Le regole della casa del due

colonneannodate

di Andreas Hofer

Alcune virtù sono le astuzie di un vizio.
(Nicolás Gómez Dávila)

L’anima di ogni essere umano, regione della vita morale, osserva Simone Weil ne L’enracinement (trad. it. La prima radice), è sede di bisogni vitali analoghi a quelli corporei. Per quanto più elevata sia la difficoltà di riconoscerli, i bisogni della vita morale sono, come i bisogni fisici, necessità della vita terrena. Non soddisfarli presto o tardi conduce l’uomo a cadere in uno stato prossimo alla morte, più o meno analogo alla vita vegetativa.

Qui entrano in gioco le dimore terrene che ospitano le tappe della  vita umana saldando il destino personale a quello sociale, il bene di ciascuno a quello di tutti. Le autentiche realtà terrene, i veri beni terrestri sono preziosi intermediari tra l’uomo e il suo fine trascendente, veri e propri organi di conservazione e trasmissione dei tesori spirituali e morali cumulatisi nel tempo. A tale riguardo la Weil assegna grande rilievo a ciò che nelle collettività umane (famiglia, patria, tradizioni, costumi, cultura, ecc.) provvede a riscaldare e nutrire le anime. Spetta dunque a questi benefici involucri del nutrimento umano assolvere una particolare, delicata funzione di alimentazione non dissimile a quella dell’utero materno.

La rete di obblighi e doveri cui le comunità umane danno luogo deriva proprio dai bisogni vitali dell’uomo, e questi mai vanno confusi con i desideri, i capricci, le fantasie, i vizi. Anche il campo dell’anima – chi ne dubita? – non è esente dai rischi dell’intossicazione, e occorre saper discernere il nutrimento dal veleno. Non si dà assicurazione, anche per le collettività sociali, contro il pericolo della malattia. Intere civiltà possono perire e cessare di fornire sostentamento alle anime, quando non  divorarle anziché nutrirle.

Et-et

Come accade per i bisogni del corpo, anche le necessità dell’anima devono essere limitate. Anche fosse provvisto di una quantità smisurata di pane, per ogni uomo giungerà il momento della sazietà. Lo stesso avviene col nutrimento delle anime. Solo il vizio, che non conosce misura, ignora il limite.

Sfuggono alla trasformazione in vizi, i bisogni, allorché sanno disporsi per coppie di contrari e combinarsi in un equilibrio, dice la Weil. Ogni uomo necessita al contempo di nutrimento e di un intervallo fra i pasti; di esercizio ma anche di riposo; di caldo e di fresco; di attività come di quiete. Tanto nel campo della salute biologica quanto in quello morale e sociale la sanità dell’organismo richiede equilibrio e integrazione di poli differenti, senso del limite e del relativo.

Quest’attività non va concepita come una coesistenza inerte. Richiede invece l’esercizio di una forza unificatrice, implica uno stato di tensione vitale necessario al mantenimento dell’unità essenziale e a garanzia contro il rischio, sempre presente, della dissociazione.

L’unità profonda è una riconquista incessante sulle perturbazioni che minacciano tale unità. È uno sforzo consistente nel ristabilire un’armonia con più energia di quanta ne richieda la divisione, non nell’attaccare un eccesso per sacrificarlo sull’altare dell’eccesso contrario. Per questo la vera morale è incarnata: segue la logica dell’et-et, poggia su un’unità organica capace di comporre in una sintesi vivente questi moventi contrastanti.

Aut-aut

Similmente ai discepoli, anche i vizi vanno in missione a due per due, nota opportunamente il geniale Fabrice Hadjadj nel suo La fede dei demoni. Ma a differenza dei primi non agiscono come testimoni che si cedono la parola, come a confermare, in spirito d’umiltà, l’uno i pregi dell’altro. I vizi, ispirati dalla logica dell’aut-aut, si comportano piuttosto come due nemici che alternativamente si giustificano o si accusano, simili a gemelli eterozigoti pronti a esaltarsi vicendevolmente in una sorta di decadente solidarietà dove a turno l’uno può assumere l’altro come suo alibi. Così accade che l’avaro, accusando il prodigo, tragga giustificazione per perseverare nella propria avarizia, e che il prodigo, scagliandosi a sua volta contro l’avaro, nulla voglia mutare della propria prodigalità. Caos o divisione, liquefazione o lacerazione. Errori e vizi, verità impazzite e virtù adulterate attraversano l’indistinto oceano della confusione solo per infrangersi con violenza contro l’invalicabile muro della separazione.

Eternità e posterità

C’è qui all’opera una realtà che coinvolge la nostra natura più profonda. Ne troviamo traccia anche nella Bibbia. È noto come essa abbia inizio con l’espressione Bereshit, «In principio». Sta bene, ma per quale motivo, si chiedono i rabbini di Israele nel Midrash Rabbah, la Torà comincia con la seconda lettera dell’alfabeto ebraico (beth) in luogo della prima (aleph, che del resto è l’iniziale di elohim)? «La Genesi – commenta Hadjadj – inizia col due perché il nostro abitare è duplice: temporaneo ed eterno. Il divario tra l’uno e l’altro è il tempo della grazia offerta. Volere tutto subito o rimandare tutto al futuro, essere troppo sicuri della propria salvezza oppure troppo sicuri del proprio essere perduti, è pretendere che esista un’unità che non ci appartiene, e significa – presunzione o disperazione che vengono a spaventare la fonte – rifiutare la sorpresa di Colui che viene». (F. Hadjadj, La fede dei demoni, trad. it., Marietti, Torino 2010, p. 139)

Ciò che per noi viene prima, a cominciare dalle lettere dell’alfabeto, è pur sempre posteriore a ciò che è primo in sé, cioè Dio. Beth – che, oltre ad avere il valore numerico del due, in ebraico indica anche la casa –  ci ricorda che assolutamente Uno è solo l’Eterno, mentre la creazione, e con lei l’uomo, dimora nella «casa del due». Fin dall’inizio, con la prima lettera, la Sacra Scrittura ci fascia dunque con le vesti dell’umiltà, invitando l’uomo a riconoscersi secondario, in posizione gregaria. Alla creatura finita è precluso l’accesso diretto e immediato al Creatore. «Nessun intelletto creato – scrive san Tommaso – «può arrivare a quel perfetto grado di cognizione della divina essenza secondo il quale è conoscibile» (Summa theol., I, q. 12, a. 7, resp.). Dio ci supera, la nostra conoscenza non può accostarsi all’Essere primo e assoluto se non a partire dalle Sue opere.

La prova del fuoco

Lo leggiamo anche nel libro del Siracide: «Tutte [le cose] sono a coppia, una di fronte all’altra, egli non ha fatto nulla di incompleto. L’una conferma i meriti dell’altra, chi si sazierà nel contemplare la sua gloria?» (42, 24-25). Tuttavia, qui di nuovo si presenta l’insidia dell’aut-aut: il “due” può rivelarsi tanto il numero della comunione quanto quello del duello all’ultimo sangue, la complementarietà è a rischio di degenerare in contrarietà. Una virtù praticata senza amore infatti altro non è che un vizio sotto copertura. Un bene solo simulato è un’adulterazione che produce tossine. Veleno per l’anima, come la giustizia senza misericordia che si muta in crudeltà, la misericordia senza giustizia che si trasforma in lassismo. La coppia scoppia quando si spezza la relazione organica che associa una virtù all’altra come membra di un unico corpo.

In realtà non si sfugge al pericolo di dualismi incendiari e configgenti se non si tien conto che la ragione ultima delle cose risiede nell’amore, ancor più che nella ragione stessa. Non c’è comunione senza trasfigurazione: dar vita a una relazione comporta il passaggio attraverso una prova, esige un mutuo sacrificio di egoismi. Anche l’umano desiderio di bene è tentato dall’autosufficienza, deve perciò affrontare una “prova del fuoco” e realizzarsi pienamente nell’amore, unica virtù assimilabile in dosi illimitate e senza prescrizione medica. Non è questo il senso dell’immagine con cui sant’Agostino vede nell’amore di carità una fiamma che tutto consuma e trasforma in se stessa? (cfr. Esp. sui salmi, 121, 2)

Non c’è due senza tre

Le riserve di verità, bontà e bellezza di cui l’essere umano abbisogna per nutrirsi possiedono forse – analogamente allo Spirito d’Amore che unisce il Padre e il Figlio – una struttura trinitaria? Osserva a questo riguardo il solito Hadjadj: «La verità consistente nel tenere sempre insieme queste due è dunque sempre trinitaria: c’è l’una, c’è l’altra e c’è la loro relazione. È il due del duo. Ma il diavolo si applica affinché questa relazione si spezzi e che l’una si scagli contro l’altra. Questo è il due del duello. Così il numero due è quello della prova: o si va verso il meno di due, nella separazione o nella confusione (ma come l’Uno in sé ci è rifiutato, così questo meno di due vale per un frazionamento indefinito), oppure si va verso il più di due, nell’apertura a un terzo ineffabile». (Op. cit., p. 141)

Il nostro mondo, straziato da conflitti incessanti, è testimone che laddove si estingue il mistero della comunione si impone l’assurdo della distruzione. Cercare rifugio tra le braccia del progresso tecno-scientifico, visto come ultimo avamposto contro la disperazione, rischia di rivelarsi solo un abbaglio accecante. Ernest Hello, nel pieno di quel XIX secolo tanto invaghito delle “magnifiche sorti e progressive”, lo ha visto con lucidità e acume: le scoperte della scienza e i progressi della tecnica si muovono verso l’unità fisica, tendono a sopprimere le distanze materiali svelando all’uomo i segreti dell’infinitamente grande e dell’infinitamente piccolo, i mezzi di trasporto e di comunicazione accostano sempre più strettamente corpi e voci. Eppure, all’infuori di questa unione solo esteriore, mai come prima la divisione tra gli uomini è stata tanto accentuata, manifesta, acuta, perfino urlante. Prometeo ha respinto la redenzione offerta dalla fiamma d’amore, preferendo conservare gelosamente il fuoco che ha sottratto agli dèi. E così, inebriato dal maleficio dell’aut-aut, «l’uomo tocca l’uomo per colpirlo, s’avvicina all’uomo per odiarlo più da vicino. Gli uomini s’abbracciano ma per affogarsi. La scienza facilita e accelera le aggregazioni umane, ma è impotente a riconciliare due nemici, e anche e soprattutto due amici. Gli strumenti di morte si sono moltiplicati mille volte di più degli strumenti di vita. L’arte di uccidere ha assai più successo dell’arte di guarire. La vera emulazione, la vera fraternità è la fraternità delle artiglierie». (E. Hello, Il secolo e i secoli, trad. it., Paoline, Alba (Cuneo) 1958, p. 252)

Accade così che la fraternità, isolata e svuotata del suo legame con la misericordia, finisca per uccidere la libertà. Ancora una volta, il mancato sacrificio dell’«io» conduce a sacrificare il «tu» sull’altare di un idolo sanguinario. «L’artiglieria – prosegue Hello – può disinteressarsi del cristianesimo; e così la sua prosperità è sincera. Però, la fraternità al di fuori del cristianesimo, è una parola che nasconde un tranello. Fuori dal cristianesimo, la fraternità è semplicemente una cosa che si esige dagli altri. Invece di essere un dono, è un’esigenza. È il furore dell’egoismo che urla. E che cosa urla? Urla: Sacrificatevi, sacrificatevi! adoratemi oppure vi uccido». (Ivi)

Abbandonare la casa del due, rifiutare la prova purificatrice dell’amore porta al frazionamento infinito di legioni contrapposte le une alle altre. Come ha ricordato Romano Guardini, dove viene meno la relazione vivente non rimane che la contraddizione, fonte di distruttività.
Tuttavia, è quando tutte le speranze terrestri hanno esaurito le loro illusioni, manifestando il proprio nulla, che l’uomo prende coscienza della vanità di tutto ciò con cui ha creduto di poter sostituire Dio.
Ed è allora che può scorgere in sé, come il figliol prodigo, il bruciante desiderio dell’infinito. L’appello del Dio vivente: l’ultimo, vero, solo rifugio.

16 pensieri su “Le regole della casa del due

  1. Quella colonna annodata è nella mia amatissima abbazia di Chiaravalle e rappresenta esattamente la vita comune…
    Dopo aver contemplato la foto, spero di avere anche il tempo di leggere l’articolo 😉

    1. @ don Fabio

      Ce n’è una anche presso il duomo di Trento, mi ha sempre affascinato e attratto proprio per quel senso di “comunione non vincolante”, che libera anziché incatenare.

  2. Giusi

    “Alcune virtù sono le astuzie di un vizio”. Ho letto per il momento solo questo che già merita un trattato. Ho capito che ci vorrà tempo e concentrazione. Per cui, come dice Angela, torno dopo.

  3. “Tuttavia, è quando tutte le speranze terrestri hanno esaurito le loro illusioni, manifestando il proprio nulla, che l’uomo prende coscienza della vanità di tutto ciò con cui ha creduto di poter sostituire Dio.
    Ed è allora che può scorgere in sé, come il figliol prodigo, il bruciante desiderio dell’infinito. L’appello del Dio vivente: l’ultimo, vero, solo rifugio”

    Dopo il Riassuntone concettoso con le opportune citazioni e notazioni, ecco alla fine, arriva alla fine la conclusione stringente e inconfutabile: Dio!!!
    Se eri in seminario ti incamminavano verso i più alti gradi gerarchici. Bravo!

  4. perfectioconversationis

    Andreas, splendido! Hai citato anche l’amato Ernest Hello! Rimane solo un’amarezza: chi ragiona, ama e prega riesce a cogliere una trama nel tessuto del mondo, dei nessi vitali e profondi, ma poco può in un mondo che non ragiona, non prega, non ama. Francamente vedo solo rovine, quasi oltre ogni possibilità di conservazione: dobbiamo accettare il fatto che il lavoro sarà di ricostruzione, e una ricostruzione intralciata dalle macerie. Gli strumenti umani di questa ricostruzione saranno santità, amore, cura di piccole comunità, e saranno ampiamente insufficienti, senza contributo divino.

    1. Matteo Donadoni

      Credo che persone come voi dovrebbero mettersi seriamente a ricostruire fra le macerie. Non so come, ma servono scuole libere in cui si insegni la verità con rigore logico e amore. Divisi si sparisce. Uniti, anche se pochi si piantano semi antichi per alberi nuovi.

    2. @ perfectio, ti ringrazio. Ernest Hello col suo stile fiammeggiante è un nutrimento per l’anima e per gli occhi. Su webarchive.org si trovano quasi tutte le sue opere (in francese). Se trovo il tempo prima o poi conto di scansionare “L’uomo” e metterlo in rete.
      Sono d’accordo: ci aspetta un lungo e paziente lavoro di ricostruzione. Come ha detto tante volte Thibon a noi tocca il compito di salvaguardare quel minimo di di terra fertile (cioè di sostanza umana) in grado di ospitare l'”innesto” della grazia. Qualsiasi tentativo di recuperare in fretta il terreno perduto sarà solo l’ennesima illusione utopica.

  5. angelina

    Dopo il Riassuntone concettoso con le opportune citazioni e notazioni, ecco alla fine, arriva alla fine la conclusione stringente e inconfutabile: Dio!!!

    Ermeneutica stringente, analisi minuziosa, incontestabile confutazione….. Mmmhhh ……… sì, mi hai proprio convinto.

  6. 61Angeloextralarge

    Ma…ma… e il mio commento? Che fine ha fatto? Va bbuò ci riprovo! 😉

    Andreas: questo post è da leggere… rileggere e leggere ancora e con mooolta calma. Per oggi mi fermo a: “questi mai vanno confusi con i desideri, i capricci, le fantasie, i vizi”. Ho materiale da rimurginare per un po’, come gli altri punti del post.
    Smack! 😀

  7. maria elena

    un innamorato di Cristo disse tanto tempo fa che per poter vivere bene insieme all’altro bisognava passare dall’io al Tu, dove il Tu è la croce di Cristo, e se guardi bene la lettera T ha proprio della croce…questa parola mi sostiene ogni volta che il mio io diventa così gonfio di orgoglio da uccidere chi le sta intorno!
    E non a caso la croce, perchè quetso amore è un dono proprio dalla morte in Croce di Gesà Cristo!
    Per il resto l’articolo è stupendo, da leggere con calma, soprattutto da quando non ho più memoria 🙂

  8. Queste frasi “Una virtù praticata senza amore infatti altro non è che un vizio sotto copertura. […] Accade così che la fraternità, isolata e svuotata del suo legame con la misericordia, finisca per uccidere la libertà. Ancora una volta, il mancato sacrificio dell’«io» conduce a sacrificare il «tu» sull’altare di un idolo sanguinario.” mi hanno toccato il cuore.
    E pur superando la fatica della lettura – non sempre scorrevole o semplice -, lettura che va ripresa e meditata con più tempo, non posso che ringraziare per questo profondo ed edificante contributo.

    Grazie Andreas!

    1. @ Mario: sono convinto che quando chi scrive e chi legge si sentono accomunati dalla medesima sete scatti una reciproca gratitudine. Sentirsi compresi è un dono grande e di questo ti ringrazio a mia volta, così come ringrazio Maria Elena, Angela, Karin, don Fabio, Angelina, Giusi, Matteo e anche Alvise (anche nelle critiche più dure c’è una verità di cui far tesoro).

I commenti sono chiusi.