Una banale “D”

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di Paolo Pugni

Carissimo Gianni, lasciatelo dire: non mi piace come sei cambiato.

Non ti ricordi più che eri quello aperto e disponibile, un po’ boy scout ingenuo, un po’ chitarrista spensierato: una via di mezzo tra i ragazzi dell’oratorio e quelli del collettivo. Stavi defilato in classe, per questo mi piacevi: non eri tra quelli che vedevo lontani, lanciati su mondi che non sapevo nemmeno immaginare, io un po’ nerd e un po’ imbranato, ma neppure tra quelli che persino io consideravo impresentabili anche se a 13 anni, nel pianeta della scuola media, tutto si colora solo in bianco e nero, e senza mezze misure è difficile separare le mezze calzette dalle mezze speranze.

Per questo c’eri tu. Che mi hai preso per mano e tirato fuori da un buco nel quale stavo sprofondando: quello della depressione pre-adolescenziale, quel non sentirsi all’altezza di un mondo che cambia, perché mentre sfumavano i sabati a giocare a subbuteo o a calcio e si affacciavano i pomeriggi a filare le ragazze e ad esplorare il territorio disegnato dalla pubertà, io perdevo colpi, arrancavo, scivolavo indietro e ne ero atterrito.

Io timido, io intimidito, io timoroso, io sensibile, io crudele, io tradito. Io.

E tu mi facesti scivolare dentro nella vita una consonante che cambiò tutto. Una banale D che non voleva ancora dire bocca spalancata nelle risate, perché gli emoticon non erano nemmeno ipotizzabili, figurati la rete che per parlarsi bisognava stare in piedi davanti al telefono a muro inchiodato in corridoio!

Mi spiegasti, te lo ricordi ancora? Io sì, era domenica pomeriggio e pioveva e percorrevamo sicuri piazza Pompeo Castelli evitando le buche piene d’acqua, che era ora di lasciare da parte quell’io fastidioso e iniziare a pensare a Dio. Perché anche la commiserazione è egoismo. Fulminante. In quell’apparente mancanza di autostima si nasconde una rivendicazione rabbiosa di supremazia: un’ira fumosa che attinge imperiosamente dalle profondità dell’egoismo per imporre un’attenzione che non andrebbe neppure supplicata. Che entrambe sono figlie di quel peccato va sotto il nome di superbia. Perché quel seme che buttasti allora, ha germogliato lentamente ed è sbocciato con fragranza nell’età adulta, quando tutto perde la confusione di passioni accese e con l’ombra assume profondità: l’ho rivista milioni di volte quell’acidità di chi si erige a vittima, brandendo la propria banalità come una clava e incolpando il mondo di indifferenza, o peggio di insensibilità, quando invece dovrebbe scegliere il nascondimento e il servizio per ritrovare dapprima la dignità e poi la stima di Chi sa vedere nel nascosto, e magari poi anche di chi vede solo ciò che sta sotto il sole. Tu allora me la indicasti sottotraccia, con parole di un ragazzino appena sbozzato, ma con una lucidità che ancora oggi ti riconosco.

E lo facesti con una sicurezza che per me che ti ammiravo fu un colpo di frusta. Mi sbattesti in faccia le responsabilità, come quella volta che continuavo a rimandare il rientro al corso di judo dopo uno strappo e mi affrontasti a muso duro per dirmi che non ero onesto con me stesso e che dovevo decidere che cosa fare della mia vita. Perché eri così Gianni, secco e sicuro, come un eroe a cavallo, come John Wayne, un po’ solitario, ma non troppo, un po’ affascinante, ma senza svenevolezze. E sicuro, lo dico ancora, di quella fierezza che ti portava a esigere la medesima rettitudine si trattasse di avere fede –che mi rimproveravi di aver perso la Messa domenicale- o di superare la paura di affrontare un istruttore di judo che mi trattava un po’ male, da pischello, da deboluccio qual ero –la codardia è sempre stata la mia fragilità maggiore- perché per te il grigio non aveva non dico cinquanta sfumature, ma neppure ragione di esistere.

E ancora me lo tengo nel cuore perché accidenti sì come mi hai fatto male quel giorno. E quindi bene. Mi hai costretto a guardare in faccia la mia pigrizia e a prendere partito: o di qua o di là, come il bicarbonato che mia nonna diceva sempre che fa sempre effetto (o va giù o tira su). Così mi son buttato di qua, con la Grazia del tuo rimprovero e lo sconto che tu mi hai donato dinnanzi a Dio e sei stato il primo di una strada in cui al momento del bivio -no anzi a quello della locanda dove sostare una notte e che invece ti attirava come le sirene di Ulisse a non andartene più via, a fare casa invece che proseguire il viaggio- ho sempre trovato un samaritano che mi ha preso per il bavero, compelle intrare, e apostrofandomi come lo furono i discepoli di Emmaus, mi ha strappato via dalla comodità per portarmi avanti, un passo in più almeno, un confine in più: Alberto, Paolo, Giuseppe. Che tanto nessuno sa chi sono se non io.

Ecco, eri così Gianni e adesso? Adesso non lo so perché ti nascondi, ti neghi, non ti fai trovare, nascondi i tuoi recapiti neanche fossi una spia bolscevica. Se imploro l’unico tramite che ci unisce, da lui ottengo solo un fermo invito a lasciar perdere a far come se tu non esistessi più, fossi sparito dalla circolazione. E no che non posso farlo. Non si lasciano perdere le pietre miliari. Che ne è stato di quella fierezza, di quella fronte alta sempre al sole?

Ti sei rinchiuso in uno sdegno che non merita più neppure la rabbia? O ti si è spento lo sguardo, posata la chitarra?

Ti sfido, semmai questa lettera ti raggiungerà attraverso la rete, che lancia e attira e cattura, a giustificare questo comportamento, come allora chiedesti a me, perché se mi odi, abbi il coraggio di dirmelo in faccia. Che è meglio l’odio che ogni forma di indifferenza.

Con quella stessa responsabilità io oggi ti schiaffeggio per destarti, per richiamarti ad un ruolo che ti scegliesti anni fa, non mi ti sciogliere in un annacquato e insipido brodo di borghesismi e di compiacenze, che non è da te. Non rifugiarti in quella comodità che allora aborrivi. Non piagare la tua giovinezza fiera con una maturità studiata e tranquilla.

E comunque, sappilo, per me resterai sempre quel tredicenne che sotto la pioggia mi apriva le porte del cielo.

20 pensieri su “Una banale “D”

  1. lidia

    Caro Paolo, non ce la faccio a leggere tutto, ma i pezzi che ho letto sono bellissimi. La commiserazione è anche egoismo: è verissimo.
    Però, non conosco il tuo amico e non so cosa gli sia successo, ma ti consiglio di non “sfidare” mai nessuno: perché spesso la gente, anche quando sembra pavida, “imborghesita”, magari ha nel cuore un punto dolente che noi non conosciamo, e che possiamo conoscere solo se ci apriamo davvero all’amico. Forse quella di Gianni non è codardia: forse è dolore profondo.
    Io ne ho tante, di amiche che avrei potuto “sfidare” così: ma non serve, temo; ciò che serve è che Gianni sappia che a te lui va bene in qualunque modo, che lo ami davvero, che lui per te non è un modello, ma una persona per cui dare la vita, qualunque scelta faccia. Che non è una “pietra miliare” ma una persona da accettare con tutti i suoi sbagli, errori, scelte che non si condividono…da amare, insomma. Poi, forti di quell’amore, si può correggere, sfidare, richiamare alle responsabilità, certo.
    Prego per lui!
    E grazie per le parole sulla conversioen del cuore, che per me sono più che mai attuali

  2. 61Angeloextralarge

    Paolo: mi sembra di vederti ragazzino. In fondo, anche se adesso sei un uomo “fatto” (come si dice dalle mie parti riferendosi all’uomo maturo, non di anni ma di vita), conservi ancora quella bellezza giovanile che si ha solo a quell’età.
    Molte cose mi colpiscono in questo post ma in particolare: “mi hai fatto male quel giorno. E quindi bene”. Bello questo tuo saper riconoscere che anche il male concorre al bene… “Tutto concorre al bene per coloro che amano Dio”! E’ vero! La maturità, la crescita, si pagano anche con la sofferenza, con i sacrifici, in particolare sacrifici di sé stessi.
    Che dire del tuo amico? “Ricambiagli” il regalo che ti ha fatto tanti anni fa, ci sta tutto quindi questa tua “sfida” mi piace, perché è fatta con amore. Grazie!

  3. Vittorio

    “anche la commiserazione è egoismo. In quell’apparente mancanza di autostima si nasconde una rivendicazione rabbiosa di supremazia: un’ira fumosa che attinge imperiosamente dalle profondità dell’egoismo per imporre un’attenzione che non andrebbe neppure supplicata. Che entrambe sono figlie di quel peccato va sotto il nome di superbia.”

    Questa è una perfetta descrizione della mia dolorosa adolescenza, in cui non sapevo che fare di me né dove stare: grazie Paolo perché mi aiuterà a star vicino ai miei figli se mai questa odiosa gramigna dovesse attecchire anche in loro.

    Rispetto a Gianni, se “l’unico tramite che ci unisce” nicchia forse l’unica cosa che farei è scovarlo e amorevolmente fronteggiarlo, o abbracciarlo, che è lo stesso. Magari non sarà facile, ma per tampinare la ragazza dei sogni lo facevamo, no? e quindi si può rifare per un amico. Magari non aspetta altro che qualcuno faccia saltare le sue difese. Io proverei.

    Vittorio

  4. paolopugni

    Ringrazio tutti e apprezzo innanzitutto la vostra pazienza, il tempo che dedicate non solo alla lettura, ma anche ad una riflessione su ciò che scrivo e che mi restituisce con molta più profondità e ricchezza il mio pensiero.
    Vi invio solo a prendere in considerazione una cosa: che questa è letteratura innanzitutto. Se Gianni esista o no, non datelo per scontato. Se tutto sia andato così o no, anche.
    Non scrivo qui per mettere i panni in mostra, ma per condividere pensieri ed esperienze.
    E questa è una forma letteraria non una (auto)biografia dettagliata.
    Molto di ciò che c’è scritto qui è vero: è andata così. Ma non è detto che lo sia tutto, che Gianni si chiami Gianni o Sergio si chiami Sergio e così via.
    Non credo peraltro che allora si debba chiamare menzogna, ma appunto racconto, letteratura.
    E al contempo credo che anche Costanza usi questo strumento letterario nello scrivere i suoi post e i suoi libri: si osserva la realtà, la si elabora, la si restituisce dopo opportuna riflessione sotto forma di racconto.
    La vita vera è quella che appare nei commenti.

    1. Giusi

      Grazie per questa precisazione che rende condivisibile l’argomento. Stavo appunto per mettermi nei panni di Gianni e pensavo che la cosa che più mi avrebbe dato fastidio è la lettera scritta in un blog. Sarebbe come se un innamorato andasse a Stranamore o a C’è posta per te: lo strozzerei!

  5. Carlo

    Chissà quanti buoni samaritani mi hanno soccorso nei momenti cruciali della mia vita ed io non li ho riconosciuti oppure li ho dimenticati. Spero che siano stati ampiamente ricompensati e che lo siano, poi, per l’eternità.
    Sarebbe bello essere illuminati a ricordarli, magari incontrarli ; che l’affetto e la riconoscenza scacciassero per sempre quel vittimismo e quelle recriminazioni che rischiano di farmi portatore dei mali eventualmente subiti.

  6. Non conosco il tuo amico nè la sua storia, penso però che nella vita si cambi anche radicalmente e che i ruoli non siano altro che maschere dell’io..
    auguro al tuo amico ogni bene nella sua nuova vita da “uomo libero”, libero dalle pressioni di chi crede di sapere tutto di lui ,di conoscerlo profondamente; libero da chi crede che coerenza sia sempre saggezza, mentre spesso è solo la volontà ostinata di far sopravvivere un morto! Che ridicola illusione !…

    Forse ha trovato la sua strada oltre ogni condizionamento morale e finzione sociale: finalmente!!

  7. paolopugni

    ogni scritto dal momento che abbandona la penna di chi l’ha composto vive di vita propria e ogni lettore ha il diritto di leggerlo ed interpretarlo a modo suo.
    Posso solo suggerire di guardare la luna e non il dito?
    Grazie

  8. vale

    non saprei…sull’interpretare a modo proprio ogni scritto.mi pare nu poco protestante….

    1. Giusi

      Vabbè ma non è la Bibbia. E’ chiaro che ognuno modella ciò che legge sulla sua esperienza. Anche i commenti alle opere d’arte non sono tutti uguali. L’interazione amplifica i significati anche al di là di quello che voleva dire l’autore.

  9. vale

    era una battuta….( tra l’altro stavo leggendo su unaltro sito, delle prediche inedite di San Bernardino da Siena e dell’uso dell’ironia e della comicità. al contrario del suo -forse meno famoso- “concorrente” domenicano Dominici che era tutto apocalittico e iper intellettuale…)

  10. giuly

    Non so se ho afferrato bene il post di Paolo, che è ricco di esperienza personale trasfigurata in letteratura, e che come ogni buon pezzo può avere per ciascuno di noi un aggancio con il nostro quotidiano…. (che c’è di protestante in questo? Calvino diceva che il classico è un testo che non ha mai finito di dire quel che ha da dire!).
    Se ho ben capito Paolo ci racconta di un amico che ha cambiato la sua vita, che ci ha messo dentro la famosa “D”, che a suo tempo lo ha tolto dalla fanghiglia melmosa che lo ancorava a terra e gli ha fatto assaporare con quell’amicizia il gusto di una vita nuova. Io almeno la leggo così…. e sì, perchè anche per me è stato un po’ così: anche io da adolescente tiravo avanti la carretta della mia piccola vita abbeverandomi a fonti di sapere piuttosto parziali. Eppure cercavo l’acqua pura. Poi sono arrivati amici che mi han detto “vieni a vedere qualcosa di diverso…”. Con alcuni di quegli amici si è stabilito un legame che dura ancora oggi, solido, magari non assiduo come prima perchè ognuno si è fatto la sua famiglia e vive in città diverse, ma se penso a compagni di cammino quelli compaiono ancora nell’elenco. E poi ci sono un paio di quegli amici che non solo condividevano con me un cammino ma anche intere giornate, lo studio, le risate, i brutti voti e quelli belli, qualche sigaretta, le lacrime, le vie crucis, gli entusiasmi. La prima ad allontanarsi, per un periodo, fui proprio io. Come il Gianni del racconto mi sono imborghesita, imborsita, indifferente a tutti. Riacciuffata per i capelli non so bene nanche io da chi o cosa (forse dal fatto stesso che non mi sono, grazie a Dio, mai indurita al punto di non ritorno), mi è capitato di incontrare di nuovo quelle 2-3 persone che pure erano state tanto significative per me, e ho pensato la stessa cosa “non mi piacete per niente come siete cambiati!”. Ma la libertà dell’uomo, di dove dirige i suoi passi, è un grande mistero, che nè io nè tu possiamo cambiare. Certo la cosa non ci impedisce di soffrire per loro, di chiederci “che è successo? perchè? che responsabilità ho io?”.
    Riporto qui la frase scritta molti anni fa da don Giussani su un tradizionale volantone di Pasqua, che secondo me dice bene questa dinamica:

    “L’influsso su di te di questa compagnia data è quello di richiamarti alla “ragione”. Sei nella tempesta, irrompono le onde, ma vicino hai una voce che ti ricorda la ragione, che ti richiama a non lasciarti portar via dalle ondate, a non cedere. La compagnia ti dice: “Guarda che dopo splende il sole; sei dentro l’onda, ma poi sbuchi fuori e c’è il sole”. Soprattutto ti dice: “Guarda”. Perché in ogni compagnia vocazionale ci sono sempre persone, o momenti di persone, da guardare. Nella compagnia, la cosa più importante è guardare le persone». Perciò la compagnia è una grande sorgente di amicizia. L’amicizia è definita dal suo scopo: l’aiuto a camminare verso il Destino.”

  11. paolopugni

    Chiarisco a beneficio di tutti alcune cose:
    a) tutti gli episodi che mi riguardano sono veri, non è detto che l’interlocutore fosse sempre la medesima persona
    b) è vero che esiste un amico carissimo, chiamiamolo Ismaele, che mi ha dato molto -in termini di fede- nell’adolescenza e che adesso è sparito, non vuole farsi trovare, non so perché, e questo mi addolora
    c) quello che volevo mettere in evidenza sono le seguenti cose, non tanto perché (auto)biografiche ma perché universali
    1) l’egoismo di pretendersi esclusi
    2) la necessità di ascoltare
    3) l’importanza di attimi che dobbiamo cogliere, perché ce ne sono tanti nella nostra vita, ce li offre di continuo il Signore
    4) l’importanza di essere riconoscenti e di restitutire i beni ricevuti: se “gianni” si fosse imborghesito tocca a me adesso risvegliarlo come fece lui una volta
    5) il rischio che ognuno di noi corre di cedere al tempo
    6) la poesia di chi sotto la pioggia ti parla di Dio

    Questo è la luna
    Il resto è dito

    1. 61Angeloextralarge

      Paolo: grazie per la precisazione… talmente presa dalla lettura… non me ne ero proprio resa conto. Comunque lo spunto dalle cose vissute e poi trasformate-adattate in letteratura è positivo perché aiuta anche a rispecchiarsi un po’ nella realtà quotidiana che si vive e a confrontarsi.

    2. Gianni

      Caro Paolo,
      io mi ricordo bene tutto quanto, e lo tengo nel cuore. E mi ricordo non solo di quando eravamo tredicenni, ma anche degli anni successivi, quelli che ci hanno portati insieme ben oltre i vent’anni.
      Fino a che tu (“tu timido, tu intimidito, tu timoroso, tu sensibile, tu crudele, tu tradito”. Sempre tu.) non hai pensato che non avevi più bisogno di me. E mi hai tagliato fuori dalla tua vita.
      Io, che non ero e non sono John Wayne, ho sofferto. Ma ho voltato pagina ed ho proseguito il mio cammino portando con me la mia ferita (non l’unica, non l’ultima, come tutti del resto).
      Da allora sono passati trent’anni durante i quali, ripensando alla nostra amicizia perduta, sono passato prima dal dolore alla rabbia, ed infine dalla delusione alla comprensione. Ora, dopo così tanto tempo, no che non ti odio: provo un grande affetto per un passato che però è ormai troppo lontano per avere un posto nel presente. Non per indifferenza, ma perché nel mezzo è passata una vita e tu ora per me sei uno sconosciuto come tanti altri. E lo stesso sono io per te.
      Non ti piace come sono cambiato? Non sai e non puoi sapere come lo sono. E neppure se mi si è spento lo sguardo o se ho posato la chitarra (per la cronaca, nessuna delle due). Perché ti senti in diritto di schiaffeggiarmi, di dirmi che mi devo svegliare, che devo giustificare il mio comportamento? Perché perdere te deve per forza aver significato perdere anche me stesso?
      Ma queste cose le sai meglio di me, Paolo, il senso della tua lettera è un altro: mi provochi e mi sfidi perché non puoi rispettare il mio silenzio, ed oggi come allora vuoi decidere tu.
      Io, solo per questa volta, voglio cascare nel tranello, e ti rispondo che le persone non sono cose, non si possono accantonare e riprendere a piacimento.
      Veramente senza rancore, ma come vedi ancora oggi non amo il grigio.
      Gianni

      1. Non entro nel merito di una risposta sin troppo personale, che al di là di “esercizi letterari” – vero, quasi vero, simbolo del vero – mi piace pensare genuina fondata per l’uno e l’altro (Paolo e Gianni) su realtà vissute e riconosciute.

        Da spettatore quindi, apprezzo questa risposta sincera che seppure sottolinea una distanza e quanto meno un rammarico, riapre (spero) un dialogo dimenticato.

        A volte nel mezzo passa una vita e ci si ritrova sconosciuti come tanti altri, a volte passa una vita e ci si ritrova ancora “conosciuti” in quel che si è condiviso e nella meraviglia di come la vita ci ha cambiati.
        Questo auguro ai due amici che le umane circostanze han diviso.

      2. Carissimo, è una sopresa che mi lascia senza parole. E per tanti motivi.
        Il primo è che non ci si rende conto mai dei male che si fa e che ci segue come un mastino.
        E quindi nelle prime tre righe ti devo sicuramente porgere delle scuse per tutto il dolore che ti ho provocato.
        E il fatto che non me ne sia reso conto non è un alibi o una attenuante, ma semmai il contrario.
        Il secondo è che non trovando corretto usare un blog di questo livello per questioni personali, ho sì preso spunto dalla vita (per tutta la prima parte) mentre per la seconda ho lavorato di letteratura, per dare anche un argomento di discussione.
        Perché vedi, hai ragione, non posso in nessun modo permettermi di giudicare ciò che sei ora e neanche di ipotizzarlo: questa era la parte letteraria, a tema, moraleggiante se vuoi, ma assolutamente non intesa come una sfida o come una accusa. Se puoi crederlo mi fa piacere.
        Capisco tutto il resto, capisco che si diventa estranei, capisco che le strade portano lontano,
        Capisco e non posso giudicare.
        Dico solo, ma a me e come consolazione, che le amicizie vere, e quella che tu mi portavi lo era, spero anche il reciproco, sono come la bicicletta: anche dopo tanti anni che non la usi ci sai sempre andare.
        E che la vita è fatta per separare e restituire, perché è come un fiume carsico, che nasconde e rivela come vuole.
        Ecco, ma adesso almeno so il perché e se questo non mi consola, almeno mi dà una ragione. Una causa.
        Apprezzo che tu non mi porti rancore e sono felice che tu come allora non ami il grigio.
        E rispetterò la tua decisione -non che prima non potessi si intende, solo non capivo- qualunque essa sia.
        Ti confermo che se anche ci siamo persi di vista, non è cambiata la stima anzi l’affetto che avevo per te. E la riconoscenza.
        E grazie di avermi risposto, non sai il regalo che mi hai fatto.
        Se puoi accettare le mie scuse, altrimenti prega perché almeno le accetti quel Dio che mi hai aiutato a scoprire, che mi hai regalato.
        E buon anno.
        Di cuore.

  12. “l’egoismo di pretendersi esclusi”
    un povero, ad esempio, che si sentisse escluso, sarebbe automaticamente uno che “pretende”
    non si può essere esclusi di fatto, da diverse situazioni, per ragioni oggettive?
    o forse te intendi con “escluso” qualcosa di particolare?
    potresti anche essere te egoista a pretenderti escluso, in quanto credente, dai problemi dei non credenti, forse.
    .

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