di Costanza Miriano
La piattaforma satellitare di casa nostra offre un bouquet di multicanalità integrata.
Il canale sportivo propone partite di calciocorridoio di durata biblica (il triplice fischio finale arriva quando la mia palletta per i Pilates regolarmente sottrattami colpisce il lampadario), sfide a due di muro altalena (quale gemella andando in altalena riesce a sfiorare il muro coi piedi), e anche rischiosi match di palla monopattino (colpire alla testa il fratello che passa in monopattino cercando di prenderlo, possibilmente senza accopparlo).
C’è un canale di gialli: attualmente una equipe di investigatori sta cercando di risolvere il mistero della decimazione dei cucchiaini. Un misterioso serial killer li sta falciando uno ad uno. Del servizio delle nozze ci sono solo tre superstiti, e al momento godono di uno speciale programma di protezione da parte delle forze dell’ordine. Una volta risolto il caso, andrà in programmazione l’avvincente serie “come ci è finito?”. La prima puntata cercherà di spiegare come mai stamane ho trovato un fagiolino fresco dentro il risvolto dei miei pantaloni (seguirà il dramma dell’orecchino nel piumone).
Poi c’è il canale scientifico: un esperto dovrebbe spiegare da dove vengono le formiche che hanno in usucapione la mia cucina e come è possibile che una bambina cada da ferma (l’ipotesi più accreditata è che abbia ereditato i geni di una madre che poche ore fa è inciampata sui suoi stessi piedi ed è rovinata a terra insieme al poster di Wojtyla sfrangiandosi un paio di pantaloni e un ginocchio, rialzandosi sportivamente tra turisti attoniti urlanti “Oh My God!!!”; e purtroppo è la verità).
C’è anche il canale del grande cinema, grazie all’unica persona di un certo peso della casa, mio marito: due ore di arricchimento culturale davvero preziose, ma io ogni tanto apro gli occhi e chiedo come va (il consorte, cinefilo purista, mi degna appena di uno sguardo schifato e si rifiuta di farmi il riassunto di quello che è successo mentre russavo).
Poi c’è il canale di cabaret: attualmente il personaggio che va per la maggiore è l’immigrato kazako che cerca di vendere autografi tarocchi, e va in giro per casa tampinando fratelli e cercando di appioppare firme originali di Abramo (sì, il patriarca), Hello Kitty, Gigi D’Alessio e Marilyn.
C’è anche il Love Channel. Le registe sono due giovani promettenti che fosse per loro vivrebbero dentro al book trailer di Sposati e sii sottomessa, e inscenano trame sempre più complicate che comunque si concludono sempre con un bacio da film (infatti i protagonisti sono sempre un blingibe, una blingibessa e uno che dichiara. Cioè che dichiara marito e moglie, è sottinteso).
Insomma proprio non si può dire che ci si annoi, anzi, spesso ci sganasciamo dalle risate.
Ma per essere onesti, bisogna dire che c’è anche un lament channel, un non adesso channel, un crisi isterica channel, un dappertutto ma non qui channel. Insomma, quello che volevo dire è che per fortuna in questo momento le nostre croci sono piccole, sono quelle del quotidiano. Quelle, credo, comuni a tutti: la fatica di lavorare, di far quadrare i conti, di impegnarsi nel capirsi anche quando ci vorrebbe l’interprete.
Se arriverà una croce più grande siamo qui, e lo so che intanto con queste piccole croci per me è facile predicare. Il momento della sofferenza che spacca non è qui, adesso. E lì si verificano le parole. Vengono provate nel fuoco.
Detto questo, anche nelle piccole pieghe della vita di ogni giorno, nelle piccole croci poco nobili e poco eroiche si può scegliere la via stretta, la via scomoda, quella che costa di più ma l’unica che fa vivere.
Non sarà un gran che, voglio dire non ci è richiesto ancora il martirio, ma è quello che possiamo fare, per il momento, qui e adesso.
…Dammi l’ Amore per eccellenza, l’Amore della Croce, ma non di quelle croci eroiche che potrebbero nutrire l’ Amor proprio, ma di quelle croci volgari che purtroppo porto con ripugnanza, di quelle che si incontrano ogni giorno nella contraddizione, nell’ oblio, nell’ insuccesso, nei falsi giudizi, nella freddezza, nel rifiuto e nel disprezzo degli altri, nel malessere e nei difetti del corpo, nelle tenebre della mente e nel silenzio e aridità del cuore, allora solamente Tu saprai che ti amo, anche se non lo saprò io, ma questo mi basta.
Bellissimo.
Erika, è parte integrante della preghiera di Robert Kennedy. (ho dimenticato di mettere la fonte)
“Vorrei aggiungere ancora una piccola annotazione non del tutto irrilevante per le vicende di ogni giorno.
Faceva parte di una forma di devozione, oggi forse meno praticata, ma non molto tempo fa ancora assai diffusa, il pensiero di poter «offrire » le piccole fatiche del quotidiano, che ci colpiscono sempre di nuovo come punzecchiature più o meno fastidiose, conferendo così ad esse un senso. In questa devozione c’erano senz’altro cose esagerate e forse anche malsane, ma bisogna domandarsi se non vi era contenuto in qualche modo qualcosa di essenziale che potrebbe essere di aiuto.
Che cosa vuol dire « offrire »? Queste persone erano convinte di poter inserire nel grande com-patire di Cristo le loro piccole fatiche, che entravano così a far parte in qualche modo del tesoro di compassione di cui il genere umano ha bisogno. In questa maniera anche le piccole seccature del quotidiano potrebbero acquistare un senso e contribuire all’economia del bene, dell’amore tra gli uomini. Forse dovremmo davvero chiederci se una tale cosa non potrebbe ridiventare una prospettiva sensata anche per noi.”
(Benedetto XVI, Lett. enc. Spe salvi, n. 40)
“Anche noi ci troviamo sempre e nuovamente di fronte all’«oggi» della sofferenza, del silenzio di Dio – lo esprimiamo tante volte nella nostra preghiera – ma ci troviamo anche di fronte all’«oggi» della Risurrezione, della risposta di Dio che ha preso su di Sé le nostre sofferenze, per portarle insieme con noi e darci la ferma speranza che saranno vinte.
Cari amici, nella preghiera portiamo a Dio le nostre croci quotidiane, nella certezza che Lui è presente e ci ascolta.”
(Benedetto XVI, Udienza generale, 8 febbraio 2012)
http://filiaecclesiae.wordpress.com/2012/04/09/lunedi-dellangelo-essere-messaggeri-di-cristo-benedetto-xvi/
“Cari fratelli e sorelle,
siamo ancora ripieni del gaudio spirituale che le solenni celebrazioni della Pasqua realmente recano al cuore dei credenti. Cristo è risorto! A questo mistero così grande la liturgia dedica non solo un giorno – sarebbe troppo poco per tanta gioia -, ma ben cinquanta giorni, e cioè l’intero tempo pasquale, che si conclude con la Pentecoste. La domenica di Pasqua è poi un giorno assolutamente speciale, che si estende per tutta questa settimana sino alla prossima domenica, e forma l’Ottava di Pasqua.
Nel clima della gioia pasquale, la liturgia di oggi ci riconduce al sepolcro dove Maria di Magdala e l’altra Maria, secondo il racconto di san Matteo, mosse dall’amore per Lui si erano recate per “visitare” la tomba di Gesù. Narra l’evangelista che Egli venne loro incontro e disse: “Non temete, andate ad annunciare ai miei fratelli che vadano in Galilea e là mi vedranno” (Mt 28, 10). Fu veramente una gioia indicibile quella che esse provarono nel rivedere il loro Signore e, piene di entusiasmo, corsero a farne parte ai discepoli.
Anche a noi, oggi, come a queste donne che rimasero accanto a Gesù durante la Passione, il Risorto ripete di non avere paura nel farci messaggeri dell’annunzio della sua risurrezione. Non ha nulla da temere chi incontra Gesù risuscitato e a Lui si affida docilmente. È questo il messaggio che i cristiani sono chiamati a diffondere sino agli estremi confini del mondo. La fede cristiana come sappiamo nasce non dall’accoglienza di una dottrina, ma dall’incontro con una Persona, con Cristo morto e risuscitato.”
(Benedetto XVI, Regina Cæli, 9 aprile 2007)
A proposito di croci:
Il Cardinale Angelo Comastri, quando era Arcivescovo di Loreto, ha raccontato che anni prima, a causa di un banale disguido medico, si era ritrovato quasi in fin di vita per problemi cardiaci; era andato in crisi, cosa che gli ha fatto capire quanta strada ancora doveva fare cristianamente. In quei momenti ha telefonato a Madre Teresa di Calcutta, con la quale era in amicizia, per chiederle un qualche conforto. “What wonderful thing!”, “Che cosa meravigliosa!”, era stata la sua risposta. “Madre Teresa, ha capito bene cosa le ho detto? Sto rischiando di morire!”. E lei, ancora: “Sei fortunato: sei così vicino alla Croce che Gesù può baciarti senza neanche fare fatica”.
I canali che guardo in tv sono quelli che guarda mia madre, altrimenti per me potrebbe anche stare spenta. L’accenderei solo in qualche occasione molto selezionata o per i cartoons, anche quelli selezionati. Quindi non sono una utente molto affidabile.
“Se arriverà una croce più grande siamo qui”: non necessariamente deve arrivare ma essere pronti ad accoglierla credo che sia un bel punto di partenza.
La nostra, quest’anno, è stata una Pasqua casalinga, non ci siamo mossi da casa se non per la Messa perchè il piccolo Riky ha l’influenza, e come ogni volta che non si sente bene, la notte (e talvolta il giorno, ma pare che le ore dedicate al benedetto riposo siano le predestinate…) è tormentata dai vomiti a getto. So che non ve ne frega un emerito piffero, ma raccogliere rigurgiti infantili è una delle cose più avvilenti che si possano immaginare. E quindi mi fregio, al momento, di portare codesta croce. E mi dico: un conto è abbracciare la croce perchè non si può fare altrimenti, ma cosa vuole dire davvero “amare” la croce? come faceva Cristo ad amare quella croce che fu il suplizio più terribile, in termini di dolore e vergogna, per l’epoca? cosa vuole dire adesso, per me, amare le mie difficoltà?
“come faceva Cristo ad amare quella croce che fu il supplizio più terribile, in termini di dolore e vergogna, per l’epoca?”
Domanda troppo impegnativa (almeno per me), perché Cristo è vero Dio e vero uomo.
La sofferenza è conseguenza del peccato originale, un suo sudicio retaggio. Ci sono due modi di viverla:
1) detestarla come un’insostenibile ingiustizia: e allora la sofferenza non solo non s’allevierà, ma s’inasprirà, come un sudicio retaggio del peccato originale, un cascame immondo contro il quale rivolgiamo una protesta vana. E rimarremo irrimediabilmente sotto la tirannide di questo retaggio sudicio, a dispetto di rimostranze, lamentele e tentativi di ribellione
2) accettarla fino ad amarla, come una possibilità di configurarsi più compiutamente a Cristo sofferente. Se la si accoglie e la si offre a Dio per rinsaldare l’intimità con Colui che ci salva soffrendo, allora la sofferenza nostra, anche nella sua dimensione psicologica, si trasforma e si purifica. Assimilandoci nel soffrire all’Amore di Colui che volle fare della propria sofferenza via per la nostra salvezza, ci facciamo vieppiù prossimi al nostro Salvatore, a chi ci ama infinitamente. La sofferenza nostra, così vissuta, raffina e accresce la nostra comunione con l’Amore infinito, ottenendoci quella conformità a Cristo che, a livello psicologico, ci fa percepire e assaporare l’amore con cui ci ama l’Amore infinito, spazzando via quell’atteggiamento di indispettita ribellione che esacerbava la nostra sofferenza vissuta nel modo descritto in 1. La sofferenza nostra allora, associata a quella di Cristo, non è più sudicio retaggio del peccato ma è rivincita sul peccato, in Cristo Risorto innocentissimo vincitore del peccato. Non ci fa percepire l’oppressione di un’ingiustizia irreparabile, ma ci fa gustare quella giustizia di Dio che si chiama Amore misericordioso, amore che vince ogni sofferenza, lenendo la nostra presente e infondendo la speranza certa di una vita in cui godremo senza pause e senza restrizioni di questo Amore infinito.
Anche per noi è così Giuliana quest’anno come sempre. Non andiamo mai via a Pasqua e inoltre anche la mia piccola questi giorni sta male e ha vomitato tutto quello che aveva. Consolati che siamo in tanti. Piuttosto mi interessava sapere se il ricadere nel peccato e soffrirne può essere considerata una piccola croce oppure no.
il tuo commento non solo ci porta (per un po’) furi dal supplizio delle lunghe dichiarazioni papali o invocazioni o
adorazioni a mitraglia, ma anche offre l’occasione di fare le nostre solite considerazioni psico-socio-antropologiche (sic!) Che vuol dire portare la croce del vomito notturno rispetto a chi raccoglie il vomito notturno senza pensare di portare nessuna croce (nel senso che dici te).Mi ripeto, lo so, ma che differenza passa, anche, penso, di fronte a Dio tra te dotata dell’armamentario cattolico dell’offerta di questo martiri notturno e la gente qualunque che pulisce semplicemente (con semplicità , intendo)il vomito come sempre hanno fatto tutti per secoli? Non ti sembra anche a te di caricare di un peso (croce) indebito un fatto così universalmente usuale (e banale) nella vita di tutte le famiglie? Non ti sembra quasi ridicolo il fatto che una mamma che lava via il vomito dica, più o meno: ” Gesù, l’offro a te questo incomodo della raccolta del vomito etc.” ? Non si sconfina nella farsa? (per quanto in buona fede, si capisce, ma non per questo menbo farsa)
Lo dicevo a Giuliana Zimucci!!!
Credo che tu abbia ragione, Alvise, nei gesti non cambia nulla, pulire è pulire, se deve farlo e lo si fa.
Non è assolutamente scontato che per un credente questi gesti si trasformino croci, piccoli o grandi che siano, ma per avere l’onore di chiamarsi “croce” dobbiamo mettere l’amore o la carità. Significa che devo amare ciò che faccio ed essere in unione di Cristo. Non è facile amare il vomito, almeno per me, ma anche in quel gesto così normale e semplice, posso metterci tutto l’amore che ho, e da piccolo disturbo durante le feste si trasforma in piccola croce, un offerta, per dirlo con parole diverse.
🙂
Ma perchè una mamma normalmente amorosa del figlio non sarebbe in unione con Cristo?
Occorre una sorta di autocertificazione formale di offerta a Cristo perché scatti la unione?
E poi ognuno lo sa da sè (tra i credenti) cosa vuole dire “prendere la croce” perché la sua propria vita la conosce solo lui e solo lui sa il suo dolore, seriamente, intendo.
Alvise, credo che l’amore altruistico è sempre un dono di Dio e meritevole, credente o non credente.
La differenza, secondo me, sta soltanto nel fatto che il credente n’è consapevole.
🙂
E allora?
E allora: il credente ha detto di “SI” a Cristo, il non credente ha detto “No”.
Dopo la morte, si spera, possa tornare utile al non credente un atto di amore altruistico.
Karin: Smack! 😀
Ti rispondo qui anche per quello che domandavi sotto.
“Ma perchè una mamma normalmente amorosa del figlio non sarebbe in unione con Cristo?”.
Mi pare che filia ecclesiae abbia ragione quando dice “l’amore altruistico è sempre un dono di Dio e meritevole”.
Anche se non è credente, una mamma che ama altruisticamente il figlio si assimila a Cristo, che è Amore misericordioso, rinvigorisce il nesso con Cristo. Lo sappia o no, sta assecondando la vocazione inscritta nell’essenza dell’uomo: il quale è predestinato dall’eternità ad assimilarsi perfettamente a Cristo, a conformarsi pienamente a Lui, che è Amore misericordioso. Ogni atto di amore misericordioso concorre ad attuare la conformità a Cristo, cioè a realizzare la congenita, nativa vocazione di ogni essere umano in quanto tale. Che lo sappia o no, chi ama misericordiosamente aderisce all’incessante impulso con il quale Dio tutti sospinge ad amare misericordiosamente (ecco perché mi dico d’accordo con filia ecclesia nel sostenere che l’amore altruistico da noi esercitato è un dono di Dio: un dono accolto, non ripudiato, che diviene perciò un nostro atto meritevole)
Ovviamente la conformazione a Cristo è un processo graduale che può conoscere tappe successive, crescite, progressi (e può subire anche regressi e patire ripulse): ma poiché Cristo è fonte e scrigno e somma di ogni valore, chiunque con un proprio atto si conforma a un valore, per quanto sia peccatore si congiunge a Cristo mercé quell’atto, riduce – quand’anche fosse vertiginosa – la sua distanza da Cristo, risana e rettifica almeno in parte la propria sviata e sfigurata similitudine a Lui.
Io non sono sviato o sfigurato nella mia similitudine a Lui. Non ho nessuna similitudine a Lui e non voglio averla.Io sono io, sarò sterco, ma sterco mio.
Alessandro:
Semplicemente accetarla come parte della vita no?
Ma chi non crede allora sarebbe sempre a mugolare dal dolore secondo te?
Io nella realtà conosco gente che mugola dal dolore e gente che non mugola,
portatori o non portari di croci, indipendentemente dalle religioni, o non religioni.
adesso non ho tempo, ti risponderò più tardi (non è questione di mugolare o non mugolare, ma dell’intimo atteggiamento che tieni nei confronti del soffrire)
Reblogged this on i cittadini prima di tutto.
Certamente: Era questo che intendevo. La gente, nel suo intimo, ha differenti atteggiamenti di fronte al dolore,
ognuno lo affronta a modo suo, e lo si capisce (a volte) senza tanto bisogno di manifeste dichiarazioni.
La penso come Alessandro: anche un non credente, in particolare una mamma (e ne conosco molte) che ama incondizionatamente il figlio, si avvicina a Dio in un modo inimmaginabile affrontando le piccole o grandi difficoltà quotidiane. Mi spiace, Alvise, che ti sembri banale la mia “croce”, ma per ora non mi è dato sopportarne di particolarmente pesanti (verrà anche il mio momento, è certo; nessuno è esente dalle sofferenze vere e profonde). Però credo che l’unico modo per amare le croci sia accettare che sono per noi, per la nostra crescita.
Giuiiana: grazie! Auesta la chiamo sapienza! 😀
Non ho detto che un non credente non si avvicina a Dio. Ho detto il contrario. Che non occorre essere credenti per avvicinarsi a Dio (nel caso esista) o per essere contenti (senza bisogno di croci o offertori ).
Per quanto riguarda le sofferenze potrebbe anche darsi che a te non ti capiti mai di soffrirle, a parte la vecchiaia, la morte dei tuoi cari genitori e necessità di questo genere, ma sono cose che si vive tutti, con maggiore o minore forza d’animo.
Se te ci hai Dio avrai una marcia in più, gli altri in meno. te l’automobile e gli altri il motorino, o la bicicletta, o a piedi!!!
E tutti, cominque, si cresce. Pensa a crescere che te, che gli altri ci penseranno loro a se stessi. Nè più né meno.
…volevo scrivere ” e tutti comunque si cresce. Pensa te a crescere te, che gli altri …etc.”
E poi, scusate, Costanza Miriano ci parlava oggi nel suo modo che è il suo , che piaccia o non piaccia, della avventurosa vita in famiglia e altre ardue peripezie, e subito sbucano fuori ammaestramenti papali, preghiere, sacrifici,
invocazioni sacre. Ma che modo è questo? Uno arriva in un posto e comincia a predicare?
Rileggiti il post, è la padrona di casa che parla di croci, sacrificio, martirio. Quindi preghiere, ammaestramenti papali, dissertazioni soteriologiche e affini non sono fuori luogo:
“Detto questo, anche nelle piccole pieghe della vita di ogni giorno, nelle piccole croci poco nobili e poco eroiche si può scegliere la via stretta, la via scomoda, quella che costa di più ma l’unica che fa vivere.
Non sarà un gran che, voglio dire non ci è richiesto ancora il martirio, ma è quello che possiamo fare, per il momento, qui e adesso.”
…ma mi sembra ne parlava in maniera colloquiale, ma poi subito si è passati ai sermoni cattolicissimi.
Cosa, questa, magari, anche giusta che uno spari le cartucce che ha. Ma cerchiamo di parlare come si parla tra uomini, senza intercessioni.
Come raccomandava San Domenico: “taci, apri la bocca o per parlare con Dio o per parlare di Dio”.
E poi un cattolico non può parlare senza intercessioni: quello in cui crede gli è trasmesso dal Magistero della Chiesa, e quindi il credente che parla da credente deve far continuo riferimento, più o meno ampio ed esplicito, a questo Magistero.
Luigi: la tua è una domanda da un milione di dollari! ricadere nello stesso peccato è anche un mio problema, che come sempre predico bene ma a razzolare….ho una certa difficoltà! quanto alle obiezioni di Alvise che posso dire? non volevo fare la morale a nessuno, stavo solo considerando che il crescere portando con gioia la proprie difficoltà è una raccomandazione che faccio più che altro a me stessa. E poi io sono proprio uno zero per dire ad altri cosa possono o devono fare. Non solo non ho alcun titolo, ma ho anche poca esperienza di sofferenze, e qui ci sono persone che hanno affrontato drammi ben più grandi dei miei (e non solo non li fanno pesare agli altri, ma sanno anche farci vedere come li si possa portare con amore e come testimonianza per tutti). Se poi i “sermoni cattolicissimi” siano utili o no, lascia che a deciderlo siano tutti quelli che leggono. A me personalmente servono eccome! quindi ,Alessandro, continua pure a commentare come fai di solito, grazie!
Mi associo (Alessandro, continua pure a commentare come fai di solito, grazie!)
Gli interventi di Alessandro sono una straordinaria ricchezza del blog, ho avuto modo di dirlo privatamente a lui e sono felicissimo di dirlo anche pubblicamente
Ad admin, media-e-midia e Giuliana, grazie di tutto cuore per la generosissima benevolenza che mi usate e dimostrate!
Ale: mi sono persa questi ultimi commenti e li ho letti solo ora! Mi unisco a coloro che pensano che i tuoi commenti sono “straordinaria ricchezza del blog”!
Senza i tuoi commenti questo blog non sarebbe lo stesso! Supersmackgigante! 😀
Grazie, grazie di vero cuore!! 😀
per quello che vale la mia sottoscrizione, eccola qui.
grazie mille anche a te!
Ovviamente Alessandro anch’io ti considero il padre Livio dei poveri o se preferisci il teologo di fiducia e quindi ne aprofitto per inoltrarti la domanda che ho posto a Giuliana:
“il ricadere nello stesso peccato con il suo carico di peso insopportabile, di disistima e di miseria” è da considerare una croce oppure questa è una cosa che derivando dal peccato (disobbedienza a Dio) e che quindi ci cerchiamo non dev’essere considerata tale?”
Caro Luigi, grazie, ma non sono teologo, posso solo darti una personalissima opinione in proposito.
Ciascuno è chiamato a conformarsi a Cristo nella concreta situazione in cui si trova.
Il peccatore che avverta la responsabilità opprimente (“insopportabile”) del peccato commesso è un sofferente (soffre per
il peso della propria colpa). Che ci chiede di fare Cristo di questa sofferenza, per conformarsi a Lui (conformazione che – come s’è detto – è la meta cui nativamente è vocato ogni essere umano)? E’ una sofferenza generata dal nostro peccato, e chiamiamola pure (perché no?) una croce: una croce da portare. Come? Anzitutto non bisogna farsi schiacciare dalla croce, dalla sofferenza per la cognizione pungente della nostra colpa: occorre evitare la disperazione, che allontana da Cristo.
Il quale, per conformarsi a Lui, ci chiede inoltre di non trattare la nostra colpa come un fardello del quale non ci si può disfare: per quanto si inclini a ricadere nel medesimo peccato, la confessione sacramentale sempre di nuovo e daccapo ci monda da quel peccato, ci sgrava da quel fardello oberante.
Dio, nella Sua onniscienza, quando ci perdona un peccato sa già come e quante volte ricascheremo nel medesimo, e nondimeno non si rifiuta di perdonarci. E questo sia motivo di grande gioia, che non estingue il rammarico dolente per il peccato perpetrato ma che dovrebbe preservare dalla cupezza disperata che s’accompagna al considerarsi ormai peccatori irrevocabilmente induriti, inesorabilmente incapaci di resistere alla tentazione.
Così mi sembra vada portata la croce del rimorso per un peccato nel quale purtroppo si suole incorrere.
Grazie Alessandro, mi sembra una risposta molto buona.
Alessandro, anch’io sottoscrivo (per quello che può valere!)! Grazie del tuo contributo!
Vale molto la tua sottoscrizione, grazie a te! (così però mi fate arrossire, basta così 😉 )
eh no, perchè basta? Ricordo che, dopo un po’ di tempo che leggevo il blog, ho scritto io mio primo commento proprio in risposta ad uno tuo, …al solito su BXVI…….che ci piace sempre. Bravo Ale!
..”il” mio primo commento, sorry
Grazie di cuore, davvero, Angelina!
Grazie!!! Attualizzazione davvero avvincente. Non riesco a trattenermi dal condividere un testo che conoscerai
La passione, la nostra passione, sì, noi l’attendiamo.
Noi sappiamo che deve venire, e naturalmente intendiamo
viverla con una certa grandezza.
Il sacrificio di noi stessi: noi non aspettiamo altro che ne scocchi l’ora.
Come un ceppo nel fuoco, così noi sappiamo di dover
essere consumati. Come un filo di lana tagliato
dalle forbici, cosi’ dobbiamo essere separati.
Come un giovane animale che viene sgozzato, cosi’ dobbiamo essere uccisi.
La passione, noi l’attendiamo. Noi l’attendiamo, ed essa non viene.
Vengono, invece, le pazienze.
Le pazienze, queste briciole di passione, che hanno lo
scopo di ucciderci lentamente per la tua gloria, di
ucciderci senza la nostra gloria.
Fin dal mattino esse vengono davanti a noi:
sono i nostri nervi troppo scattanti o troppo lenti,
è l’autobus che passa affollato,
il latte che trabocca, gli spazzacamini che vengono,
i bambini che imbrogliano tutto.
Sono gl’invitati che nostro marito porta in casa
e quell’amico che, proprio lui, non viene;
è il telefono che si scatena;
quelli che noi amiamo e non ci amano piu’;
è la voglia di tacere e il dover parlare,
è la voglia di parlare e la necessità di tacere;
è voler uscire quando si è chiusi
è rimanere in casa quando bisogna uscire;
è il marito al quale vorremmo appoggiarci
e che diventa il più fragile dei bambini;
è il disgusto della nostra parte quotidiana,
è il desiderio febbrile di quanto non ci appartiene.
Così vengono le nostre pazienze, in ranghi serrati o in
fila indiana, e dimenticano sempre di dirci che sono il martirio preparato per noi.
E noi le lasciamo passare con disprezzo, aspettando –
per dare la nostra vita – un’occasione che ne valga la pena.
Perché abbiamo dimenticato che come ci sono rami
che si distruggono col fuoco, così ci son tavole che
i passi lentamente logorano e che cadono in fine segatura.
Perché abbiamo dimenticato che se ci son fili di lana
tagliati netti dalle forbici, ci son fili di maglia che giorno
per giorno si consumano sul dorso di quelli che l’indossano.
Ogni riscatto è un martirio, ma non ogni martirio è sanguinoso:
ce ne sono di sgranati da un capo all’altro della vita.
É la passione delle pazienze.
da M.Delbrel
Giovanni: grazie! Molto toccante. Smack! 😀