti concordanze di vedute. Il giretto servirebbe solo per constatare che l’unico aggregante nell’attivismo ateo è il livore (e in taluni casi uno scientismo di comodo).
Ubi Deus ibi pax:
…io non ho nessun livore e me ne frego dell’ UARR e dello “scientismo di comodo”!
@Alvise:
ammesso sia vero (solo tu e il Signore potete saperlo!), direi che quel “tutti”, matematicamente parlando ci può stare se vuol dire “quel nutrito gruzzolo di atei, tranne uno” 😀
Fai bene a fregartene dell’UAAR; ripeto li ho citati solo per confutare ironicamente la tua tesi per cui gli atei (e per atei non mi riferisco all’ateismo pratico di chi vive ut si Deus non daretur, ma agli atei militanti cui immagino tu ti senta più legato) non sarebbero pressocché perennemente imbronciati. 🙂
Ubi Deus ibi pax:
…non è mia la tesi che gli atei non siano perennemente imbronciati, ma vs. che lo siano,
o che lo dovrebbero essere. Leggi bene il post e i commenti!
Infatti gli atei non sono “perennemente imbronciati” o almeno non lo sono ipso facto per essere atei…
Lo sono tutti coloro che sono senza una speranza.
Coloro senza una speranza appena plausibile seppur irraggiungibile.
Lo sono coloro che guardan sempre solo il loro ombelico,
Coloro che si sentono defraudati o vittime della “malasorte”.
Lo sono coloro che non ce la fanno, che vivono di debiti morali o materiali.
Coloro che credono di aver “troppo amato”.
Lo sono coloro che da nessuno si sentono amati e forse da nessuno lo sono.
Coloro che vivono in solitudine.
Lo sono coloro che preferiscono la solitudine al rischio dell’abbraccio.
Coloro che nel volto dell’altro trovan sempre solo un viso imbronciato più del loro.
Lo sono coloro che nell’altro vedono un “nemico”, un avversario.
Coloro che hanno dimenticato la famiglia… il padre la madre i fratelli le sorelle.
Lo sono coloro che non li hanno mai conosciuti.
Coloro che non ricordan più neppur una preghiera.
Lo sono coloro che non pregano per non chiedere o per timore d’essere ascoltati.
Coloro che non hanno incontrato ancora Dio, che a tutte queste attese
alle umane inquietudini, pone mano… porge Se Stesso.
Ancor più imbronciati e tristi sono i volti di coloro che Dio hanno incontrato,
ma come gli altri vivono e si arrabattano.
Per costoro, ancor più difficile, sarà il sorriso dimenticato.
Aggiungerei:
Coloro che non sanno esser grati.
Lo sono coloro che non conoscono il predono, dato o ricevuto.
…imprimatur!
??? Tutto qui?
Mi deludi…
@filosofiazzero: le tesi contano davvero poco. Quel che impressiona è il non riuscire mai a scorgere consolazione e serenità in chi fa del suo ateismo una bandiera (come appunto gli aderenti all’UAAR), cioè coloro che cercano attraverso convegni, manifestazioni, libri, proteste più o meno civili, di far passare il messaggio che “essere atei è figo, e non una visione della vita di serie B, da disperati, nel senso letterale del termine di senza speranza”. Le statistiche, i lunghi elenchi di celebrità dichiaratamente atee, l’idolatria della scienza (che fa molto fine ‘800) per lasciar passare il messaggio “noi sì che siamo razionali, quegli altri son fermi a Tolomeo”, son tutte cose che creano persino nocumento alla “causa atea”, quella cioè degli atei militanti che si sentono discriminati… Ciò che traspare da una simile impostazione è per l’appunto aggressività, insofferenza, insoddisfazione.
Ma se non ti fai un giro per quel sito o per altri affini, anche internazionali, non puoi capire a cosa alludo.
Puoi trovare qualcosa di simile anche nel mondo cattolico, specie nell’oltranzismo tradizionalista, ma sono eccezioni. Non troverai invece siti di atei militanti privi di insulti, bestemmie e tanta rabbia (persino contro gli atei aperti al dialogo, come coloro che partecipano al Cortile dei Gentili del Card. Ravasi). E’ un triste dato di fatto, che avrà delle cause….
…non “discendiamo” dalle scimmie, SIAMO scimmie. E’ risaputo questo!
Verrebbe giustamente da dire: “Parla per te, bertuccia!” 😉
…bertucce siamo!
@Bariom: LOL.
Non per altro ai Darwin Day laicisti alcuni credenti hanno affiancato i Mendel Day (per Alvise: Gregor Mendel oltre ad essere un illustre biologo, fu anche monaco agostiniano, finanche a diventare abate).
http://www.mendelday.org/
48 cromosomi al posto di 46 dice nulla? Studiare un pochino prima di parlare, no, eh?
Siamo tutti dei re (da una poesia di Tagore): bellissima canzone che vinse lo Zecchino d’Oro
Si sorride quando se ne ha motivo. Ma se nessuno conosce e riconosce il fatto che siamo figli di Dio, per primi tanti preti che sembrano sfatti funzionari statali di uno stato che paga poco e male… Se il cattolicesimo non fa conoscere la Verità e nono lo mostra con la fede viva dei suoi pastori, a cosa serve? Se il sale perde sapore, non vale più nulla. E nel giro di un paio di decenni la maggior parte delle chiese sarà chiusa per mancanza di ‘personale’…
@ritabettaglio, anche questa è spesso (non sempre…) una pur triste verità, ma ogni battezzato è chiamato ad essere “sale”.
D’altronde i preti non nascono “sotto i funghi”… se invecchiano e muoiono (come tutti) ed altri non ne prendono il posto, chi dovrebbe fare un’autocritica? (e non mi si dica la Chiesa…)
Tutti, a cominciare dai genitori che non educano i propri figli alla fede. Che vorrebbero trovare la chiesa aperta ma non si preoccupano che il parroco, avendo 150 anni, un giorno o l’altro non ce la farà più. Ognuno ha la propria responsabilità.
Hill Harold, “Figli di re” (ma secondo me la traduzione è sbagliata, avrei tradotti con “Figli del Re”, letto anni fa, bellissimo: http://www.clcitaly.com/Products/ViewOne.aspx?ProductId=5445
@filosofiazzero guarda che di “stirpe regale” mica sono solo i cattolici. Dall’ateo al buddista passando per l’ebreo e il musulmano, lo sono tutti… in quanto figli di Dio. È questo a renderci stirpe regale, tutti indiscriminatamente.
Che poi tu non ci voglia credere, pace. Solo, ti perdi una grande occasione in più di felicità.
@Tess, mi dispiace, ma non “tutti indisciminatamente”…
Creature di Dio, Figli di Dio e Stirpe regale c’è differenza.
Mi cito (che poi non cito me stesso) riportando quanto riportato già su altro commento:
«Voi siete la stirpe eletta, il sacerdozio regale» (1 Pt 2, 9). Questa testimonianza di lode una volta fu data all’antico popolo di Dio per mezzo di Mosè. Ora ben a ragione l’apostolo Pietro la dà ai pagani perché hanno creduto in Cristo, il quale come pietra angolare ha accolto le genti in quella salvezza che Israele aveva avuto per sé.
Chiama i cristiani «stirpe eletta» per la fede, per distinguerli da coloro che, col rigettare la pietra viva, sono diventati rèprobi.
Poi «sacerdozio regale» perché sono uniti al corpo di colui che è re sommo e vero sacerdote, il quale, in quanto re, dona ai suoi il regno e, in quanto pontefice, purifica i loro peccati col sacrificio del suo sangue. Li chiama «sacerdozio regale» perché si ricordino di sperare un regno senza fine e di offrire sempre a Dio i sacrifici di una condotta senza macchia.
Sono chiamati anche «gente santa e popolo, che Dio si è acquistato» secondo quello che dice l’apostolo Paolo, esponendo il detto del profeta: Il mio giusto poi vive di fede; se invece indietreggia, non si compiace di lui l’anima mia; ma noi, dice, non siamo di quelli che si sottraggono per loro perdizione, ma gente che sta salda nella fede per salvare l’anima propria (cfr. Eb 10, 38). E negli Atti degli Apostoli: «Lo Spirito Santo vi ha posti come vescovi a pascere la Chiesa di Dio che egli si è acquistata con il suo sangue» (At 20 28).
Perciò siamo diventati «popolo che Dio si è acquistato» (1 Pt 2, 9) con il sangue del nostro Redentore, cosa che era una volta il popolo di Israele redento dal sangue dell’agnello in Egitto.
Perciò nel versetto seguente, dopo di avere ricordato misticamente l’antica storia, insegna che questa deve essere compiuta anche in senso spirituale dal nuovo popolo di Dio dicendo: Perché abbiate ad annunziare i suoi prodigi (cfr. 1 Pt 2, 9). Come infatti coloro che da Mosè furono liberati dalla schiavitù egizia intonarono un canto trionfale al Signore, dopo il passaggio del Mar Rosso e l’annegamento dell’esercito del faraone, così bisogna che anche noi, dopo aver ricevuto la remissione dei peccati nel battesimo, ringraziamo degnamente per i benefici celesti…»
Dal «Commento sulla prima lettera di Pietro» di san Beda Venerabile, sacerdote (Cap. 2; PL 93, 50-51)
Da ciò si evince che non tutti possono dirsi di “stirpe regale”, tanto meno Alvise che tal stirpe disdegna e ritiene fanfalucca…
Questo non per dire tu si, lui no (io stesso poi un tempo ero tra coloro che rinnegavano tale stirpe)! Ma per rendere giustizia alla Verità e perché resti chiaro che esserlo – di stirpe regale – è un onore ma anche un onere, che bisogna assumersi e che comporta responsabilità oltre che “privilegi”.
Che poi siamo tutti “creature di Dio” da Lui amate, questo è altro discorso…
…da cui, anche, si evince che si può dire, casomai, che siano di stirpe regale, degli altri, non di se stessi.
Non esattamente. Siamo di stirpe regale in quanto beneficiamo di una regalità che non ci appartiene o almeno non del tutto, né possiamo arrogarcene il diritto di possesso.
Il Popolo eletto è, appunto – eletto – e l’elezione qualcuno la deve dare. L’ha dà chi ha il potere di darla.
In più si parla di appartenere a questo “popolo”, il Popolo di Dio, il Popolo che Lui ha scelto. Una “nazione santa” (dove anche la santità viene da Dio).
E viene anche detto “un Popolo diverso da tutte le nazioni”, quindi se c’è “diversità”, non può essere intrinsecamente per tutti ( non è che in Inghilterrra tutti sono “baronetti” per il fatto solo di risiedere sul suolo inglese 😉 ).
Comunque, vedila così: l’essere di stirpe regale – lo scoprire di poterlo essere – è come una sorta di eredità, che molti non sanno è già stata per loro preparata… è lì che ti attende o attende che qualcuno, un messo, ti raggiunga per dirti: “Ti è stata lasciata questa eredità, puoi andare a prenderne possesso…”
Poi come sappiamo, c’è a chi non interessa, chi ha altro da fare, chi deve accudire i buoi appena comprati, chi deve seppellire un morto… e chi ha i suoi muretti a secco 😉
Grazie, Costanza!
E’ proprio quanto ho avuto occasione di sostenere in questo blog qualche tempo fa, rispondendo ad un commento di Alvise, al quale facevo notare che “cattolico infelice” è un ossimoro.
P.S.: è un po’ lungo, ma se non lo conoscete vi consiglio di leggere questo (magari stampandolo e leggendolo con calma):
Via Lucis ispirata da Gesù con presentazione di Padre Raniero Cantalamessa
TI PARLERO’ DELLA MIA GIOIA
Questo volumetto dell’Anonima contemporanea fa da pendant all’altro, dal titolo II mistero della mia Pasqua. In quello, Gesù spiega i vari momenti della sua passione; in questo fa ripercorrere le “stazioni” della sua gioia. Dice: «Come mediti durante la Quaresima su ogni stazione della via crucis per cercare di compatirmi, di identificarti con me sofferente, così, e forse ancor di più, hai bisogno di fermarti a ogni tappa della via della gioia per lasciarti invadere dalla certezza della presenza del mio amore, della gioia della mia risurrezione».
Da varie parti si è fatto osservare una lacuna nel nostro modo di vivere la liturgia. Chiamiamo “tempo forte” la Quaresima e le diamo risalto a livello di riti, di pratiche, di iniziative pastorali, ma non facciamo altrettanto con i quaranta giorni dopo la Pasqua che sono, a più forte titolo, il “tempo forte” dell’anno liturgico. Celebrata la domenica di Pasqua e la sua ottava, tutto sembra esaurito e chiuso fino alla Pentecoste. Non c’è continuità tra l’una e l’altra festa. Non si celebrano più i «cinquanta giorni dopo la Pasqua», come nei primi secoli, ma solo il «cinquantesimo giorno» dopo la Pasqua. Eppure i quaranta giorni prima di Pasqua, la Quaresima, sono di istituzione ecclesiastica, mentre quelli dopo la Pasqua, fino all’Ascensione, sono di istituzione divina. Tertulliano chiama questo tempo «il tempo dell’esultanza e della festa» in cui non si deve né digiunare né inginocchiarsi, né dare spazio ad atteggiamenti di tristezza. Questo libretto potrebbe aiutare a colmare questa lacuna, almeno a livello personale, che è la premessa a una maggiore valorizzazione, anche a livello pastorale, del tempo pasquale.
Dio sa se il credente e l’uomo di oggi hanno bisogno di scoprire questo «Dio felice che fa felici», come lo chiama sant’Agostino! Forse per una forma di autodifesa, se non di orgoglio, noi siamo restii a credere nella gioia. Si capisce allora perché Cristo apre la sua lunga catechesi sulla gioia dicendo: «Bisogna fare a me il sacrificio di essere felici! Dare a me la gioia di vederti felice a motivo mio! Tu devi essere felice di fede, felice di fiducia, felice di me! […] Ogni volta che ci si chiude alla felicità, ci si chiude a me! La tristezza è la misura esatta del proprio attaccamento a se stessi: denuncia il proprio egoismo. Tu devi essere colma di vita, di allegrezza spirituale, di certezza, di audacia e di fede! Io, ai miei discepoli, rimprovero solo due cose: paura e tristezza». Una educazione alla gioia: così si può riassumere il senso di queste pagine.
Il discorso (tutto rigorosamente, come al solito, in prima persona) si snoda toccando le varie manifestazioni del Risorto: ai discepoli di Emmaus, alla Maddalena, agli apostoli sul lago, a Tommaso, a Saulo, additando le ragioni di gioia racchiuse in ogni suo gesto e parola. Non “rivelazioni private”, dunque, ma sempre e solo commento alle parole della Scrittura. Gesù mostra di essere lui stesso, in grado sommo, quello scriba dotto nelle cose del Regno che tira fuori dal suo tesoro (le Scritture!) cose antiche e cose nuove (Mt 13, 52). Si tratta infatti di cose nuove che sembrano antichissime e cose antiche che sembrano nuovissime. Ecco, per esempio, che Gesù spiega che cosa rappresenta il seme caduto tra le spine, tra i sassi o sulla strada. Tutto sembra perfettamente tradizionale, ma si giunge a spiegare chi rappresenta il seme caduto sul terreno buono, ed “eccoti la sorpresa”, come dice il titolo del capitoletto numero 11, il lampo di luce che difficilmente uno dimentica per il resto della vita. (Lascio al lettore di scoprire da solo di che si tratta, augurandogli di uscire promosso dall’esame). C’è poi qualcosa di più antico e, insieme, di più nuovo della spiegazione del mistero eucaristico che si legge al capitolo 12? Il pane eucaristico è l’esempio più sublime del terreno buono. «Sul pane, il sacerdote pronuncia una parola. E il pane è abbastanza aperto ad accoglierla, abbastanza docile a me, abbastanza disponibile per essere completamente trasformato». La parola che il pane accoglie è: «Questo è il mio corpo». («Il vero Vangelo della Messa non è quello che si legge dopo l’epistola. Quello non è che una preparazione, un orientamento ogni giorno nuovo verso il mistero centrale. Il vero Vangelo è la consacrazione. Che cos’è la consacrazione, se non un passo del Vangelo che, letto con fede, ascoltato da tutti con fede, riprende l’efficacia che aveva nel momento in cui è stato pronunciato la prima volta, ritrova di nuovo tutta la forza, tutta l’ispirazione del mio spirito e riprende a operare ciò che significa? Una parola, e il pane è trasformato, transustanziato!») Ecco spiegato, nel modo più semplice, come e perché «l’Eucaristia fa la Chiesa» e perché chi accoglie la parola di Gesù diventa per lui «fratello, sorella e madre». A me questa spiegazione fa tornare in mente la celebre definizione di sant’Agostino del sacramento: «Si unisce all’elemento [qui, al pane] la parola ed ecco il sacramento (Accedit verbum ad elementum et fit sacramentum)».
Un tratto insolito e commovente è come il Risorto parla di sua madre, che chiama semplicemente, come farebbe ognuno di noi, «mia Mamma». Solo colui che l’ha concepito poteva spiegare in questo modo il mistero di Maria. I tre capitoletti finali dedicati a lei sono quanto di più bello e teologicamente profondo abbia mai letto sui rapporti di Gesù con sua madre. «La mia Mamma ha avuto un’apparizione nella sua vita, una sola: l’annunciazione, e questa le è bastata per sempre. Si vuole dire che io, risuscitato, sia apparso prima a lei, ma così si manca di fedeltà a lei stessa. Le mie apparizioni risvegliano ed educano la fede dei miei apostoli, ma alla fede della mia Mamma non mancava nulla. L’annunciazione l’ha dispensata per sempre da nuove apparizioni. […] La mia mamma è la sola che la mia morte non solo non ha scoraggiata, ma neppure separata da me. […] Solo la lampada della sua fede non si spense. Fu il solo tabernacolo che non divenne una tomba». A queste parole segue un’affermazione a prima vista sorprendente: «Le ore di attesa della mia risurrezione non le passai affatto agli inferi. Se ci fu un luogo al mondo in cui potei riposare e compiacermi prima di risalire al Padre fu certo la comunione con la mia Mamma». Cristo, però, non dice che non è «disceso agli inferi», ma che non ha trascorso tutto e solo laggiù il tempo tra la morte e la risurrezione; più ancora che negli inferi, la sua anima era, per fede e amore, unita a quella della madre. Egli era risuscitato nel cuore di lei prima che dalla tomba, come, a dire di sant’Agostino, nell’incarnazione «era stato concepito, per fede, da Maria, nella sua mente prima ancora che nella sua carne». Anche umanamente parlando questo rapporto figlio-madre è di una delicatezza, virilità e “umanità” tali da costituire un’altissima e rara creazione poetica.
Questo piccolo libro, come tutti gli altri, editi e inediti, della stessa fonte, riserva sorprese a ogni riga. La prova più sicura che viene da Dio è… che conduce a Dio. Parla al cuore, riempie di stupore e di desiderio di adeguarsi a tanta luce. E il motivo è semplice: chi parla è lo stesso Risorto vivo e reale oggi, come quando parlava alla Maddalena o spiegava le Scritture ai due discepoli sulla via per Emmaus.
Il lettore si chiederà certamente chi è in realtà l’autore del libro. A questo proposito non posso che ripetere quanto ho scritto nella presentazione del volumetto sulla Pasqua: la domanda è destinata, purtroppo (o fortunatamente), a rimanere senza risposta. L’autrice – che di una donna si tratta – è fermamente decisa a mantenere l’anonimato, ritenendosi un semplice strumento, che presta al vero autore poco più che la sua mano… e non poco del suo sonno. Conoscendo in che circostanze sono nate queste pagine e le numerose altre della stessa mano posso solo dire che il fatto di far parlare Cristo in prima persona non è, in questo caso, una semplice finzione letteraria…
PADRE R. CANTALAMESSA
1 – Bisogna fare il sacrificio di essere felici
Ti parlerò della mia gioia, della gioia che io ti ho lasciato. Io ho detto: «Vi do la mia gioia. Voglio che la mia gioia dimori in voi e che la vostra gioia sia piena». Se tu fai penetrare queste parole in te, tutte le tue tristezze si cambieranno in gioia, tutte le tue prove in grazie e le tue colpe saranno così illuminate, cancellate, da divenire per te delle felici colpe: non ricorderai altro che la mia bontà, la mia tenerezza, la mia gioia.
La mia Novella è Buona Novella e tu devi essere messaggera di gioia, testimone della mia risurrezione. La tua perenne gioia è ciò che deve distinguerti dalle altre persone e deve essere il mezzo del tuo apostolato. Sì, io ti faccio depositaria della mia gioia. È strano, la gente è più portata ad affliggersi con me che a rallegrarsi in me. Si capisce la Quaresima e vi si prende parte, ma vi sono due “quaresime”.
Ascoltami bene: quaresima vuoi dire quaranta giorni; ci sono quaranta giorni di penitenza ed è istituzione umana perché la mia passione è durata solo qualche giorno; poi ci sono quaranta, anzi cinquanta giorni, fino a Pentecoste, per cercare di svegliarvi alla gioia, e questa “quaresima” è di mia istituzione, ma è completamente ignorata.
Pensa, sul Calvario c’era qualcuno con la mia Mamma, ma alla mia risurrezione non c’era più nessuno; nessuno più credeva, erano tutti disperati, ho dovuto convertirli uno a uno alla realtà della mia gioia. Con me pellegrinerai sulla via della gioia, mediterai su ogni mia apparizione, rifarai con me tutte le esperienze con le quali, teneramente, pazientemente, affettuosamente, ho tentato di svegliare i miei apostoli alla mia gioia, di convincerli alla mia risurrezione, di mutare le loro tristezze in gioia.
A Quaresima finita, resta da fare la mortificazione più grande, la rinuncia più grande, quella che tutte le altre dovevano preparare e che proverà la loro sincerità: bisogna fare a me il sacrificio di essere felici! Dare a me la gioia di vederti felice a motivo mio! Tu devi essere felice di fede, felice di fiducia, felice di me! Vivere talmente di me, essere talmente unita a me che, quando ti esamini, non trovi in te nulla di più vivo della mia gioia.
La tristezza schiaccia e fa ripiegare su di sé. Pensa: quando io annunciai ai miei discepoli il mio ritorno al Padre mio, invece di interessarsi a me, di rallegrarsi della mia felicità, ciascuno di essi non pensò che a sé, ciascuno si afflisse della propria perdita e nessuno mi amò abbastanza per seguirmi nel momento in cui comincia la mia gioia! Ogni volta che ci si chiude alla felicità, ci si chiude a me! La tristezza è la misura esatta del proprio attaccamento a se stessi: denuncia il proprio egoismo. Tu devi essere colma di vita, di allegrezza spirituale, di certezza, di audacia e di fede! Io, ai miei discepoli, rimprovero solo due cose: paura e tristezza.
2 – La fiducia che non avevano osato riporre in me, io la riponevo in loro
Quando io mi sono rivelato, tutti hanno capito di aver compiuto fino allora ogni gesto della loro vita con sforzo e stanchezza. Mi avevano amato con un amore scoraggiato, con un amore che non credeva di piacermi, che non osava rallegrarmi. A poco a poco, avevano permesso che un velo di paura e di tristezza, di malintesi e di negligenze, si stendesse da me a loro. Avviliti dal sentirmi così lontano, respinti dal mio silenzio, avevano finito con il credersi più generosi e più attivi di me e con l’accontentarsi di un Dio muto, che in fondo rispondeva al loro tornaconto: erano, infatti, più liberi di fare i loro interessi, di attaccarsi a tutto ciò da cui potevano aspettarsi qualcosa dal momento che non aspettavano più nulla da me. Ma quando io mi sono rivelato, ho lacerato tutti i veli, ho scavalcato tutti i limiti, ho abbagliato, ho sbalordito tutto il mondo. Quando io mi sono mostrato Dio, c’è stata una rivelazione di gioia! Io ero infinitamente migliore di quanto avessero creduto.
Ero giovane, pieno di tenerezza, amabile, infinitamente buono, indulgente, audace, comprensivo, gaio, felice… ero Dio! Si aspettava un giudice, un vendicatore, un carnefice e nasceva un bambino.
Ci si preparava a una resa dei conti, ci si disponeva a mettersi in regola con me, e un bambino tendeva le braccia, chiedeva amore, protezione, tenerezza. Tutta la fiducia che gli uomini non avevano mai osato riporre in me, io la riponevo in loro.
Vedi, il mio Vangelo incomincia con un’immensa allegrezza. Sono annunci, promesse, miracoli, chiamate: uno stupore continuo. Il mondo è messo sossopra; ciascuno riceve infinitamente di più di quanto aveva creduto che fosse possibile. Pensa, Elisabetta, la sterile, ha un figlio; Zaccaria, l’incredulo, profetizza; la Vergine diventa la mia Mamma; i pastori conversano con gli angeli; i Magi danno tutto ciò che hanno; Simeone non ha più paura di morire e così via. A volte non si adora che un idolo, perché io sono svanito dal cuore! Chi mi sperimenta, al mio passaggio non trova che letizia: io mi chino, parlo, chiamo e dappertutto spunta la gioia, la speranza, l’entusiasmo. Stupisco, inebrio tutti: sazio le folle con il pane, i pescatori di pesce, i commensali di vino, i malati di benessere.
Sai, la folla, alla moltiplicazione dei pani, s’accorgerà di non avere più fame. Pensa, di non avere più fame! Oh, un momento prima sarebbero venuti alle mani per un boccone di pane e ora ciascuno tiene in mano questo pane miracoloso uscito da una parola della mia bocca, e solo al tenerlo così in mano il cuore di ognuno si sente meravigliosamente sazio… Quando sono veramente presente io, non si ha più fame e sete che di me!
3 – La felicità è già cominciata
L’anima ha una esigenza immensa: ha bisogno nientemeno che di me! Il più grande errore è di credere che manchi sempre solo qualcosa, una piccola cosa per essere felici: un po’ di denaro, una promozione, la guarigione da qualche male, il superamento di un brutto momento… ma in tal caso non si sarà mai felici perché verrà sempre un’altra malattia, un’altra attesa, un altro bisogno. Sono io ciò che manca.
La felicità è già cominciata. Bisogna essere felici, immediatamente, assolutamente e in questo momento. Tu sei mia contemporanea, sei fin d’ora partecipe della mia vita, invitata alle mie Beatitudini. Hai la vocazione alla gioia. Io metto la mia gioia nel farmi conoscere, ma nulla riesce più estraneo, più sconcertante, più ingannevole delle mie manifestazioni: mi si prende sempre per qualcun altro.
Ho cominciato col vivere in mezzo agli uomini mettendo tutto l’amore di cui ero capace nella mia preghiera, nella mia famiglia, nel mio lavoro, ed è accaduta questa cosa stupefacente: dopo trent’anni nessuno aveva ancora fatto caso alla mia presenza! Ho predicato, spiegato, agito, fatto dei miracoli, profetato, ma i miei compagni più fedeli, i testimoni di tutte le mie parole, dopo tre anni ignoravano ancora chi ero. Meglio ancora, risuscito, appaio a quelli che mi hanno amato più degli altri e nessuno di essi mi riconosce. Maddalena mi prende per l’ortolano. Gli occhi dei due di Emmaus sono “impediti”, così che non mi riconoscono. Gli apostoli, dopo la pesca miracolosa, vedono un forestiero sulla riva e non osano domandare chi è, perché in qualche modo sanno che sono io.
Io sarò sempre, necessariamente, un Dio nascosto. Il mio grido più potente sarà sempre per gli uomini una specie di silenzio. Se non mi manifesto, dicono che mi nascondo, se mi manifesto mi accusano di velarmi. No, non è facile per me farmi riconoscere. Io non sono Dio che a condizione di sorprendere, di deludere in certo qual modo, di sconcertare. Io sono molto più grande del tuo cuore! Se io rispondessi alla tua attesa, se fossi ciò che immagini, non sarei Dio, sarei una tua idea!
4 – Aspettano l’Anticristo
Delusione della redenzione: avresti desiderato che ti rendessi esente dal peccato, ed è avvenuta attraverso il perdono del peccato. Peccherai sempre, ma sarai sempre perdonata! Delusione della risurrezione: non possiedi neanche più il mio corpo. Non hai più nulla a cui attaccarti, su cui riposare. Non hai altro che dei segni della mia presenza, dei richiami alla fede, dei fragili trampolini che ti precipitano sempre verso un altro mondo. Delusione dell’Ascensione: me ne sono andato, lasciando a bocca aperta, eternamente divisi, stiracchiati fra quel cielo che aprivo e quella terra che affidavo.
Delusione della Chiesa: troppo umana e troppo divina, troppo compiacente e troppo intransigente, stendardo alzato per riunire intorno a me le nazioni o spauracchio che le scoraggia dall’accostarsi a me. Ambiguità necessaria, perché non è una invenzione dell’uomo, ma è la mia Chiesa. Se ti soddisfacesse, sarebbe falsa, perché sarebbe tua. Beato l’uomo per il quale passare per la Chiesa è passare per la croce. Egli è sicuro di sfociare in me. Se la Chiesa è misteriosa, deludente, è perché io vi lavoro. Coloro che aspettano una Chiesa che soddisfi ogni esigenza, una Chiesa che possa riunire tutti, aspettano l’Anticristo. Il mio nemico entusiasmerà tutti quelli che non sono contenti di me.
Delusioni delle apparizioni: io risuscitato non solamente non rassomigliavo a Dio, ma non rassomigliavo più neanche a me stesso! Gli apostoli cominciarono a ritrovarmi solo quando si decisero ad accettare di vedermi diverso da come si aspettavano. Ero in mezzo a loro, ma ciò che era necessario perché mi riconoscessero, non era che io cambiassi, ma che loro si mettessero a credere. Io non mi restituii a loro che quando si decisero ad ammettere che io potevo manifestarmi a loro sotto qualsivoglia apparenza, con qualsiasi volto! Lentamente, durante quei quaranta giorni, impararono ad aspettarmi in ogni momento, in ogni circostanza.
Io sono amore e la morale delle apparizioni è questa: non mi si può vedere e continuare a vivere come si viveva prima di vedermi. Vedermi significa morire alle proprie vedute, alle proprie esigenze, ai propri gusti e aprirsi alla mia volontà, alle mie manifestazioni. Maria Maddalena non ha potuto restare al livello in cui era; ha dovuto passare a un altro modo di comunicazione con me. Sono stato strappato alla sua tristezza, alle sue esigenze, ai suoi progetti; deve riconoscermi in altro modo e vivere in altro modo nella mia intimità.
Il mio passaggio ti spoglia sempre di qualcosa. Io sono ciò che di più tenero e più terribile c’è al mondo. Non lo sai? Il segno della mia presenza, la prova che una mia parola ti ha toccato, è che non te ne sei sentita mai più indegna e che non ne sei stata mai più felice! È necessario morire proprio là dove ci si sente più pieni di vita e bisogna imparare a vivere là dove non ti senti altro che morta: là io parlo, agisco, ti amo!
5 – I discepoli di Emmaus avevano creduto di credere
Facciamo una seconda stazione di gioia! Sei pronta? Sei disposta a startene in silenzio, a stazionare, a non andare avanti fino a che la mia parola ti abbia fatto morire e vivere, fino a che ti abbia svegliato alla mia gioia? Leggi Luca 24, 13 ss. I discepoli di Emmaus sono due che avevano creduto di credere, che avevano creduto di sperare, ma che al primo urto, scoraggiati, sono stati gettati a terra e si trascinano avanti in solitudine.
Come i discepoli, tutti dovrebbero fare l’esperienza di un incontro con me che ero morto; come loro dovrebbero riconoscere che il Padre mio ha esaudito la loro speranza e mi ha risuscitato. «Uno di loro, chiamato Cleopa, gli rispose: “Sei dunque il solo…”». Impazienza di un uomo che pensa che la tristezza della sua sorte sia abbastanza evidente, per non aver bisogno di spiegazione! Ma il mio discepolo è l’uomo dell’azione di grazie! È colui che enumera i suoi motivi di ringraziamento e di riconoscenza.
Quando vieni a Messa non è per lamentarti, ma per rendere grazie! Il mio dialogo con i discepoli di Emmaus si rinnova a ogni Messa: perché siete tristi? Perché vi sentite oppressi? Non state celebrando l’Eucaristia? E tutti mi rispondono come loro: «Sei dunque proprio l’unico a ignorare ciò che è accaduto in questi giorni?». Allora io do una risposta sbalorditiva: «Che cosa?». Chissà se si riesce a capire questa mia innocenza, questo stupore radioso.
Quando mi si riparla della mia spaventosa passione, quando mi si vogliono ricordare i terribili avvenimenti attraverso i quali sono passato, do l’impressione di un superamento totale, di un passaggio così perfetto nella gioia e nella gloria del Padre mio, che è come se non mi ricordassi più della terribile strada per cui vi sono giunto. È come se dicessi: «Ma che cosa avete? Di che cosa parlate? Io non me ne ricordo più. Vi siete fermati lì? Come siete lenti! Ma non avete dunque compiuto il passaggio? Su via, rendetevi conto che la vita eterna è già cominciata, io sono con voi tutti i giorni!».
A ogni apparizione il cielo rimprovera alla terra la sua tristezza. La terra crede di avere delle ragioni per essere triste. Il cielo ha le sue ragioni per esultare. E il bello è che sono le stesse! C’è l’amore: che gioia, che trionfo per me; ma per la terra è terribile: c’è stato un sacrificio! Per la terra c’è stato peccato, per il cielo c’è stato perdono!
Due uomini se ne vanno oppressi e curvi, convinti di essere dei falliti. Avevano creduto un giorno, avevano desiderato di servire la causa della liberazione di Israele, sono stati esauditi, come sempre, ma non se ne sono accorti e quando la redenzione è compiuta, li ha lasciati con un senso di disperazione. Ora non hanno più illusioni! Si corazzano ormai contro ogni speranza. Mi raccontano ogni cosa e io irradio una soprannaturale letizia. È ben strano, vero? Vedermi fisicamente presente, risuscitato nel mio corpo e tuttavia non riconoscermi! Perché, dunque, apparire per non essere visto e risuscitare per non lasciarmi ritrovare? Mentre gli occhi del corpo sono impediti, quelli dell’anima si aprono e il loro cuore diviene ardente mentre li rimprovero; ma il mio è un rimprovero così dolce che si sentono intenerire a tanta affettuosa impazienza, si lasciano docilmente penetrare da queste parole di certezza: «Non era forse necessario che io patissi tutto questo per entrare nella gioia?».
6 – La loro mente si è aperta
Ai discepoli parlo, spiego loro la Scrittura ed essi, che credevano di sapere a memoria questi testi ripetuti fino alla noia da quando erano bambini, ecco che piano piano cominciano a capirli come una rivelazione. La mia parola diventa viva, operante: denuncia e smaschera. Tutte queste storie del passato riflettono ora la luce sul presente. Nello specchio delle profezie che io tendo loro, accettano finalmente di guardarsi: vi si ritrovano; anch’essi hanno riesaminato la loro vita alla luce della Scrittura! Hanno cominciato a capire che cosa era avvenuto, ciò a cui avevano assistito, partecipato, senza capirci nulla. Hanno compreso quanto sono stati stolti e tardi a credere, come erano passati attraverso tutti questi miei interventi nella loro vita senza rendersene conto, senza renderne grazie, tutti chiusi nel loro gretto punto di vista e nella loro paura.
Io ero stato sempre con loro e non se ne erano accorti. Poi, cominciando dalla Genesi, spiegai loro tutte le mie apparizioni, tutte le mie manifestazioni di cui l’uomo non è mai stato soddisfatto; tutti segni della mia tenerezza. E tuttavia, io non mi sono mai stancato di rendermi testimonianza, ho escogitato un piano più bello che se non aveste mai peccato; mi sono rivelato di più. Le vostre ripulse non hanno fatto che stimolare la mia bontà.
A poco a poco la loro mente si è aperta e hanno capito che questa mia presenza aveva toccato l’apice, il punto culminante della mia manifestazione lì davanti a essi, per loro, sotto i loro occhi, nel momento stesso in cui si erano creduti irrimediabilmente perduti e abbandonati! Si sono svegliati, si sono sentiti riscaldati, sconvolti, si sono lasciati lavorare dalla mia parola. Ecco che senza aver ancora riconosciuto me, questa Parola li fa agire a mio riguardo come se mi avessero già riconosciuto! La mia parola è efficace! Essi non ne hanno ancora chiara coscienza, non cercano ancora la causa di questo ardore del cuore, ma se ne lasciano guidare, mi obbediscono, mi dicono: «Resta con noi, perché si fa tardi e il giorno sta per finire». E io entro per restare con loro. Nessuno è più docile, più tenero, più disponibile di me. Nessuno ti accompagna a questo modo, nessuno ti compare davanti più volentieri, nessuno resta più fedelmente accanto a te! Io mi rendo visibile, ma essi diventano sensibili: quando si riconosce in profondità chi sono si rimane sconvolti e si cambia.
7 – Non è facile per un Dio farsi riconoscere
Quando i discepoli si sono trovati a tavola con un ospite ancora sconosciuto, ma che aveva tanto potere sul loro cuore, che parlava con tanta autorità delle Scritture, che li riprendeva con la stessa affettuosa impazienza con la quale un tempo erano stati tante volte ripresi, ecco che io mi levo in mezzo loro e mi vedono benedire e spezzare il pane con l’autorità del Maestro e del Padre.
Allora l’emozione non più contenuta si è riversata dal cuore nella mente stupefatta. Hanno avuto l’impressione di vedere qualche cosa di già visto, l’impressione che quanto avveniva in quel momento fosse già avvenuto ieri l’altro. Tentavano disperatamente di ricordarsene. E quando all’improvviso hanno saputo, quando mi hanno guardato per riconoscermi con gli occhi dopo avermi riconosciuto con il cuore, io mi sono reso invisibile al loro sguardo. Nel momento in cui sono riusciti a dare un nome e a definire l’emozione che avevano provata, l’apparizione è svanita, perché non era che il mezzo, il sacramento, il segno sensibile della mia presenza viva nella loro anima.
Non hanno ricevuto una grazia più grande di quella che hai ricevuto tu: mi hanno riconosciuto soltanto per la fede. Mi hanno riconosciuto nel mio Sacramento, dal gesto di amore con cui ho spezzato il pane. Mi hanno riconosciuto da quel dono di se stessi che ero riuscito a suscitare nella loro anima. Li ho dapprima indotti a invitarmi, poi a trattarmi come un fratello, poi ad avere per me un senso di rispetto, a credere alla presenza in loro stessi di qualche cosa di sacro e di divino che si è affermato, precisamente, a partire dal momento in cui si sono fidati di me. I discepoli di Emmaus hanno fatto, come te, un atto di fede. Io sono passato, a loro riguardo, dal nascondiglio del vedere senza riconoscere a quello di conoscere senza vedere. Renditi conto che ciò era indispensabile, che non è una mia astuzia per rendere loro il compito più difficile.
Non è mai facile per un Dio farsi riconoscere! Come pensi che io provi la mia identità? Con folgori, tuoni? Se mi manifestassi così, non solleverei nel mondo che due sentimenti, già talmente diffusi che non è proprio necessario che io intervenga per moltiplicarli: la paura o l’interesse! Io non voglio essere riconosciuto che dal mio amore. Io parlo al cuore. Soltanto coloro che mi ascoltano così mi conoscono veramente, mi rispettano in ciò che ho di più intimo e di più vivo: il mio amore!
8 – Io avevo rimediato alla loro tristezza
Ai piedi della mia croce, i miei avversai cercavano di tentarmi: «Scendi dalla croce! Non startene lì inerte, immobile. Scendi trionfante! Scendi glorioso!». Me lo ripetono durante tutta la vita. I miei fratelli mi spingono: «Via, sali a Gerusalemme, dimostra ciò che sei!». Tutti mi davano dei consigli sul modo di manifestarmi. Anche oggi mi si chiedono le stesse manifestazioni: cambia mia moglie, cambia i miei figli…
Ma io a tutto questo rispondo che non mi riconoscereste mai; se si accettasse di ascoltarmi e di cambiare personalmente, si finirebbe col riconoscermi nella propria casa e nelle persone. Se i discepoli di Emmaus mi avessero riconosciuto con gli occhi, non avrebbero avuto bisogno di diventare sensibili a me, docili a me, permeabili a me. Avrebbero potuto rimanere stolti e lenti a credere. Per fortuna si sono lasciati lavorare, trasformare da me durante il ritiro che ho loro predicato per alcuni chilometri di strada. Anch’essi però non sono stati più favoriti di te, mi hanno riconosciuto dai due sacramenti di cui tu disponi: la parola viva e la frazione del pane.
Quasi ogni mia apparizione è stata accompagnata da un pasto preso in comune. E come già sai, l’apparizione si è conclusa con una missione. Ite, Missa est! Immediatamente si sono alzati e sono partiti per andare a ritrovare gli altri. Si sono precipitati verso gli altri per comunicare ad essi la loro gioia e la loro fede. Come Maria Maddalena, sono stati rilanciati dalla mistica nell’apostolato e nella vita di contatto fraterno.
La loro gioia fu di far comprendere a tutta la Chiesa che la mia presenza non è un’apparizione fugace, una fortuna individuale, un incontro straordinario. La loro esperienza eucaristica provava che questa presenza era un diritto di ogni credente, era un potere che io avevo affidato loro per sempre. Ogni volta che lo avessero voluto, avrebbero potuto adunarsi fraternamente e celebrare l’Eucaristia, rendendomi presente in mezzo a loro nella frazione del pane. Io avevo rimediato alla loro tristezza, colmato di gioia la loro povertà, saziato il loro fervore.
9 – La gioia è lenta a sorgere
La gioia è lenta a sorgere! I discepoli di Emmaus hanno dovuto fare alcuni chilometri con me prima che il loro cuore ardente si svegliasse, prima di ri-conoscermi. Non ne faccio loro un rimprovero! Coloro che gioiscono troppo presto, avranno una gioia assai corta! La gioia sarà in proporzione della sofferenza! È la tristezza che sarà cambiata in gioia! Gli apostoli sembravano molto lenti e molto tardi in confronto a te! Si sono fatti ripetere tante volte le cose. Mi dicevano: «Non abbiamo capito! Spiegaci!». È stato necessario convincerli a lungo, ripetere le spiegazioni.
Ma la loro fede è stata altrettanto sincera quanto la loro incredulità, e la loro gioia ha avuto la profondità della loro disperazione.
La vera gioia è lenta a crescere! Non hai che da leggere la vita della mia Mamma per capire di che natura è la vera gioia! Lei! «Beata, tu che hai creduto!» Lei! La causa della tua gioia! Ha pronunciato delle parole che puoi ripetere con rapimento, tanto ti confortano! «Figlio mio, perché ci hai trattato così?» Ecco delle parole che a te rinfrescano l’anima, ti aiutano a concepire che la gioia della mia Mamma, anch’essa, fu una tristezza superata, una gioia di fede.
La gioia non è necessariamente esuberante e sentita. Può essere una gioia nella quale si crede: tanto viva e reale quanto la tua fede. Disponi di una gioia inesauribile, ma è fatta di un perpetuo miracolo; è un dono quotidiano del Padre mio, come la tua fede, la tua speranza, la tua carità. Hai una gioia da dare al mondo; sei responsabile della gioia del mondo. Quando la gioia cessa di sollevarlo, il mondo ricade nella sua antica disperazione. Prima gioia, prima beatitudine di cui i discepoli di Emmaus hanno fatto l’esperienza: «Beati coloro che ascoltano la parola di Dio!».
Sì, non ti devi allontanare da questo episodio! Ci sono ancora molte cose da imparare. Se vuoi che l’esperienza e l’evoluzione attraverso le quali sono passati i discepoli diventino tue, devi meditare, stazionare, a lungo. Anch’essi sono stati svegliati, riscaldati, rallegrati a poco a poco dalla mia parola. La mia parola è per te una sorgente di gioia? Gli altri non la gustano. Eppure la mia parola ha creato tutto: tu sei stata chiamata all’esistenza da una mia parola, tu sei una parola mia che deve edificare gli altri. La tua vocazione, il tuo destino, la tua conversione, tutto è il risultato di una chiamata, di una mia parola che ti è stata rivolta. Hai cominciato a esistere solo perché io ho pronunciato il tuo nome. E ogni volta che lo pronuncio di nuovo, avviene una nuova nascita, la tua vita s’illumina, il cuore si sveglia, la gioia cresce e ti sembra di non aver vissuto prima di quel momento. Sai, è la mia parola che ti giudicherà, non io né il Padre mio: noi siamo amore, aiuto, pietà, perdono, misericordia, non siamo giudici.
Leggi Giovanni 12, 47-48. La mia parola ti risusciterà e io parlo in quella zona inerte dove tu vuoi che io dia vita. La mia parola è viva, apriti ad essa, quando apri il Vangelo, non metterti a leggere ciò che è avvenuto un giorno: ascoltami, ti parlo.
10 Ci sono quattro specie di uditori
Se si legge il mio Libro come un libro ordinario, senza venerazione, senza fede, non porterà alcuna grazia, alcun vantaggio. Io stesso, per coloro che mi avvicinavano senza fede, per tutti quelli che mi consideravano un uomo come un altro, ero un uomo come un altro. Non comunicavo loro alcuna grazia, non potevo fare alcun miracolo.
Ricordi quella donna ammalata, nella folla, che cercava di avvicinarsi a me e diceva che sarebbe guarita solo se mi avesse toccato? Io sono talmente circondato, stretto, assalito dai curiosi che non riesce a raggiungermi. Poi, a un tratto, grazie a un movimento della folla, riesce a infilarsi, mi raggiunge, mi tocca. E sente un immenso benessere in tutto il corpo: è guarita! Immediatamente, io mi fermo: «Chi mi ha toccato?». La folla intuisce che deve essere accaduto qualcosa di importante. Tutti indietreggiano, tutti si scusano, tutti si difendono e quella povera donna si trova sola in mezzo al cerchio e confessa: «Sono io che l’ho toccato». Ora, cerca di capire: mi toccavano tutti, mi urtavano tutti. Nessuno era stato guarito. Una sola persona mi tocca con rispetto, con fede, con amore, ed è trasformata, rinnovata, guarita.
Allo stesso modo tutti prendono il Vangelo in mano, tutti lo sfogliano, lo percorrono superficialmente. Nessuno ne è nutrito, nessuno è cambiato, nessuno ha fatto un atto di fede. Sai cosa vuol dire leggere il Vangelo con fede? È la luce per la tua vita, sono io che vengo a vivere in mezzo al mondo. Io sono sempre lo stesso: pieno di amore, discreto; non mi impongo, mi propongo; chiamo, parlo. È tanto facile comportarsi come se non si avesse udito. È così facile impormi il silenzio! E gli uomini sono sempre gli stessi: grossolani, negligenti, distratti, duri di orecchio e duri di pelle, pronti a rimproverarmi perché taccio, ma trascurati nell’ascoltarmi. Il mio Vangelo ti rivela ciò che avverrà sempre: come io mi comporto verso di te, e come tu ti comporti verso di me, come mi tratti tu e come ti tratto io. Apri il mio Vangelo e guardati: impari a vedere ciò che stai facendo. Lasciati rivelare dal mio Vangelo. Soltanto quando ti vedi nel mio Vangelo, esso ti parlerà. È uno specchio. Sai come ti serve uno specchio? Devi vedere te stessa! Ebbene, cosa strana, nessuno si serve così del mio Vangelo: si vedono… gli altri.
Facciamo un’esperienza pratica? Tu conosci la mia parabola del seminatore. Io dico che se la mia parola non trasforma, la colpa non è della semente, che è feconda, viva, efficace. La colpa non è neppure del seminatore, tutto dipende dal terreno su cui cade. Allora facciamo un po’ l’esame di coscienza degli uditori e vediamo perché la mia parola non porta frutto.
Ci sono quattro specie di uditori, quattro specie di terreno su cui cade la mia parola. C’è anzitutto la strada maestra, cilindrata, impermeabilizzata, asfaltata dall’abitudine. La semente cade su di essa senza intaccarla. Hanno ascoltato un’infinità di prediche e nessuna li ha cambiati. Non si attendevano niente dalla parola e non l’hanno amata. Non hanno fame della mia parola. Chi si sente tanto povero da cercare una luce, il cibo di cui ha bisogno per continuare a vivere? Chi ha abbastanza fede per credere che io, che mi sono servito di un cespuglio di spine per manifestarmi a Mosè, posso anche parlare attraverso qualsivoglia predicatore? Il fedele simboleggiato dalla strada maestra certamente non lo crede. Che cosa tremenda se io ti rivelassi i pensieri in cui si intrattiene mentre io parlo e cerco di toccargli il cuore!
11 – Eccoti la sorpresa
Seconda specie di uditori è quella dei superficiali, delle anime sensibili ed entusiaste, ma senza profondità. Non conoscono se stesse, e non sospettano la resistenza che oppongono alla mia parola le loro abitudini, il loro egoismo, la loro incostanza. Non si sono mai date la pena di eliminare le pietre che soffocano il seme. Si entusiasmano facilmente e si credono convertite perché si sentono commosse; se poi accade loro di versare una lacrima, credono con questo di aver dato grandi prove di virtù. Tutto ciò che sentono le commuove, ma nulla si imprime nella loro anima. Si affrettano a ripetere agli altri i pensieri che cominciano a scuoterle e così se ne scaricano, invece di lasciarsene penetrare.
La terza specie è la terra profonda e feconda dove la Parola potrebbe germinare. Sono caratteri riflessivi, spiriti formati. Ma si affrettano a soffocarla: hanno timore che metta radici sul serio. Si stordiscono nell’agitazione, nel lavoro e considerano la loro vita presente abbastanza piena per dar loro il diritto di trascurare quella eterna. Si interessano a troppe cose per occuparsi anche di me. Sono troppo intelligenti per inchinarsi davanti alla semplicità della mia parola. Trovano sempre un’obiezione da oppormi, una ragione per contraddirmi, una scusa per dispensarsi dal pensare.
Nell’atto stesso in cui mi ascoltano, si impegnano in una giostra mentale da cui escono sempre vincitori. Sai, sono i peggiori: volontariamente insensibili, coltivano deliberatamente le spine del loro orgoglio, della loro agitazione, del loro motteggio per soffocare il buon grano che li minaccia.
Eccoti la sorpresa! Sai qual è il terreno su cui la mia parola porta frutto? Ebbene, sono coloro che si riconoscono nelle categorie che ti ho enumerato. Sì, non sono quelli che assistendo alla critica degli altri aspettano che si faccia il loro elogio. Sono coloro che si guardano nello specchio della mia parola e vi si riconoscono. La prendono per sé, si aprono a me, mi permettono di entrare e di operare in essi. Accettano di essere messi in discussione, accettano che li faccia scendere dal piedistallo della buona opinione di sé e si lasciano giudicare dalla mia parola. Allora essa penetra in profondità, matura, germina e porta frutti magnifici. La mia parola non è soltanto rivelatrice, ma operante. Illumina, trasforma. Devi credere nell’efficacia sacramentale della mia parola!
12 – II vero Vangelo della Messa non è quello che si legge dopo l’epistola
II vero Vangelo della Messa non è quello che si legge dopo l’epistola. Quello non è che una preparazione, un orientamento ogni giorno nuovo verso il mistero centrale. Il vero Vangelo è la consacrazione. Che cos’è la consacrazione, se non un passo del Vangelo che, letto con fede, ascoltato da tutti con fede, riprende l’efficacia che aveva nel momento in cui è stato pronunciato la prima volta, ritrova di nuovo tutta la forza, tutta l’ispirazione del mio spirito e riprende a operare ciò che significa? Una parola e il pane è trasformato, transustanziato! E tu, prima di ogni comunione, dici: «Signore, di’ soltanto una parola e l’anima mia sarà guarita». Ma è vero? Hai scoperto una mia parola che ti abbia fatto del bene? È terribile questa domanda, ma devi accettare di lasciarti giudicare dalla mia parola! Metti alla prova su queste parole, contro queste parole, la fermezza della tua fede. La mia Mamma ha vissuto per tutta la sua vita di un certo numero di parole che conservava nel suo cuore.
Quanto a te, in che consistono le tue provviste di viaggio? Hai nel cuore un certo numero di parole che ti nutrono, ti fortificano, ti consolano? Quali sono le parole che ti hanno nutrito, trasformato?
«Di’ una parola…». Sul pane, il sacerdote pronuncia una parola. E il pane è abbastanza aperto ad accoglierla, abbastanza docile a me, abbastanza disponibile per essere completamente trasformato.
Sugli uomini, quante parole sono state pronunciate e non hanno fatto che scivolare, sfiorare, perdersi.
Pensa al mio tempo: ci si convertiva ascoltando la mia parola. Un giorno il capo dei soldati del tempio decide di imprigionarmi e manda i suoi soldati per procedere al mio arresto. Io mi trovo nel tempio; sto parlando alla folla. Allora, per evitare un tumulto, si fermano dietro le ultime file, rimandando l’arresto alla fine del discorso e ascoltano. La mia parola è seminata anche su di loro; entra, penetra, rivela, opera. Immagina che dopo un certo tempo si siano guardati, abbiano abbassato la testa, abbiano ascoltato di nuovo e poi, non si sono nemmeno più guardati: quando io ho taciuto se ne sono andati. Era gente semplice, non erano né degli intellettuali, né dei vissuti!
Hanno messo a rischio la loro promozione, la loro carriera, la loro vita per una certa impressione che la mia parola ha fatto sul loro cuore.
Come si convertivano? Ascoltandomi con cuore aperto: con la ricettività, l’accoglienza, la disponibilità di un povero. Un’emozione prodigiosa si impadroniva della creatura all’avvicinarsi a me. Ascoltavano rapiti la risonanza della mia parola nella loro anima. Le mie pecore mi capivano, riconoscevano la mia voce e mi seguivano. Dicevo cose che rispondevano talmente a ciò che avevano bisogno di udire, che non capivano neppure più se queste verità venivano su dal cuore o se giungevano invece dal di fuori. Sentivano svegliarsi in sé ciò che era più vivo nel loro essere. Il loro cuore diventava tutto una fiamma mentre io parlavo.
13 – Cosa ti pare più convincente, un miracolo o l’Eucaristia?
Non abbiamo ancora finito di meditare su questa seconda stazione. I discepoli di Emmaus ti hanno insegnato a riconoscermi dalla mia parola, devono ancora insegnarti a riconoscermi alla frazione del pane. Io, risorto, quasi sempre appaio durante un pasto preso in comune. Ho iniziato gli apostoli alla celebrazione dell’Eucaristia. Li ho preparati a riconoscermi in quell’apparizione quotidiana a cui tu sei sempre invitata: la Messa. Per andare direttamente allo scopo, per poter sentire il mordente del discorso e riconoscere l’indigenza della tua fede, abbi il coraggio di domandarti: mi hai, qualche volta, riconosciuto alla frazione del pane? Ti è mai capitato di celebrare la mia Messa con uno spirito di fede così intenso da essere afferrata dalla grandezza di ciò che stai facendo, da sentirti amata all’infinito, in un modo che appartiene solo a me?
I miei due discepoli mi hanno ritrovato nel gesto di amore e di dono con il quale ho condiviso con loro il mio pane. Il pane è ciò che alimenta la vita. Chi dà il proprio pane, dona la vita. Mi riconobbero da questo gesto d’amore con il quale donavo loro la mia vita, da quel più grande amore con il quale solo io potevo amare. Mi riconosci tu da questo modo di amare fino in fondo che solo io posso inventare? Che cosa ti pare più convincente, un miracolo o l’Eucaristia, una manifestazione di potenza o un segno di puro amore?
Rifletti, quando io mi sono rivelato, quando ho voluto manifestare ciò che ero, in qual modo si doveva pensare a me, ho scartato tutto ciò che avrebbe potuto suscitare un’impressione straordinaria, abbagliarti: la ricchezza, il prestigio, la forza, il potere. Mi sono manifestato come un bambino, come un piccolo essere innocente, fragile, che si abbandona e si offre. Poi, come un crocifisso, come un uomo appeso a una trave. E infine come un pezzo di pane. Ho voluto apparire come qualcuno che serve, come l’ultimo di tutti, il servo di tutti. Ti entusiasma questa rivelazione?
Quando venne la mia ora, l’ora della mia rivelazione, io non ho fatto più miracoli, sono soltanto salito sulla croce! Sei sensibile ai valori veri per trovare divina quest’apparizione? O avresti preferito tuoni e lampi, o che discendessi dalla croce per scaricare sulla testa dei miei nemici i fulmini della mia rivincita?
La mia manifestazione attraverso le forze della natura non colpisce più gli uomini di oggi, da quando cioè la scienza è in grado di spiegare queste forze, di utilizzarle e di moltiplicarle. Sei stata affrancata da quella dipendenza, dal mondo della natura che per secoli è servita a far sperimentare e a educare alla dipendenza da me! L’uomo non teme più e non rispetta più i fenomeni naturali. Si sente capace di fare meglio. Questo cambiamento nell’atteggiamento di fronte alla natura implica un capovolgimento nel modo di raffigurarmi. Io ho rivelato l’umanità del Padre mio, la sofferenza del Padre mio, il suo Amore. Mi propongo senza imporre.
14 – Io ho inchiodato sulla croce la mia potenza
Molti cristiani tengono il piede in due staffe. Non sanno più quale sia il Dio in cui credono. Molti dicono “Padre” ma si rassicurano aggiungendo “onnipotente”. Mi ammirano, ma contano su Jahvè. Si commuovono sul presepio, ma si consolano pensando che alla fine del mondo io darò finalmente prova di forza! Vedi, sono in ritardo sul mondo, che ha ormai oltrepassato il concetto di un Dio la cui potenza rimediava a tutte le insufficienze tecniche; e doppiamente in ritardo su me, che ho rivelato il Dio dell’avvenire, il Dio che ama, dolce e mite di cuore. Io ho inchiodato sulla croce la mia potenza affinché nessuno si avvicini a me per interesse o per paura. Non bisogna chiedere al Crocifisso il successo o il benessere! Bisogna soltanto aspettarsi che io ami e che insegni ad amarmi. Io non ti servirò per proteggerti o arricchirti, io t’insegno a dare la tua vita per gli altri; a essere, come me, una che serve, t’insegno a essere felice!
Se guardi il mondo così com’è, non ti sembra che tutto avvenga come se io avessi deciso di lottare col diavolo ad armi pari? Il diavolo ha potere, dispone di denaro, di forza, di piacere e io non lotto che con il mio amore. Sono debole in questo mondo, ma non c’è forza più grande di quella di essere debole in questo modo. Ci credi a quest’amore? Mi riconosci da quest’amore? Mi riconosci allo spezzare del pane? Se mi riconosci dal gesto di amore col quale divido con te il mio pane, la mia Vita, tocca a te farlo conoscere oggi, rivelarmi sempre vivo per mezzo dell’amore appreso e ricevuto da me!
La Messa è l’espressione momentanea del culto che si deve a me. Essa lo sostiene, è segno e fonte della tua divinizzazione, ma non ne è fonte se prima non ne è segno. La vera Messa è quella che celebri nella vita; la vera azione di grazie è quella che mi rendi in ogni tempo e luogo.
15 – Andiamo a un altro incontro
Il mondo si riscatta nella tua vita e non nella Chiesa: con l’intensità di fede e di amore che metti nella tua vita. Credi che non sia possibile mettere nella tua vita, di oggi, così com’è, molto più amore? Credi che sia necessario per questo poter cambiare la vita? No, è semplicemente il modo di amare che deve ricevere nuovo impulso!
Quando una donna si domanda: «Che cosa posso preparare oggi a pranzo?», dovrebbe voler dire come può dimostrare ai suoi cari che li ama. Allora questo cibo avrebbe veramente buon sapore, un sapore di amore. Supponi per un momento di dover portare tra poco la tua ostia all’altare, e supponi che questo pane sia quello che hai guadagnato con il tuo amore della giornata, impastato con il tuo amore. Che specie di pane mi porteresti? Che profumo, che gusto avrà questo pane, fatto della tua vita? Che cosa terribile se tu mi offrissi un pane fatto di astiosità, di asprezza, di lamenti!
No, da te voglio sempre un pane impastato gioiosamente nella fierezza e nel rispetto della missione che ti ho affidata!
Adesso andiamo a un altro incontro, a una stazione fatta di brezza fresca, di aria aperta che sorge sul mare. Mi manifesto ai miei discepoli sul mare di Tiberiade. Leggi Giovanni 21, 1-3.
Essi sono disorientati dalla mia risurrezione, non ci si ritrovano. Io sono in cielo, felice, giubilante e loro continuano a vivere la loro povera piccola vita. In quell’ozio, in quella vacanza, in quella specie di torpore che tiene dietro alle emozioni troppo forti, gli apostoli tentano macchinalmente di riprendere il loro antico mestiere. Invano! Non saranno più pescatori. Un altro mondo si manifesta e traspare all’interno del loro mondo. Il tempo delle figure e delle parabole è finito. Il vero mondo è quello della fede. «D’ora innanzi sarete pescatori uomini! » Io mi presento, ma non mi riconoscono. Io ritrovo i miei discepoli esattamente nello stato d’animo in cui, qualche volta, ti trovi anche tu, con gli stessi sentimenti.
Non hanno preso nulla. Sono avviliti! Io li ho raggiunti in tutti i luoghi dove si credevano soli, abbandonati, perduti, e li ho dolcemente ricondotti alla fiducia, li ho pazientemente convinti della mia presenza, li ho svegliati alla mia gioia. Grido loro di gettare le reti e neppure la mia stessa voce e il miracolo dei pesci riescono a svegliarli dal loro torpore. Solo il mio amato Giovanni, il più spirituale, il più attento, il più sensibile a me, ha sentito nel suo cuore l’emozione di un tempo. Sente che qualcosa sta per ricominciare e la voce che sente fa troppo male perché non si tratti di me.
16 – Nessuno osava chiedermi chi fossi
Nella mia apparizione ai miei apostoli, preparo loro qualcosa da mangiare! Certo, avevano lavorato tutta la notte senza prendere nulla, al mattino dovevano sentirsi esausti e affamati. Ebbene io sono stato sempre tanto umile e servizievole da preparare loro la colazione. Maria Maddalena mi aveva preso per l’ortolano. Ecco la prova che puoi dare a tutti della mia risurrezione: mostrare che io sono vivo in te con il mio amore. Anche qui mi sono fatto riconoscere allo spezzare del pane, ma questa volta non l’ho soltanto diviso, l’ho anche fatto cuocere! Questo è un avviso per quanti devono compiere cose che credono profane e che dovrebbero santificare con l’amore!
Io dico agli apostoli: «Venite, mangiate». Essi sono impacciati, paralizzati dall’emozione, dal timore, dall’incertezza. Soltanto io sono perfettamente me stesso, sorrido, li invito. Nessuno osava chiedermi chi fossi perché sapevano che ero il Signore. Essi ne sono convinti indipendentemente da ciò che vedono o piuttosto da ciò che non vedono perché io non sono più come mi avevano conosciuto. E tuttavia, pur in questa piena convinzione interiore, i sensi non soddisfatti, si lamentano. Non mi “ritrovano”. Non rassomiglio più a me stesso. Non ho niente di straordinario.
Sono come tutti gli altri. E desiderano l’illusoria conferma di una parola, di un’affermazione.
Vogliono sentire e toccare prima di convertirsi a loro volta ai piedi della mia radiosa presenza.
Ma l’anima, sicura e ricca della propria scienza, non osa acconsentire a questo capriccio: sentendo di avere in sé tutta la certezza necessaria, accetta il doloroso smarrimento dei sensi che non riescono ad afferrare un oggetto non più fatto per loro. E più si astengono dal chiedermi chi io sia, più si superano e progrediscono in questa rinuncia e più la loro certezza cresce, più sanno che sono proprio io. Se si fossero lasciati indurre a dubitare, non avrebbero mai raggiunto la certezza. Se avessero preteso un cambiamento da parte mia, non sarebbero mai riusciti a credere. Per chi crede, per chi è sensibile e attento a me, mille obiezioni non riescono a far sorgere un dubbio, così come mille prove non riescono a dare la certezza a colui che resiste. Ricordi? Nel Cantico dico che io riconosco la mia sposa da una sola perla del suo collo. A educazione finita, i miei apostoli hanno imparato che io sono dappertutto, che posso apparire in ogni momento, e generalmente proprio là dove meno ci si aspetta di trovarmi. Sono diventati prudenti, attenti, rispettosi e mi hanno incontrato dappertutto.
Questa è la scelta che si impone: o lamentarsi di non incontrarmi mai, o accettare di cambiare nella misura necessaria e rallegrarsi di riconoscermi ovunque.
17 – Che età hai?
Come sempre, questo mio apparire e questo cibarsi insieme terminano con una missione. «Dopo aver mangiato, il Signore disse a Pietro: “Simone, figlio di Giovanni, mi ami più di questi altri?”.
Gli rispose: “Sì, Signore, tu lo sai che io ti amo”. Gesù dice: “Pasci i miei agnelli”». Ricordi questo brano? Mi ami, Pietro? Sì? Ebbene, occupati degli altri! Va’ dai tuoi fratelli, diventa un altro me stesso.
Voglio essere in te non tanto Colui che è amato, ma Colui che ama. Quando era giovane, Pietro faceva ciò che gli pareva, voleva una redenzione senza croce, una apparizione senza dolore, un regno con una buona sistemazione, io, invece, gli predico il suo destino, che è la profezia della vocazione di ognuno.
Che età hai? Quella in cui fai la tua volontà o quella in cui fai la volontà di un Altro? Non conta essere giovane o vecchia. Essere adulta in me è accettare di fare la mia volontà, accettare la mia apparizione nella tua vita così com’è, e quest’apparizione non avviene mai secondo il tuo beneplacito. Che età hai? Sei sottoposta alla mia volontà? Se vai dove ti pare e fai ciò che vuoi, allora sei ancora molto giovane. Quando sarai adulta in me, ti farai prendere per mano, ti farai condurre dove non vuoi, là dove non avresti mai il coraggio di andare, ma poi mi ringrazierai di avertici condotta.
Un giorno, sul Tabor, Pietro mi aveva detto: «Signore, è bene per noi stare qui. Permettici di restarci». E io diedi una risposta misteriosa che implicava morte e risurrezione, passione e gioia. E un giorno, sulla sua croce, dove non avrebbe voluto salire, Pietro mi ha ripetuto ciò che mi aveva detto sul Tabor, e il Tabor ora è eterno. Vedi, quando si parla della propria croce si pensa a malattie, sciagure o altre cose catastrofiche, no, la croce è proporzionata alla forza e all’essere di ogni anima.
Croce può essere anche un difetto che non si riesce a vincere, una persona che non si sopporta, un lavoro che non si accetta; io tengo conto della capacità e della sensibilità di ogni anima.
18 – Il segreto di Tommaso
Continuiamo il nostro pellegrinaggio sulla via della gioia. Sostiamo con pazienza a ogni stazione.
Come mediti durante la Quaresima su ogni stazione della via crucis per cercare di compatirmi, di identificarti con me sofferente, così, e forse ancor di più, hai bisogno di fermarti a ogni tappa della via della gioia per lasciarti invadere dalla certezza della presenza del mio amore, della gioia della mia risurrezione. La quarta stazione è quella di Tommaso. La Chiesa la tiene in serbo per la domenica in Albis, alla fine della settimana delle apparizioni, per coloro che non fossero ancora convinti.
Come ultima risorsa per convertirsi alla gioia, per convincere della mia risurrezione, la Chiesa ha scelto il mezzo, l’argomento, il modello che più conveniva; uno che ci rassomiglia abbastanza per potersi affidare a lui: Tommaso, il renitente, il dubbioso, il pessimista, colui che aveva a lungo brontolato che non si sarebbe lasciato sopraffare, che non si sarebbe mai indotto a credere, che non si sarebbe arreso, lui, con tanta facilità! C’è chi è duro a credere, e Tommaso era duro a credere! Ha tenuto duro più a lungo degli altri, ha opposto l’ultima resistenza, quella dei realisti, dei pessimisti, di coloro che diffidano sempre quando le cose sembrano troppo belle. Tommaso è un autentico uomo d’oggi, un esistenzialista, uno che non crede che a ciò che tocca, un uomo che non vuole farsi illusioni, un pessimista coraggioso che acconsente, sì, ad affrontare il male, ma che non osa credere alla felicità. Per lui il peggio è sempre la cosa più sicura. Il carattere di Tommaso si delinea a parecchie riprese nel mio Vangelo e sempre sotto la stessa luce. La risurrezione di Lazzaro: sono venuti a dirmi: «Signore, colui che tu ami è malato». Che preghiera discreta e fiduciosa! Non si chiede nulla, ma mi si informa… e si aspetta. I miei discepoli si preoccupano del pericolo di tornare in Giudea, io li rassicuro con una frase misteriosa che lascia però intendere che non c’è alcun rischio. Allora Tommaso dice: «Andiamo: moriremo con lui!». Questa non è la parola di uno che crede, ma di uno che dispera. Tommaso mi contraddice con brutalità. Tutto il suo coraggio è solo per la morte. Non sa aver fiducia. È lo stesso pessimismo che gli farà respingere con tanta energia l’annuncio della risurrezione.
Anche i suoi interventi sono piatti, pensa a quello del discorso dopo la cena: «Signore, non sappiamo dove vai, come potremo sapere la strada?». Non sa trovare di meglio, in quella sera, di questo dettaglio topografico. E io gli rispondo nel mio modo misterioso e trasparente: «Sono io la Via, la Verità, la Vita».
Ciò che mi commuove in Tommaso è la violenza della sua rivolta. C’è qualcosa di astioso nelle condizioni che mette alla sua resa. Una durezza così terribile viene da una grande sofferenza: è quello che fra i miei apostoli ha più sofferto della passione, quello che ha più rimpianti di non averne saputo morire. Allora ha trovato una sola pietra su cui posare il capo: la disperazione.
Almeno è stabile! Di fronte alle delusioni, anche tu dici: Basta, chiudo la porta. Essere morti fa meno male che essere vivi! E la stizza di Tommaso era questa: un dolore esasperato!
19 – L’uomo rischia la vita parecchie volte al giorno
Anche gli uomini d’oggi sono coraggiosi, capaci di affrontare la sofferenza e la morte. Sanno farsi ammazzare, a condizione tuttavia che si permetta loro di affermare che non credono alle cause per le quali affrontano la morte. Hanno paura di aprirsi alla speranza e alla felicità. Hanno paura di disfarsi di quella corazza di diffidenza e di rassegnazione con cui credono di proteggersi. E questo fa poi tanto male.
L’uomo di oggi rischia la vita parecchie volte al giorno: attraversa in fretta la strada, salta da un autobus in corsa, fa un sorpasso imprudente, ma non offre mai questo rischio. Acconsente a rischiare la propria vita per nulla, ma poi non sa a chi offrirla. Colui che pretende di non avere più speranza, è uno che spera di non più sperare. Chi pretende di non credere a niente è uno che crede di non credere a niente. Chi afferma che tutto è incerto, fa un’affermazione che crede certa. Chi dice di non avere illusioni ne è pieno. Soffrire di non amare qualcuno è il segno del vero amore. Soffrire di non poter credere, di non poter sperare è una forma di fede discreta, umile, tragica, lacerante, ma così sincera, così pura!
Per fortuna io conoscevo Tommaso. Sapevo che era diventato un po’ cattivo solo perché aveva sentito tanto male al cuore: per guarirlo dovevo consolarlo di essere stato cattivo. Osserva anche il carattere concreto, positivo, quasi materialistico delle esigenze di Tommaso: «Se non vedo, se non metto… ». Esigenza di vedere e di toccare, paura di lasciarsi abbindolare. La mia risposta a questa sua esigenza non ti pare sconvolgente? Oltrepassa tutto ciò che puoi immaginare. Ciò che Tommaso aveva enunciato come una esigenza assurda, come una sfida inverosimile formulata nel trasporto appassionato della sua resistenza, ecco che io l’accetto. Io mi sono lasciato vincere da Tommaso, sembro aver abbandonato per lui il disegno che avevo avuto riguardo agli altri. Per il solo Tommaso ho cambiato tutte le mie disposizioni. Ma in tal modo ho salvato Tommaso.
Io amavo Tommaso, sapevo che si mostrava così restio solo perché si era sentito tanto infelice: allora mi sono schierato con lui, l’ho difeso contro se stesso e gli ho parlato al cuore e lui ne è stato tutto sconvolto, perché non aveva mai pensato che una richiesta simile potesse essere esaudita. Io, con la mia debolezza, ho riconciliato Tommaso. Ma la chiami debolezza o forza?
20 – Moriva dal desiderio e dalla paura di credere
Quando Tommaso mi ha visto davanti a sé, tutto luminoso di gioiosa tenerezza, splendente di pace e di amore, ha capito di colpo di aver sempre saputo che io ero risorto. Lo sapeva da sempre che doveva essere così. Aveva fatto abbastanza esperienza, aveva vissuto abbastanza a lungo con me per sapere che doveva aspettarsi una cosa simile, che con me capitano sempre delle cose buone, beatificanti, incredibili come questa!
Avrebbe dovuto credere agli altri. Rifiutando di credere non aveva fatto altro che mortificarsi, martirizzarsi per difendersi da un’attesa che era solo troppo viva. Moriva tutto insieme dal desiderio e dalla paura di credere. E non c’è stato peggiore castigo per lui dell’aver ottenuto ciò che aveva posto come condizione per la sua fede. Si è accorto di aver perduto l’occasione che gli era stata offerta. Ha capito che avrebbe dovuto darmi la sua fede. In fondo, non aveva bisogno di queste prove. Mostrandosi scettico, si era comportato come un bambino viziato che cerca di imporre le sue esigenze a una bontà di cui è perfettamente sicuro. Quando voleva vedere e toccare, quando stizzosamente resisteva, era meno per bisogno di prove, che per bisogno di tenerezza, per commuoversi, per rallegrarsi, per farsi un po’ viziare. Ah, adesso non ha più voglia di toccare, avrebbe dato qualunque cosa pur di non mettere il dito e la mano nelle piaghe, per non sentire il mio dolce rimprovero: «Perché hai veduto, Tommaso, hai creduto; beati quelli che non hanno veduto e hanno creduto». Prima che io lo dicessi, Tommaso aveva dovuto pensarlo guardando gli altri che avevano avuto la felicità di credere. E quando tocca, lo fa per docilità, per pentimento.
Non come chi vuole accertarsi di una cosa e comincia a misurare, ma come chi compie un pellegrinaggio. Lo ha fatto, vi è andato: era ciò che poteva fare di più doloroso e di più umiliante.
Riparava, si puniva.
Ma per essere penetrato così addentro nell’intimità mia, per essersi visto rivelare fino dove giungeva il mio amore, Tommaso è stato trasportato a un’altezza che nessuno degli altri aveva fino allora raggiunta. Folgorato, schiacciato, è caduto in ginocchio: «Mio Signore, mio Dio!». È il primo che la fede porta a quest’altezza. Nessun altro apostolo mi aveva ancora detto: «Mio Dio». Io l’ho amato tanto, l’ho curato, guarito con tanta dolcezza da cambiare questa amarezza, questa colpa, questa umiliazione in un meraviglioso ricordo. Io rimetto così i peccati. Io solo so fare di tutte le tue colpe delle felici colpe, delle colpe che non ti ricordi più se non per la meravigliosa tenerezza di cui sono state occasione!
21 – Tommaso credeva di non credere
Rifletti con me! Tommaso credeva di non credere. Beato chi soffre della propria incredulità. Nulla mi ha più commosso della disperata resistenza di Tommaso a credere, com’era tanto tentato di fare. «Beati coloro che non hanno veduto e hanno creduto». Questo è stato detto per te. È in qualche modo il congedo, la missione che termina questa apparizione.
L’incredulità di Tommaso ti può essere vantaggiosa perché ti esorta a qualcosa. Ti esorta ad apprezzare il privilegio: tu puoi ancora credere prima di forzarmi a farmi vedere e toccare.
Ricordati che le tue preghiere sono sempre esaudite e, qualche volta, sono così buono da ascoltare anche le preghiere che non approvo. Concedo al figlio prodigo la parte di eredità che gli spetta, benché sappia quale triste uso stia per farne, e calmo la tempesta sul lago pur biasimando i miei apostoli che hanno avuto paura e hanno mancato di fede.
Vedi, anche Tommaso è la storia di una preghiera ascoltata, ma mentre gli altri, Maddalena, i discepoli di Emmaus, Pietro, non hanno riconosciuto la propria preghiera quando è stata esaudita, lui si è accorto che in realtà non desiderava ciò che aveva chiesto, si è accorto che non ne aveva alcun bisogno, che avrebbe fatto meglio a non chiederlo. Anche tu, un giorno, vedrai improvvisamente alleggerito il tuo fardello, ti vedrai liberata dalla catena che ora ti rende autosufficiente da me, protetta contro ciò che temevi, allietata dalla gioia che pensavi non fosse per te. Un giorno vedrai esaudite tutte le preghiere che credevi non fossero ascoltate. Beata tu, se ora sei saggia, se hai fede, pazienza, fiducia. Ecco, è terminata quest’altra stazione.
22 Mi ha riconosciuto dal mio perdono
I discepoli di Emmaus mi hanno riconosciuto dalle mie parole e allo spezzare del pane, ma Tommaso mi ha riconosciuto dal mio perdono. Consacrerò questa meditazione all’incontro con me nel sacramento del perdono. La mia più bella apparizione di risorto è avvenuta in… confessionale. Ti è mai accaduto? Non è questo l’ultimo posto dove ti aspetteresti di incontrarmi?
Per Tommaso questo è rimasto il ricordo più bello. Non aveva mai capito, prima, quanto lo amavo, lo prediligevo, esaudivo le sue preghiere più audaci, lo cercavo in tutti i luoghi in cui mi fuggiva. E tu? Pensi con gioia alle tue confessioni? È necessario che tu riesca a capire e sentire la gioia della penitenza.
Ve
SEGUE:
Vedi, è un paradosso soltanto per coloro che ignorano il senso delle parole. La penitenza non è un rimorso, non è neppure il dolore di aver peccato, un ritorno sul passato, un ripiegamento su di sé.
La penitenza è una conversione, un rinnovamento, un volgersi verso me che ti chiamo pieno di tenerezza e di misericordia. Tu solo davanti a me ti vedi peccatrice, non sai mai ciò che ti manca prima che ti sia restituito. Soltanto all’uscire dal confessionale scopri ciò di cui avresti dovuto occuparti. Sì, la più grande gioia che esista, è la gioia del perdono!
Devi riscoprire fino in fondo la gioia del perdono, e l’Eucaristia è il peccato dei miei amati che si trasforma in banchetto perché io l’ho perdonato. Hai osservato che nel mio Vangelo tutte le confessioni finiscono con un banchetto? Zaccheo: io mi invito a casa sua; Matteo invita tutti i suoi colleghi, tutti i peccatori del rione e si fa un lauto pranzo; il figliol prodigo: un vitello grasso e della musica; Maddalena: durante un pranzo e poi sarà lei a ricevermi alla sua tavola. Io non avrei mai permesso il male se non fossi stato capace di ricavarne un bene.
La storia dell’uomo è un dialogo tra me e l’uomo: io lascio libero l’uomo di contrariare i miei disegni e di introdurre il male e la sofferenza nel mondo. Ma a ogni iniziativa umana, rispondo con una stupenda mia invenzione. Io non cesserò mai di proporre dei modi meravigliosi per riparare al male fatto. E tutto è più bello che se non ci fosse stato il male.
23 – Ci sono due religioni fra cui si deve scegliere
Ora ti faccio capire le cause che hanno fatto perdere la gioia del perdono. Anzitutto ci sono due religioni, molto diverse, fra cui si deve scegliere. La prima è la religione di ciò che tu fai per me ed è una religione povera: non si desidera sapere di più, perché non si desidera fare di più. L’altra religione è quella delle cose che io faccio per te, delle grandi cose che io opero in te, la religione dei prodigi di tenerezza e di misericordia che ho inventato per la tua salvezza. Questa religione non la si conosce mai abbastanza, si desidera saperne sempre di più, non si finisce mai di rallegrarsene. È la religione del Magnificat, del Gloria, del Credo, del Benedictus, dell’Eucaristia.
Ora di questo facciamo l’applicazione alla penitenza. Nella prima religione, confessarsi vuol dire fare l’esame di coscienza, rientrare in se stessi, fare l’inventario dei peccati: tutte cose poco allegre.
Sai che anche Giuda si è confessato così? Sì, è rientrato in se stesso e non è più uscito, ed è stato divorato dal rimorso. Ha preparato la sua confessione ed è entrato nel confessionale. Sì, è andato al tempio, dai sacerdoti, non ha trovato che dei farisei senza misericordia, ha fatto la sua confessione: «Ho peccato, ho tradito il sangue innocente» e ha fatto la penitenza: ha restituito i trenta denari, ma è stata una cosa così triste, che è uscito di là per andare a impiccarsi. Non ha trovato nessuno. Giuda si è impiccato perché non ha incontrato uno sguardo di misericordia grande come il suo peccato.
Fai il confronto con la confessione di Pietro. Pietro non ha fatto l’esame di coscienza e neppure si è confessato; era giusto sul più bello del suo rinnegamento, asservito a delle serve, smarrito di paura e di balordaggine. Ma ha incontrato me. Ha visto me umiliato, oltraggiato, attraversare il cortile di Caifa. Il mio sguardo ha attirato il suo. E Pietro è stato proiettato fuori del suo peccato, non ha più potuto continuare, si è domandato come avesse mai potuto fare una cosa simile. Ha pianto tutte le sue lacrime, ma, più che lacrime di pentimento, lacrime di stupore di essere stato tanto amato.
Taluni si confessano come Giuda. Non trovano nessuno capace di risollevarli e di liberarli. Così puoi spiegarti come l’intento della maggior parte dei cristiani, quando si confessano, sia quello di saldare il conto. Invece di pensare a me, di meravigliarsi della mia misericordia, di associarsi alla mia gioia di perdonare, non fanno che pensare a sé.
24 – Deve essere una gioia per te vedere le colpe
Credo che molti sarebbero colti alla sprovvista e scoprirebbero che veramente i loro desideri non arrivavano a tanto. Erano semplicemente venuti per assicurare in tutta pace la continuazione delle loro relazioni amichevoli, ed ecco che io faccio loro una proposta strabiliante. Credevano di potermi accontentare facendo passare attraverso la grata del confessionale gli spiccioli delle loro colpe, e io, inaspettatamente, esigo addirittura il portafoglio. Resterebbero interdetti, si spaventerebbero nel rendersi conto dei cambiamenti che un intervento del genere porterebbe con sé, si troverebbero impreparati alla grazia che credevano di essere venuti a chiedere. Sono io che faccio tutto nel sacramento della penitenza! Io solo so perdonare i peccati. Io soltanto ho saputo riconciliare Tommaso, ho saputo fare della sua colpa una felice colpa.
Anzitutto, sono io che chiamo. Ho tanta voglia di perdonare che questo desiderio finisce per straripare dal mio cuore e ispirare un po’ di voglia di essere perdonati. La reazione a una colpa è il cattivo umore, il ritirarsi in sé, la disperazione. Adamo dopo la colpa non aveva nessuna voglia di entrare in un confessionale. Si è rifugiato il più lontano possibile da me, dietro il suo riparo di foglie. E sono io, come sempre, che sono venuto a cercarlo.
In secondo luogo, sono io che mostro le colpe. Non ci si può riconoscere peccatori che nella mia luce. Il peccatore è cieco e sordo. Peccare è diventare tenebre, e le tenebre non sanno di essere nere: il peccatore non si vede peccatore perché è una cosa sola con il suo peccato. Il primo effetto del mio Spirito nelle anime è appunto questo: convincere di peccato. Un segno che sei ispirato dal mio Spirito? Se entri in confessionale! Non si può conoscere me senza riconoscersi peccatori.
Ma nel momento stesso in cui ci si vede peccatori, si comincia a conoscermi. Io svelo le colpe con infinita tenerezza, non per rinfacciarle e umiliare, ma come un buon medico che scopre una piaga solo per curarla, che fa male solo per guarire. Te le faccio vedere nel mio modo delicato e discreto: invitandoti a far meglio! Allora vedi, per contrasto, la distanza fra ciò che fai e ciò che io ti propongo, e non puoi fare a meno di preferire in te l’io che io amo all’io nel quale ti sei trasformata ascoltando te stessa. Deve essere una gioia per te vedere le colpe: è segno che io opero in te, che ti lavoro.
25 – Non sono venuto per la via di mezzo
Gli uomini sono in una specie di coma spirituale. Sai, in quello stato fisico che tiene dietro ai grandi choc: si perde la coscienza, non si sente più niente, non si soffre, si crede di star bene… e si è sul punto di morire. Spiritualmente, niente è più diffuso e niente è più pericoloso di questo accecamento, di questo non riconoscersi peccatori.
Ci sono due ipocrisie: si fa finta di credersi un po’ perduti a motivo di Adamo e, per conseguenza, non resta che far finta di credersi un po’ salvati da me. Si dice di non essere santi, ma neppure di avere commesso dei grandi delitti, si sta nella via di mezzo. Io, però, non sono venuto per la via di mezzo, sono venuto a cercare e salvare ciò che era perduto.
No, la grazia vera è quella di vedersi peccatori, di riconoscere i propri peccati, le proprie mancanze di fede, di amore e di fiducia, ma di vederle in una luce di misericordia e di compassione che li renda sopportabili, illuminando più la mia tenerezza che la propria indegnità. Sono io che perdono. Sono così felice di perdonare da suscitare un po’ di gioia di essere perdonati. È segno di perdono che la mia gioia di perdonarti si sostituisca in te all’amarezza di aver peccato.
Io solo so perdonare i peccati! Li perdono così bene che ti induco a perdonare te stessa di aver peccato, ti tolgo l’umiliazione, ti penetro così a fondo con il mio perdono che tu perdoni a te stessa.
Devi essere così piena di me, da non essere più viva che alla mia gioia! Bisogna che la mia gioia diventi così potente in te che non te ne importi più niente delle tue colpe, che le dimentichi come le dimentico io; che non ti senta più in contrasto di idee e di sentimenti con me neppure a tuo riguardo e che ci amiamo sempre più. Questa è la gioia della penitenza. Tommaso l’ha conosciuta, lui che non si è mai sentito più amato e più felice che sotto il mantello del mio perdono dove ha sondato le incredibili dimensioni del suo essere amato da me. E l’ha conosciuta anche Pietro che è diventato capo della mia Chiesa dopo aver commesso il suo più grande peccato. Il mio perdono deve diventare tanto vivo e operante da indurti a perdonare tutti gli altri.
26 Paolo è il contrario di Tommaso
Paolo è il contrario di Tommaso: Tommaso credeva di non credere; Saulo era peggiore: credeva di credere. Sicuro di sé, fiero della sua religione tradizionale, detestava tutte le innovazioni. Una fede viva ti mette in contatto con me attraverso le formule della fede: queste, ben usate, ti fanno conoscere me che oltrepasso tutte le formule. La fede morta, invece, mi sostituisce con parole e concetti che si manipolano a modo proprio.
Saulo era stato sempre persuaso di avere la vera fede nel vero Dio. Perciò, quando io apparvi nel mondo, Saulo fu profondamente scandalizzato. Un Dio che si fa uomo, che si affatica e lavora, un Dio che soffre e che muore della morte dei criminali? Assurdo! Lui aveva le sue idee sul Padre mio, ciò che io affermavo non poteva quadrare con la dottrina che lui possedeva a fondo. Indignato per una eresia così degradante, da quando mi aveva conosciuto nella persona dei primi discepoli, mi aveva perseguitato con rabbia. Durante l’assassinio di Stefano era là, a custodire gli abiti dei lapidatori e ad approvare l’esecuzione: «Saulo non spirava che minacce e morte». Ecco il frutto del fanatismo.
Troppo sicuro di aver capito e definito ciò che serve, Paolo non si preoccupa più di ascoltarmi.
Agisce secondo il suo proprio modo di vedere, persuaso di agire secondo il mio. E il suo zelo, in questo stato d’animo, non fa che accrescere la sua aggressività. Io avevo convertito Tommaso prendendolo fra le braccia, ma Saulo dovrò accopparlo sul posto. Gli concederò un momento di ritiro, un attimo di raccoglimento. Allora, appena si sarà chetato, appena si sarà fermato, appena il suo motore avrà cessato di girare, egli mi vedrà, mi sentirà, mi riconoscerà. Molti hanno bisogno di una tegola sulla testa per riprendere coscienza della mia esistenza!
In piena corsa Paolo è abbattuto, atterrato, accecato, abbagliato; da una sola parola, come in un lampo, ha afferrato e compreso tutto: ha afferrato il mistero della mia Incarnazione, la realtà del mio corpo mistico e il mio amore! Prima di tutto, io l’ho chiamato per nome: Saulo. Io lo conoscevo, mi interessavo a lui personalmente! Io l’attendevo, avevo bisogno di lui, non ero felice senza di lui! Ecco che io non ero soltanto una dottrina che si studia e viene imposta e nemmeno un Essere supremo, impassibile e inaccessibile: ero sulla terra, vivevo fra gli uomini e non mi si poteva misconoscere senza scontrarsi con me!
27 – Amare qualcuno è dargli potere
Un Dio capace di soffrire! Proprio ciò che nel mio messaggio aveva più provocato la sua ira, a Saulo diveniva ora evidente nel più personale dei rapporti. Io lo amavo con una tenerezza tale, che mi ero esposto per sempre ai suoi insulti e rifiuti. Per la maggior parte io sono morto, sì, certo, sono risuscitato, ma sono lassù in cielo, dove mi si incensa, ma per Paolo sono qualcuno che è vivo, qualcuno in cui è incappato, qualcuno che egli ha ferito, qualcuno che soffre ancora e che ha bisogno di lui. Terribile mia presenza! Prodigiosa mia umiltà che sollecita ciascuno, che dice: «Perché mi perseguiti?». Tutte le mattine il mio corpo è nelle tue mani, offerto per te. Il sangue che cola a fiotti dal mio cuore, non deve mai colare invano! Io mi intenerisco per te fino alle lacrime, io sono sensibile a tutto, al più debole sorriso, al più impercettibile rinnegamento di te stessa! Io sono pura bontà, dono senza ripresa, dono che rimane offerto, che non teme di essere accettato, che non teme di essere respinto! Io sono paziente nel dolore, in agonia fino alla fine del mondo, sempre vivo. Quanti aspettano ancora questa rivelazione di Paolo? Mi amano di un amore scoraggiato, di un amore che si crede senza ricambio, di un amore che non osa dichiararsi, che non pensa di essere gradito, che non ha l’audacia di credere di potermi dare gioia. Questo amore di dovere, che immagina di non essere condiviso, pesa su di loro anziché sollevarli. Si presentano davanti a me e subito hanno voglia di fuggire. Ma quando capiranno che io amo e amo senza che loro neppure abbiano cominciato ad amarmi, che sono io che mi rallegro della loro venuta, che ci tengo alla loro presenza, che trovo la mia gioia nei loro cuori, allora la loro vita cambierà.
Se io ti amo così, se sono pieno per te di tenerezza, di serenità, di bontà, se gioisco del tuo affetto e soffro delle tue dimenticanze, allora puoi fare qualcosa per me, puoi rallegrarmi, onorarmi, tenermi compagnia perché me ne compiaccio, metti tutta la tua gioia a esercitare il potere che ho voluto darti su di me. Amare qualcuno vuoi dire infatti questo: dargli potere; si ha il potere su chi si ama e ama, potere di rallegrarli e potere di farli soffrire! È una gioia usare di questo potere, ma spesso si fa soffrire. Ebbene la visione di Paolo è stata la rivelazione del terribile potere che io gli avevo dato su di me. Tutto ciò che Paolo aveva fatto subire ai cristiani, lo avevo sofferto io. Io ero in sua balìa, a sua disposizione, nelle sue mani, senza difesa. A partire da quel momento, Paolo ha capito la sua vocazione; la sua strada era aperta, sapeva ciò che stava per riempire la sua vita: tutto quel potere che aveva su di me e di cui si era servito per perseguitarmi, ora l’avrebbe impiegato per rendermi onore, per servirmi, per rallegrarmi!
28 – Paolo ha imparato anche un’altra cosa
Paolo ha imparato qualche altra cosa. La mia rivelazione si è accompagnata, come sempre, a una rivelazione su di lui. Quando lui è stato messo in presenza di me, che credeva di servire con tanto zelo, non soltanto non mi ha riconosciuto, ma si è anche accorto di resistermi. Si è accorto che per tutto il tempo in cui aveva creduto, in buona fede, di obbedirmi, non aveva fatto che recalcitrare.
Tutto il suo lavoro, tutta la sua dedizione non erano state altro che una resistenza. Era pieno di se stesso e si credeva pieno di me! Non faceva che lottare contro me che immaginava di servire.
Come Tommaso, anche lui ha preso coscienza in quel momento di essere chiamato, spinto a credere da molto tempo. Si è reso conto che il suo zelo, il suo fanatismo, la sua violenza non erano che il segno esterno dell’intensità della sua ribellione, del suo sforzo per ridurre al silenzio una voce interiore insopportabile. Non era me che Saulo difendeva perseguitando i cristiani: cercava, in realtà, di difendere se stesso contro me. Il giorno di Damasco fu quello in cui accettò di ascoltare una voce che parlava da sempre nelle profondità del suo essere.
Qual è la resistenza che, qualche volta, indurisce te allo stesso modo? Hai individuato che cosa ti serve per pretesto nell’incontro con me? Sai bene che io ti attendo al di là di questo ostacolo, o meglio, proprio in ciò che ti appare come un ostacolo. Senti bene che esso non è altro, in realtà, che il mezzo preparato da me per permetterti riscegliermi in piena libertà.
Ma talvolta recalcitri e cerchi dei diversivi: l’attivismo, il lavoro, la virtù, tutto ciò che già Paolo inventava ai suoi tempi per resistermi! La prima cosa che ho richiesto a Paolo è stato di lasciarsi condurre, rinunciare alle proprie iniziative che l’avevano fino allora così male ispirato, accettare di non vedere più nello stesso modo di prima, fare un ritiro. E Paolo, il tutto fuoco, accetterà senza recalcitrare. Fa la sola cosa che può fare, la sola che io mi aspetto da lui in quel momento: prega.
29 – Anania è il tipo del prudente parroco-funzionario
Io mando Anania da Saul, ma egli non manifesta alcun entusiasmo per predicare questo ritiro.
Anania è il tipo del prudente parroco-funzionario che teme le iniziative e i trambusti. Cerca di dissuadermi perché era ben informato sulla condotta di Saulo, ma io lo mando ugualmente. Egli se ne andò, visto che io non volevo intendere ragioni e, arrivato alla casa, gli impose le mani e Paolo ricuperò la vista. Ricordi? È una parabola della Chiesa. I più desolati tra i miei ministri generalmente finiscono per fare, in qualche modo, quello che devono fare: distribuire sacramenti validi, celebrare buone e valide messe, comunicare autenticamente una vita che trasmettono infinitamente meglio di quanto sappiano presentarla. Anche per te, una maniera pratica di credere sarà di credere alla mia Chiesa, per quanto deludente possano essere le apparenze.
Quando ci si rifiuta di farlo, si scopre un giorno, come Paolo, che si è perseguitato me maltrattando i più piccoli fra i miei. Io ero perfino in Anania! Io ero presente nei martiri cristiani, ma anche in questo “parroco” sospettoso e recalcitrante.
Questa zona di mistero che i miei discepoli hanno dovuto rispettare intorno a me risuscitato, devi rispettarla anche tu e perfino ristabilirla intorno agli altri e intorno a te stessa. Non voler afferrare il fondo. Devi lasciare intorno agli uomini e agli avvenimenti un margine di mistero e di fede che è il mio posto. Sarai così sempre pronta a imparare, sempre pronta a ricominciare a convertirti.
Non pensare di avere una fede vera quando sembra che io agisca a modo tuo. Quando le tue idee coincidono con le mie, non hai occasione di fare un atto di fede. Aver fede è accettare di camminare nella direzione in cui ti spinge il pungolo tormentoso di riconoscere la mia presenza in quelli e in quelle che ti respingono, che ti detestano, accettare che io sia l’Imprevedibile, Colui che scomoda, lo sconcertante in perpetuo. La fede non è un capitale che ricevi al battesimo e sul quale puoi vivere di rendita. La fede è una realtà viva e sempre nuova. È l’atto di fiducia in me che fai ogni giorno e in ogni momento del giorno, sforzandoti di vedermi in tutti gli avvenimenti, in tutti i sentimenti che si svegliano nel tuo cuore. Non devi fare una scelta nel tessuto della tua vita per stabilire se un elemento è degno di fede o no: mi devi scoprire in tutta la tua vita.
30 – La mia Mamma ha avuto una sola apparizione nella vita
Come parlarti della gioia senza parlare della mia Mamma che è la Vergine delle Beatitudini? La mia Mamma ha avuto un’apparizione nella sua vita, una sola: l’annunciazione, e questa le è bastata per sempre. Si vuole dire che io, risuscitato, sia apparso prima a lei, ma così si manca di fedeltà a lei stessa. Le mie apparizioni risvegliano ed educano la fede dei miei apostoli, ma alla fede della mia Mamma non mancava nulla. L’annunciazione l’ha dispensata per sempre da nuove apparizioni. Ti ricordi che Elisabetta l’aveva proclamata già beata per aver creduto? Allora meritava anche pienamente la beatitudine di chi non ha visto e crede!
Ti ho detto che la fede è restare fedeli nelle tenebre a ciò che si è visto nella luce. La mia Mamma ha ascoltato tanto bene la parola dell’angelo che l’ha conservata nel cuore e se ne è nutrita per tutta la vita: ha sempre creduto con tutta l’anima che avrei salvato il popolo, che il mio Regno non ha fine e che niente mi è impossibile. La mia Mamma è la sola che la mia morte non solo non ha scoraggiata, ma neppure separata da me. Come all’annunciazione aveva rappresentato da sé sola tutta la Chiesa per ricevermi nella fede, così, alla mia morte, rappresentò da sola tutta la Chiesa, per accogliermi nella fede. Solo la lampada della sua fede non si spense. Fu il solo tabernacolo che non divenne una tomba.
Durante la mia passione e morte, la mia Mamma ha sofferto quanto puoi immaginare umanamente, ma conservando intatta la sua fede, la sua speranza, la sua fiducia totale nel Padre mio, nella necessità misteriosa, nella misteriosa efficacia di quanto stava accadendo. Ricordava le promesse dell’angelo, la storia del popolo eletto, le profezie e, se il loro avveramento la consumava di dolore, la fortificava insieme nella fede. Ai piedi della mia croce, nel dolore immenso che tutta la penetrava, era animata da una fede e da una speranza così intense che capì che nel profondo del suo essere nulla era veramente cambiato.
Dopo la mia morte, seppellì il mio corpo oltraggiato con pietà, tenerezza, rispetto infiniti. Mi sentiva così presente in sé che ebbe l’impressione di portarmi via, anziché di abbandonarmi là; niente la sfiorò della disperazione di Maddalena quando non ebbe più il mio corpo: io potevo cessare di vivere nel mio corpo, ma non nel suo cuore!
31 – Le ore di attesa della mia risurrezione non le passai agli inferi
Le ore di attesa della mia risurrezione non le passai affatto agli inferi. Se ci fu un luogo al mondo in cui potei riposare e compiacermi prima di risalire al Padre fu certo la comunione con la mia Mamma. Se ci fu un cuore tutto bruciante di amore nel trovare nella Scrittura passi che mi riguardavano, questo fu quello della mia Mamma. Conservava, meditava, confrontava avvenimenti e profezie e vi attingeva incessantemente nuova luce e nuova forza. Io risuscitai il terzo giorno dalla tomba, non per consolare mia Madre, non ce n’era bisogno perché essa era già tutta gioia e fierezza, ma per incamminare gli altri là dove la mia Mamma li attendeva in silenzio.
Anche Giuseppe, un tempo, l’aveva raggiunta in questo silenzio e in questa gioia. E quando coloro ai quali sono apparso, sono accorsi tutti gioiosi dalla mia Mamma per annunciarle questa buona novella, hanno capito in quell’istante che essa già la sapeva. Ognuno di loro poté misurare la propria fede, ritrovare la propria fede nella fede sua. Ognuno di loro capì che cosa fosse stata la propria fede paragonandola alla sua. Vedi, a partire da questo momento, si è cominciato a capire il suo posto nella Chiesa. Tutti, a poco a poco, sono venuti a stringersi intorno a lei; si sono ritrovati in lei; si sentivano capiti.
Durante i dieci giorni fra la mia Ascensione e la Pentecoste non si sono più allontanati dalla mia Mamma. Stavano bene presso di lei: era un rifugio, un luogo di fede, era la Chiesa. E ha fatto tutto questo senza dire nulla. Una vera mia presenza si sente e si comunica senza bisogno di parole. La mia Mamma non ha mai predicato, ma per trent’anni ha vissuto nella sua piccola casa con tanto amore che da questa casa sono uscito io, salvezza del mondo. Ha creduto che nella sua esistenza ci fosse qualcosa di sacro, di divino, e l’ha circondato di una fedeltà così perseverante, di una fede così totale che ha potuto crescere, svilupparsi, maturare in seno al suo focolare e un giorno uscirne per salvare il mondo.
32 Con l’Ascensione io non sono partito
II solo modo di fare dell’Ascensione una vera festa è di comprendere bene la differenza radicale che c’è fra una scomparsa e una partenza. Una partenza causa un’assenza. Una scomparsa inaugura una presenza nascosta. Con l’Ascensione io non sono partito, non ti ho lasciato orfana, mi sono stabilito per sempre in te! Se l’Ascensione fosse la mia partenza dovresti rattristartene e rimpiangermi. Il mio entrare in cielo sarebbe per te come una specie di tumulazione, ma io rimango con te tutti i giorni fino alla consumazione dei secoli. Con l’Ascensione, io entro a far parte dell’onnipotenza del Padre mio, sono pienamente glorificato, esaltato, spiritualizzato nella mia umanità. E, pertanto, è più che mai una relazione d’amore con te!
Quando dici che mi sono assiso alla destra del Padre, non immaginare un trasferimento locale: è solo un’immagine che esprime il mio accrescimento di potere e di onore. D’altronde dov’è il Padre mio? Ricordati quello che leggi in Giovanni: «Se qualcuno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e verremo a lui e faremo dimora in lui». Vedi, una dimora significa molto di più di una presenza. Un uomo è presente in una strada, al suo lavoro, ma non dimora che in casa sua. Io non ho voluto avere che una casa mia, e sei tu! Ebbene, io con la mia Ascensione, ho raggiunto quella efficacia infinita che mi permette di riempire tutto della mia presenza.
La mia Ascensione è un’ascensione in potenza, in efficacia: è dunque un’intensificazione della mia presenza, non un’ascensione locale che mi allontanerebbe da te. Come non ho lasciato il Padre mio venendo a te per mezzo dell’Incarnazione, così non mi sono separato da te ritornando al Padre mio. Non ho ristabilito la distanza, ho soltanto, al contrario, ristabilito e assicurato la comunicazione. Pensa che gioia: io sono qui con te e non ti lascerò mai più, perché la mia presenza spiritualizzata ha raggiunto l’intensità e l’estensione che la mia presenza carnale non aveva potuto ottenere.
Sara:
“cattolico infelice” è un ossimoro?
Quindi tutti cattolici sono felici …
Ma non tutti i felici sono cattolici…
Magari tutti i cattolici fossero felici…!!
Che poi come aveva fatto osservare Gaincarlo a suo tempo, più che di felicità bisognerebbe parlare di “gioia”.
Il Cristiano è gioioso.
La felicità dipende anche oggettivamente dalle circostanze della vita. Anche Cristo ha provato tristezza…
Alvise e Bariom, a parte intendersi sul significato di felicità e a parte il fatto che anche senza bisogno di mettere sempre i puntini sulle i credo ci si possa capire (ritengo che sia piuttosto chiaro cosa volevo dire), essere cattolici significa essere ontologicamente gioisi E felici, perché significa sapere di essere amati, salvati e, come ci ricorda Costanza, figli di Re. Dunque, pur nella tristezza, nelle difficoltà e nelle tragedie che ci troviamo a vivere (e la sottoscritta, pur essendo ancora piuttosto giovane ne ha vissute e ne vive tuttora molte, quindi sa di cosa parla), non possiamo che essere al fondo felici/gioiosi. Io sono profondamente convinta che (e specifico che ovviamente è un’iperbole, seppur un’iperbole molto vera) il cattolico o è felice/gioioso o non è cattolico.
Se credi di doverlo rammentare a me al pari di Alvise, fai pure.
Pur non essendo più molto giovane ne ho viste e vissute molte sulla mia pelle… so quindi cosa intendi e di che parli.
Se ho messo “i puntini sulle i” era soprattutto per Alvise a cui piace molto giocare con le parole per generare fraintendimento o tirare l’acqua al suo mulino.
Così torno a specificare ad esempio che oltre a cattolico felice/gioioso piace a me parlare di “cristiano”, riconoscendo questa peculiarità a tutti i fratelli – cristiani – di altre confessioni. Così come dire che non nesserlo non rende “non” cattolico, ma semmai un cattolico che dovrebbe seriamente interrogarsi sul senso della propria fede e della conseguente testimonianza…
Questo però siamo chiamati a farlo tutti, tutti i santi giorni… o no?
Anche sul “Figli di Re” mi pare tu abia qui ribadito (al di là del concetto “allargato” espresso da Costanza) quello che ho sottolineato sopra non con parole mie 😉
@Sara perdonami la precisazione sul – non – essere cattolici… come tu hai scritto, la tua era un’iperbole.
E tu perdonami se il mio intervento poteva essere male interpretato.
Bene “perdonaticisi” a vicenda, riprendiamo con gioia il nostro cammino e i nostri scambi ( e se ci ri-fraintenderemo, ci ri-perdoneremo 🙂 )
Certamente e sempre con gioia! (non so fare le faccine, né usare il grassetto o altri effetti, ma consideraci anche un bel sorriso!)
Non mai detto di non concordare con quanto da te specificato a proposito di “figli di Re” e non vedo cosa c’entri, e non ho mai affermato che non siamo chiamati tutti a interrogarci seriamente e quotidianamente sul senso della nostra fede.
Ho risposto a te a ad Alvise semplicemente perché eravate intervenuti entrambi in merito ad un mio commento. Ho imparato a conoscerti e ad apprezzarti da anni di interventi su questo blog e so fare le differenze, ma se credi di doverti sentire attaccato o criticato da quello che era soltanto un intervento per precisare la mia posizione (dato che mi pareva fosse utile), fai pure.
Sara:
…sono d’accordo (ammesso che sia possibile stabilire chi è davvero cattolico) (certo non lo si può certo inferire dalla gioiosità o meno, anche considerato che la gioiosità non è una categoria che appartiene solo alle religioni), ma nella fattispecie della gioiosità (di fondo) (una volta stabilito che essa ci sia in qualcheduno e che sia dovuta alla religione di Cristo, forse sarebbe meglio usare “cristiano” invece che “cattolico”.
O chi non è cattolico non è nemmeno vero cristiano, e quindi nemmeno felice/gioioso per causa religiosa?
@Alvise, questi sono tra i tuoi commenti quelli che preferisco. Più articolati e con una loro logica seppur molto dialettica.
Parrebbe quasi tu volessi comprendere meglio (anche se poi ti smentisci spesso…)
Ad ogni modo, sempre per puntualizzare, la “gioiosità” nel cristiano, non è dovuta alla “religione di Cristo” (orribile termine), ma dallo Spirito di Cristo stesso, che “alberga” nell’animo del Cristiano.
Conoscerai anche tu la frase: “non sono io che vivo, ma…”
Sull’esser cattolico, più di una volta si è detto e dovresti farne tesoro (se ti interessa), per non domandarne conto tutte le volte. Vi è una appartenenza che potremmo definire quasi “giuridica”, ed una che si rifà alla prassi e alle scelte di vita, ma non voglio su questo ora dilungarmi oltre.
Chi non è cristiano, può anche essere gioioso e felice ( tanto, mi spiace dirtelo, sempre a Dio lo deve, che fa splendere il sole sui giusti come sugli ingiusti 😉 ), ma la sua felicità è caduca come ogni altra cosa. Legata a fatti episodici e sostanzialmente sempre “positivi”, mai avversi.
La gioia profonda del Cristiano, viene dallo Spirito che testimonia al suo stesso spirito che è figlio di Dio, da Lui amato e benedetto ANCHE nella croce e nella sofferenza.
Poi puoi pensare che sono idee peregrine, che è tutto uguale, che non è dovuto a Cristo o al Suo Spirito… ma si sa, di queste cose ho si è fatta esperienza o non si comprende di cosa si stia parlando. Ciò non toglie che io ne sono testimone (inutile ripeterti da dove “vengo”, già ormai lo sai…) e non posso che risponderti ciò che ti ho risposto.
Poi magari Sara, meglio di me ti risponderà.
Non credo di far meglio di te, Bariom.
Aggiungo soltanto, per Alvise, che considero tutti i cristiani non cattolici come dei fratelli (dei quali ho spesso apprezzato e diffuso anche molti interventi, molti libri e la fede spesso davvero capace di operare miracoli), anche se si sono allontanati da nostra madre Chiesa. Tuttavia, chi è cattolico è fondato su una roccia sicuramente ben più salda che è la Chiesa, ossia il Corpo di Cristo, per cui sono convinta non che chi è cristiano non cattolico non sia un vero cristiano (queste sono solo parole tue che, secondo una logica di cui si è discusso anche su questo blog, mi attribuisci per mostrare la mia presupposta malafede), ma che ad essere cristiani cattolici si abbia qualcosa di più. Ecco perché, essendo il massimo dell’essere cristiani (in quanto anche in comunione con il Corpo di Cristo che è la Chiesa), a proposito del mio intervento sull’essere felici, ho usato il termine ‘cattolico’. Un cattolico non può non essere felice, per i motivi già espressi e per la comunione con il Corpo di Cristo.
Sara:
.1..abbi almeno il pudore di scrivere “la presunta” comunione col Corpo di Cristo.
2…questa metafora della roccia sicuramente più salda non tiene nel dovuto conto chi si fonda solo sulla sostanza (come lui la intende) della parola di Cristo.
3 … passo ad altro, un cristiano ammesso che sia cristiano (lasciando la setta dei cattolici per un momento da parte) potrebbe , magari, credere di essere felice per il fatto di essere cristiano, mentre è invece è felice solo perché è felice per sua natura intrinseca (come lo sono tante persone che non si reputano cristiane) di persona che è felice della vita della natura del bene che vuole alle persone delle cose che fa delle pene che gli tocca sopportare in quanto anche parte della vita e così di seguito, senza che questo comporti necessariamente l’essere cristiano e tantomeno della setta cattolica.
4 e qui vorrei cercare di fare una critica al modo di “argomentare” di Bariom:
che lui prima era nel buio e ora nella luce e che quindi (lui) avendole non solo entrambe le cose esperite, ma esperito anche la differenza tra l’una e l’altra, ora lui avrebbe le carte in regola per parlare della fede in quanto ha provato anche la non fede eccetera (come anche si legge nelle vite dei Santi) come se invece quegl’altri non avessero provato un cazzo nulla, non potessero averla mai avuto loro questo sentimento di fede religiosa che ora lui dice di averci e di avercela proveniente da un’esperienza precedente di non-fede che ora lui è in grado di paragonare alla fede presente. La quali cose non possono essere altro che le semplici solo le opinioni di Bariom, il quale, tra l’altro, dovrebbe anche tenere persente che nessuna esperienza di nessuno è paragonabile a quella di nessun altro, cioè, lo è sì paragonabile, ma il paragone (per esempio) delle sue esperienze (di Bariom) sia di quando non era credente che di quando ora è credente con quelle sia dei non credenti che dei credenti di ora o di sempre può essere appunto solo un semplice paragone senza potere avere nessuna altra pretesa di potere sostituire la realtà delle esperienze degli altri, ma attraverso il paragone sempre e solo le sue.
5 …non esite sempre e solo chi è passato dalla non-fede alla fede, ma anche chi ha fatto il contrario!
Caro Alvise, puoi anche farla la critica al mio modo di argomentare, ma io parto da una domanda premessa:
Com’è che questo mio modo, che è in realtà la mia concreta esperienza, su cui tu per le stesse ragioni che adduci nella tua critica, non hai un bel nulla da dire (dato che te non puoi sapere, ecc. ecc.), ti dà tento fastidio giacche non è la prima volta che la riporti in modo anche piuttosto indispettito (o apparentemente tale)?
Non ha né capo né coda poi il discorso “ora lui avrebbe le carte in regola per parlare della fede in quanto… ecc”.
Quali carte? Qualcuno mi ha riconosciuto qualche titolo? Ho espresso di averne? Ho mai esposto di avere (potrei anche averle…) lauree o riconoscimenti o compiti o ministeri? Che vai cercando?
Parlo della mia esperienza e di quella ho le carte in regola per parlarne… E’ LA MIA VITA!
Hai qualcosa in contrario? E quando parlo della Fede lo faccio sulla base di quanto ho ricevuto dalla Chiesa e che nella mi vita si riflette (con tutti i miei limiti di peccatore).
Che poi tu mi additi come qualcuno che pensa che “quegl’altri non avessero provato un cazzo nulla” è una tua stronzata (visto il tuo lessico mi adeguo) bella e buona!! Ho mai detto simili cose? Forse qulcuno può come te averlo pensato, ma ti ricordo che qui ho preso anche del “buonista” o del “troppo buono” verso il pensiero altrui (e non ce l’ho con chi l’ha detto).
Poi sai che c’è? Tu potrai pensarla diversamente ma che l’esperienza di nessuno e paragonabile ad altri è un GRAN BALLA!!
L’esperienza del dolore, della solitudine, della morte, come tante che non siano dolore in generale, ci mettono in comunione con tanti nostri simili, come con i Fratelli in Cristo sento comune l’esperienza dell’essere oggetto dell’Amore di Dio o della conversione (il “famoso passaggio da “di là a di qua”).
Più di una volta ho provato fortissime esperienze di comunione e condivisione anche solo puramente umane.
Se per te non è così, mi dispiace molto… forse significa solo che non sei capace di condividere alcunché.
Sull’esperienza condivisa poi, si basano anche la stragrande maggioranza dei gruppi d’aiuto di ogni natura e genere… tu li puoi liquidare come ti pare o sputarci sopra. Problema tuo, ma non contar balle per favore.
Sul finire della tua crtitica poi il tuo scrivere si è talmente ingarbugliato, che faccio fatica a seguirti e a rispondere.
Comunque Alvise, diritto di critica sempre e comunque, come di risposta s’intende.
P.S. Il “sentimento di fede religiosa” (più propriamente detto “religiosità naturale”) è cosa diversa dalla “fede”… ma di questo parleremo un’altra volta
Alvise:
1: evidentemente la mancanza di pudore è problema tuo (cfr. “la setta dei cattolici”!).
2: “come lui la intende”: è proprio il contrario di roccia salda.
3: mai parlato di CREDERSI felici. Il mio discorso era proprio tutta un’altra cosa!
4 e 5: non vedo in che modo questi punti si ricolleghino a quanto ho affermato io.
Con ciò, sulla questione passo e chiudo.
…sentirsi “insieme” agli altri è una suggestione che può aiutare e che può anche essere deleteria,
soli siamo, bertucce sole! (non sole astro, ma aggettivo)
Alvise di ritorno dall’India?
http://juancubaes.files.wordpress.com/2013/09/monito-bonito1.jpg
E ti pareva…
Quando uno é a corto di argomenti spara innominabili banalità!!
Buonanotte bertuccia sola 🙁
“….perché in verità vi dico: se avrete fede quanto un granello di senapa, direte a questo mon:Trasferisciti di qua e di là, ed egli si trasferirà, e niente vi sarà impossibile.! Mt 17, 20
Bravo Alvise… Tienilo a mente!
* Buona Domenica delle Palme *
A tutti ovviamente 🙂