Realismo e mistero familiare

Enea Anchise e Ascanio

di Andreas Hofer

Più delle peggiori realtà, io odio i falsi ideali. Il reale, per me, non è ciò che si oppone all’ideale, ma ciò che si oppone alla menzogna.
(Gustave Thibon)

La crisi della civiltà europea, insegna in controtendenza Benedetto XVI, fa corpo unico con la crisi dell’istituto familiare, tanto che «l’Europa non sarebbe più Europa, se questa cellula fondamentale del suo edificio sociale scomparisse o venisse cambiata nella sua essenza» (J. Ratzinger, Europa. I suoi fondamenti spirituali ieri, oggi e domani, in M. Pera, J. Ratzinger, Senza Radici, Mondadori, Milano 2004, p. 69). La famiglia può essere rinnovata, ammonisce il Papa, non sostituita.

Perché questa insistenza? Perché questa ostinata volontà di sottrarsi ai canoni del politicamente corretto? Non è forse questo, come recitano gli slogan alla moda, essere fuori dal mondo? Qui sta, a mio avviso, lo spessore evangelico di papa Benedetto: nell’averci rammentato, con le parole e l’esempio, che essere stranieri al mondo, nel senso neotestamentario del termine, è il prezzo da pagare per restare fedeli alla realtà e all’uomo concreto, non all’umanità astratta e irreale delle ideologie.

A ragione è stato detto che il male più profondo della nostra epoca sta nella perdita di contatto con il reale. L’irrealismo nasce quando i pensieri, gli affetti e gli atti umani sono privi di comunione col loro oggetto concreto. Così, scollegata dalla realtà e lasciata a se stessa l’astrazione, altrimenti strumento indispensabile per la conoscenza umana, questa genera l’irrealismo sotto forma di intellettualismo o di soggettivismo, laddove si dia il primato alla ragione o al sentimento.

Si pensi solo all’inesausto e mai sazio desidero di rivoluzionari e utopisti di trapassare, come ha indicato Eric Voegelin, in una realtà-di-sogno. Si tratta, per i partigiani dell’irrealtà, di sovrapporre alla concreta realtà umana un mondo artificiale assai prossimo a ciò che i filosofi hanno chiamato «essere di ragione»: un puro prodotto della nostra mente pensante, un concetto privo di corrispondenza con un oggetto reale. Da qui la tendenza moderna a considerare l’ordine sociale come l’esito della sola pianificazione razionale. Nella postmodernità questo orientamento si è fatto anche più marcato. L’astrazione non cessa di fluttuare nel campo dell’indefinito e sempre più si tocca con mano la verità della profezia di Goya: il sogno della ragione, sconfinando nel delirio, continua a generare mostri (1).

Nella società postmoderna brulicano le illusioni. Viviamo nell’epoca della «de-realizzazione» del mondo, in cui imperativo categorico è de-costruire, de-strutturare ogni sfera della realtà. Il nostro, ha mostrato Jean Baudrillard, è il tempo dei simulacri, della confusione di sogno e realtà prefigurata da Nietzsche.
C’è differenza tra dissimulazione e simulazione. Dissimulare è fingere di non avere ciò che si ha. Simulare significa invece fingere di avere ciò che non si ha. La dissimulazione rinvia a una presenza, lascia almeno intatto il principio di realtà. La simulazione, al contrario, rimanda a un’assenza. Il simulacro è una messa in causa assai più radicale del divario stesso tra verità e falsità, tra realtà e immaginazione.

Si capisce facilmente perché la famiglia costituisca un ostacolo insormontabile per le fantasticherie degli irrealisti. Osserva Emanuele Samek Lodovici nel suo fondamentale Metamorfosi della gnosi che la famiglia primeggia tra le realtà umane per la capacità di infondere nei propri membri il senso della realtà e del limite.
Quando funziona (si parla dunque della fisiologia di un processo, non della sua patologia), l’istituzione familiare è l’esemplificazione di una società gerarchica in cui la funzione di comando è legata allo spirito di servizio, non al potere, e i cui membri sono vincolati non dalla semplice rassomiglianza ma legati da affetti incondizionati e leali a un comune destino.

Poggiata sui pilastri dell’interdipendenza e della reciproca solidarietà, la famiglia si profila così come luogo di conciliazione dell’unità sociale e della diversità. Al suo interno una uguale dignità morale si associa infatti alla diversità delle funzioni e dei ruoli. Una comunità poi, quella familiare, in cui l’unità non è il risultato ma precede la volontà dei propri membri. Nulla a che vedere con la vocazione irrealistica alla costruzione di «società artificiali» sulla base di una volontà pianificatrice.

La famiglia è luogo del limite in un duplice senso: nel senso della dipendenza e della memoria storica. Al suo interno prende corpo e si acuisce il senso di una realtà che non è totalmente in nostro potere, irriducibile perciò a una semplice costruzione sociale. Nessuno di noi si autogenera né nasce onnipotente, ma dipendente da altri, i genitori in primo luogo. Una psiche sana ha bisogno di movimento, ma anche di arrestarsi dinanzi a un limite (già i Greci sapevano bene come l’ebbrezza dell’illimitato, sfidando il principio di realtà, generasse hybris).

La «costellazione familiare» segue un doppio e paradossale movimento. Nel corso del tempo essa si discosta dal figlio, l’essere che ha generato, cresciuto e nutrito al suo interno, pur restandogli sempre accanto (ogni vera fedeltà richiede distacco).
Allontanandosi, la famiglia cessa di essere tutto per il figlio ma non cessa di essere una parte fondamentale della sua esistenza. Questo lento processo di formazione, indispensabile per la crescita armoniosa della persona, benefico e traumatizzante al tempo stesso, segna la personalità con rilievi incancellabili quasi indistinguibili da inguaribili lacerazioni.

Così la vita del bambino, che soggiace alla legge dello sviluppo nel tempo, si fa man mano più definita, delimitata, articolata. Sempre più egli si concepisce come individuo autonomo, come essere unico e irripetibile. Eppure ogni figlio è ben lontano dall’essere dotato di un’esistenza assoluta, cioè sciolta (ab-soluta) dall’origine.
Niente può cancellare che la sua esistenza è, in ultima istanza, la risposta scaturita dal profondo a un’investitura. Essa incarna nel tempo, ha scritto Gabriel Marcel, «la risposta all’appello che due esseri si sono lanciati nell’ignoto, e che senza sospettarlo hanno lanciato al di là di se stessi, ad una incomprensibile potenza che s’esprime solo donando la vita». (G. Marcel, Il mistero familiare, in Homo viator, tr. it. Borla, Torino 1967, p. 86)

Perciò la famiglia, osserva sempre Marcel, ha natura anfibia. Essa si trova nel punto di intersezione del vicinissimo e dell’infinitamente lontano, caratteristica di ogni mistero, incluso quello religioso.
Tale è il coinvolgimento in una realtà tanto intimamente legata all’esistenza di ogni singolo essere che soffermarsi sul «mistero familiare» significa, per ciascuno di noi, porsi in un punto insieme troppo vicino e troppo lontano per poter figurare nella zona rigorosamente delimitata della conoscenza oggettiva. Per dirla con Pascal, ogni singolo membro della comunità familiare è embarqué. Come ricorda Romano Guardini ci si può certo scagionare dalle colpe dei padri, dire: «ne sono innocente». Ma ben più difficilmente dai padri ci si può disimpegnare, dire: «non mi riguarda».

La famiglia è anche luogo di sedimentazione delle esperienze del passato, il memento conservato e trasmesso dagli anziani, dai propri predecessori temporali. Ogni nuova vita venuta al mondo è preceduta da una ramificazione di esistenze antecedenti alla propria. Una inestricabile linea di ramificazioni che prende la forma di un misterioso cordone ombelicale affondato in abissi immemorabili e si smarrisce ben presto in una impenetrabile oscurità. Indeterminazione crescente e grandiosa dove il conosciuto si mescola allo sconosciuto, questa fittissima foresta di legami si rivela una rete infinita pressoché coestensiva allo stesso genere umano. Questo canale di collegamento dell’eterno e del tempo è però irriducibile a un rapporto di produzione dove il bambino, ultimo anello della catena, sarebbe l’effetto, e la stirpe degli antenati la causa. Non di causazione si tratta, ma di partecipazione. Antenati e discendenti sono parte gli uni degli altri, in una sorta di consustanzialità nell’invisibile.

È in famiglia, dunque, che si incide nella nostra carne il principio di realtà, il senso del limite. E sempre tra le mura domestiche apprendiamo che l’astrazione, per restare autenticamente umana, deve partire dal concreto per affacciarsi sul concreto. Presidiare il mistero familiare è ben più che una rivendicazione confessionale. È, piuttosto, voler mantenere in vita il legame tra l’uomo e il reale.

(1) «El sueño de la razón produce monstruos», la frase sotto la celebre incisione numero 43 dei Caprichos di Francisco Goya, è generalmente tradotta con «Il sonno della ragione genera mostri». Tuttavia più d’uno ha osservato che sueño, in castigliano, può avere tanto il significato di «sonno» quanto quello di «sogno». E secondo quest’ultimo Peter Conrads Kronenberg s.j. (Iconografia cristiana e pittura rivoluzionaria, «La Civiltà cattolica», q. 3707, 4 dicembre 2004, p. 454-456) interpreta l’opera di Goya.

11 pensieri su “Realismo e mistero familiare

  1. Sara

    Andreas, come al solito, è tutto perfetto! Qui non c’è da commentare, c’è da meditare e sedimentare.

  2. Tuttavia più d’uno ha osservato che sueño, in castigliano, può avere tanto il significato di «sonno» quanto quello di «sogno». E secondo quest’ultimo Peter Conrads Kronenberg s.j. (Iconografia cristiana e pittura rivoluzionaria, «La Civiltà cattolica», q. 3707, 4 dicembre 2004, p. 454-456) interpreta l’opera di Goya.

    Io lascerei, almeno, che restasse l’ambiguità delle due interpretazioni. Fermo restando, ovviamente, che tante utopie hanno generato mostruosità. Ma non è anche il cristianesimo un’ “utopia”?(con buona pace del grande Thibon)

    1. Alèudin

      infatti è mediante la grazia di Dio che veniamo portati dall’utopia alla realtà, da soli non ce la faremmo.

    2. @ Alvise

      Su Goya: Sarebbe una questione da approfondire. Io credo che questa ambivalenza sia stata voluta da Goya. Comunque è innegabile che ampiamente prevalente nell’immaginario collettivo sia l’interpretazione del “sonno” della ragione, dunque non vedo alcun pericolo a “mettere in circolo” anche una lettura alternativa dell’iscrizione n. 43. A ben vedere poi non vedo una contraddizione di principio tra i due significati. Una ragione “in sogno” non può che essere “in sonno”. Una ragione che si vuole assoluta, slegata dal reale, può dirsi una ragione “sveglia” e “adulta”?

      Su utopia e cristianesimo: ti rispondo col grannde Thibon, appunto: «L’utopista come il santo sono dei fidanzati dell’impossibile. Quel che li distingue è che essi credono, il primo, che le nozze avranno luogo nel tempo; il secondo, nell’eternità».
      A ben vedere l’utopista sbaglia solo “mira”, diciamo.Trasferisce quaggiù sulla terra quella sete di assoluto che il cristiano sa poter essere appagata solo nel mondo ultraterreno. L’utopista vuole sfuggire alle “regole della casa del due”, vuole raggiungere l’unità perfetta tra l’eterno e il tempo già qui sulla terra. È come se dicesse: l’uomo non ha altro pane che quello terrestre, la terra non solo è tutto il suo pane ma anche la sua fame. Mentre sappiamo bene che Cristo nel vangelo ricorda che non di solo pane vive l’uomo. Ciò, comunque, non vuol dire che non viva anche di pane…
      Perciò, dice sempre Thibon, vivere la fede cristiana è, in certo senso, accettare la lacerazione di una ferita interiore che non si asciugherà se non al momento del trapasso. L’uomo si trova alla confluenza di due mondi: il mondo di quaggiù, pieno di contraddizioni e “problemi maledetti” (malattie, morte, sofferenza, dolore, ingiustizie, ecc.), dove non si può certo dire che regnino l’amore, la giustizia, la bellezza, e un altro mondo di assoluta luce, amore, bellezza, giustizia. Il divario tra ciò che siamo e ciò che potremmo essere, lo scarto tra la sete di assoluto e le “bevande” terrene insufficienti a placarla scava questa ferita interiore. Certo, già quaggiù i veri ben terrestri comunicano qualcosa di quella luce, nutrono l’anima dell’uomo. Ma non la saziano ancora pienamente, è la tensione tra il già il non ancora. Questa divagazione per dire che la fede autentica non è un’armatura che protegge la debolezza dello spirito umano dinanzi alle difficoltà della vita, che protegge dai dubbi e dalle domande. Semmai accresce la sete, moltiplica le domande, non dà facili appagamenti. La fede cristiana richiede il coraggio di sopportare questa contraddizione che è la ferita, la carità è amore attivo. L’utopia in fondo è un tentativo di eliminare le contraddizioni già in questo mondo, di asciugare la ferita già quaggiù, vuole la consolazione senza la purificazione. E forse è proprio questo il motivo per cui quest’ansia generalmente non produce che infenzione per la ferita.

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