di Cyrano
«Amo il presepe, questa gaudiosa rivincita del cuore sulla specularità del pensiero.
Perché, se sui crinali scoscesi della rivelazione la teologia si inerpica temerariamente, il presepe, quello popolare dell’800, non è da meno.
Anzi, la scavalca in arditezza: col bilico dei Suoi ponti, col paradosso delle Sue montagne, con l’anacronismo delle Sue città, con la trasognata semplicità dei Suoi personaggi.
Per questo amo il presepe.
Ma lo amo, soprattutto, perché mi suggerisce un’arditezza ancora più grande: che Lui, il Signore, è disposto a ricollocare la Sua culla, ancora oggi, tra le pietraie della mia anima inquieta»
Così don Tonino Bello, il poetico vescovo francescano cui tanta gratitudine la Puglia e l’Italia devono: per la limpida testimonianza che questo discepolo di Gesù Cristo ha dato nello stile di vita sobrio, nella parola delicata, curata e ben pensata, nell’appassionata e religiosa prossimità ai piccoli, ai poveri.
Don Tonino non se la prenderà, però, se mi prendo la libertà proseguire il suo panegirico del presepe in un altro verso: una zuppa, in fin dei conti, non si rovina se tutt’a un tratto ti metti a girarla nel verso opposto, e se la teologia è spesso delicata come una maionese, il buon Dio è anche resistente come una polenta.
Il grande merito che si deve riconoscere all’invenzione del presepe (che non nasce dal nulla, ma dà linfa veramente nuova al concetto e alla prassi medievale della “sacra rappresentazione”) è la dichiarazione plastica, semplice, immediata e autoevidente, di ciò che Kierkegaard chiamerà “la contemporaneità di Cristo”. È evidente che, anche per via del suo non essere cattolico, il nostro tormentatissimo Danese non si vide illustrare la radiosa letizia del Poverello di Assisi, ma la sua espressione riusciva a riguadagnare per “la specularità del pensiero” ciò che a Greccio fu percettibile come l’aria fresca della sera: d’altronde, l’area tedesca s’era così dissipata sul Vangelo come predicazione, nel secolo precedente, che a un tratto s’era percepito un grande e terribile fossato, tra Gesù e il mondo.
Questo è il fossato che il presepe colma d’incanto, come se nell’aria ferma della notte qualcosa si muovesse appena e poi in subitaneo silenzio si materializzasse un gigantesco scintillante ponte tra una sponda e l’altra. Ecco l’intuizione geniale del presepe, sempre più sviluppata nello srotolarsi della modernità: che scandalo c’è, in fondo, ad avere in un presepe la Brambilla in autoreggenti, se non è stato scandaloso averci la lavandaia che lava, il menestrello che fa serenate e talvolta persino la nutrice che allatta? Non è questione di qualità delle azioni svolte dai personaggi, il fatto è un altro: il meccanismo innescato da Francesco ha pagato un prezzo molto alto per la costruzione di quel ponte incantato, e questo prezzo è il frutto più proprio della modernità (e del cristianesimo), ovvero la secolarizzazione.
Lo so, la parola è antipatica, perché siamo abituati a sentircela spiegare male e, come se non bastasse, la comprendiamo anche peggio di come viene spiegata; la portata teologica della secolarizzazione, invece, è meravigliosa. Per evitare più equivoci del necessario, basta premettere che chi si lascia coinvolgere nell’incanto del presepe lo capisce subito, che quel ponte scintillante che rende la storia di Cristo compresente a ogni epoca è lo Spirito: detto questo, mano a mano che la secolarizzazione avanza, il presepe mostra sempre più apertamente il dramma del Dio-bambino, che «scende dalle stelle […] e viene in una grotta al freddo e al gelo».
Quanta strada, dal primo presepe a noi pervenuto (quello di Arnolfo), quanta dispersione santamente introdotta nella costruzione della scena! Le autoreggenti della Brambilla sono solo l’ultima conseguenza della rivoluzione di Francesco: insomma, se attorno alla stalla c’è posto non solo per gli angeli, per i pastori e per i Magi, ma pure per i popolani di Greccio, vuol dire che sostanzialmente c’è posto anche per chiunque altro. Qui voleva arrivare Francesco, ma chi ha potuto più arrestare questo processo di rivelazione, così simile a una slavina teologica? E così il presepe si popola sempre di più, di anno in anno e di secolo in secolo: i vecchi, i bambini, gli operai e i pescatori, i soldati, i sacerdoti, i profeti, le prostitute, i poveri e i ricchi… tutti si ritaglieranno, mano a mano, il loro posticino. Con la popolazione aumentano “necessariamente” la distrazione e la dispersione: il povero Arnolfo ideò un presepe con il solo Bambino al centro della composizione, ma chi si sognerebbe oggi di dire a un amico di aver fatto “un bel presepe”, se non potesse vantare almeno un paio di ruscelletti, altrettante fontanelle (sennò le pecore che bevono, per un mese?), un’officina metallurgica e un paiolo per il bucato (dotati entrambi di vero-finto-fuoco!)?
Bello il presepe, sempre più bello perché sempre più mondano, sempre più divinamente a rischio, sempre più dannatamente credibile: «Chi sopporterà il giorno della sua venuta?» Malachia parla di quello che noi celebriamo nel presepe, oltre che dell’ultimo Avvento del Messia. E prosegue: «Chi resisterà al suo apparire? Egli è come il fuoco del fonditore e come la lisciva dei lavandai» (3,2). Se il Profeta non sta scherzando (cosa che tenderei a escludere), allora anche del presepe parlava Paolo, scrivendo che «Dio ha scelto ciò che nel mondo è stolto per confondere i sapienti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole per confondere i forti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è ignobile e disprezzato e ciò che è nulla per ridurre a nulla le cose che sono, perché nessun uomo possa gloriarsi davanti a Dio» (1Cor 1,27-29). Ecco il punto: se quel Dio nato nella stoltezza e nella debolezza, nell’ignominia e nella nullità, proprio quello è «il Salvatore nato per tutto il popolo» (cf. Lc 2,10-11)… beh, allora ogni personaggio del presepe rischia grosso. O perché mai il vecchio Simeone avrebbe detto: «Egli è qui per la rovina e la risurrezione di molti in Israele» (2,34)?
Scherzava anche lui? Era in preda a ordinaria demenza senile? O stava semplicemente ricordando che – per chi non se ne fosse accorto – le acque rottesi nel parto verginale di Maria sono davvero più corrosive e ustionanti della lisciva, e che il loro scorrere, atteso e imprevisto, era perentorio e irrimediabile come la voce che uno s’immagini di sentire dall’Altissimo?
«E chi sopporterà il giorno della sua venuta?»: non certo Erode, che pure è un personaggio presente nei migliori presepi napoletani. Dove sta? Beh, quando c’è, di norma sta sulla terrazza del suo palazzo, lontano, e sorseggia “’na tazzunell’ ‘e cafè” mentre i suoi soldati già marciano verso Betlemme («…segno di contraddizione – continuava Simeone – perché siano svelati i pensieri di molti cuori»). Non solo adoratori, nel presepe moderno: sempre più vero, sempre più simile alle prove generali del giudizio universale… Bellissimo e terribile, il presepe, icona della vita in quanto il suo senso giace trascuratamente abbandonato sotto spoglie volgari, e tutt’intorno vorticano poteri, passioni, desideri e amori che sembrano essere i veri attori della scena.
Questa è davvero una cosa incantevole del presepe: per quanto siano animati, non riesce mai di cogliere un’espressione di vera cattiveria o di tristezza, eppure è chiaro che sono sempre meno i personaggi che possono risultare direttamente a contatto con la mangiatoia. Terribile parabola della religione contemporanea: a quest’oste sembra interessare molto più dei soldi degli avventori che del «Salvatore che è nato per tutto il popolo», eppure non ha la faccia di una cattiva persona; anche l’ubriacone riverso sul tavolo davanti a lui ha un’espressione francamente soddisfatta e serena, ma non credo che stia vagheggiando in sogno la mangiatoia del Dio-bambino. Che ne sarà, di questi? Meritano davvero il fuoco eterno perché non sono accorsi fuori dal paese dietro a quei pastori puzzolenti? E guardate questa giovane popolana, che torna dal forno verso casa con le pagnotte calde in braccio: sembra quasi sfiorare con lo sguardo i fianchi del giovane pescatore intento a rassettare le reti… sono questi che devono essere confusi e ustionati con la divina lisciva prorotta dal grembo della Vergine?
E chi lo sa? Ecco l’umile e tremendo spazio di Dio: il silenzio dopo la domanda. Neanche quelli che si sono avvicinati alla mangiatoia, del resto, possono rassicurarsi definitivamente circa quanto per loro sarà l’esito di quella notte pl-acida. Sulla capannella, l’angelo inneggia alla Gloria di Dio, e lascia la pace terrestre sospesa a quella difficile variabile della “buona volontà” (che non si capisce di chi debba essere); per conto suo, nella mangiatoia, il Bambino sorride come chi sa già di avere tutto il mondo in pugno, e non sembra preoccuparsi molto del fatto che al momento la maggior parte dei personaggi lo stia beatamente ignorando.
Vicinissimi a lui, però, stanno pazientemente i due personaggi più importanti (dopo Maria e Giuseppe), i veri custodi dello spirito della Chiesa, ossia l’asino e il bue. Certo, quanti fossero abituati a pensarli come i termosifoni della mangiatoia non si saranno mai stupiti di trovarli lì; chi però sa perché la tradizione cristiana abbia trovato indispensabile il dettaglio apocrifo riportato da Giacomo, beh, quello non sa smettere di stupirsi che i due magnifici animali siano lì, in vista di quelli che vanno a prostrarsi al Salvatore riconoscendosi come suo popolo, e non al ruscello, vicino al pescatore, o dietro alla locanda, in vista dell’oste.
In realtà, nessuno di quelli che piega il ginocchio davanti al Dio-bambino può fare più che adorare in silenzio e gratitudine, senza munirsi d’altro che di quella “gaudiosa rivincita del cuore”, perché sta scritto:
«Il bue conosce il proprietario
e l’asino la greppia del padrone,
ma Israele non conosce
e il mio popolo non comprende»
Con questa poesia di Trilussa auguro a tutti Buon Natale!
ER PRESEPIO
Ve ringrazio de core, brava gente,
pé sti presepi che me preparate,
ma che li fate a fa ? Si poi vodiate,
si de stamore non capite gnente
Pé stamore sò nato e ce sò morto,
da secoli lo spargo dalla croce,
ma la parola mia pare na voce
sperduta ner deserto,senza ascolto.
La gente fa er presepe e nun me sente;
cerca sempre de fallo più sfarzoso ,
però cià er core freddo e indifferente
e nun capisce che senza lamore
è cianfrusaja che nun cià valore.
Quale stupendo componimento questo brano di Cyrano. Sembra una sonata do Beethoven. Grazie. Mi colloco all” interno di un’ osteria per uscire di tanto in tanto a rendere gloria a Dio per aver amato me e tutti, per avermi dato una famiglia da amare e da cui essere amato, ma soprattutto per avermi reso degno di vivere e beneficiare un giorno della sua bontà e misericordia. Gloria a Dio nell’alto dei cieli.
La misericordia di Dio è talmente grande che Gli scappa via da tutte le parti e ci investe quando meno ce la aspettiamo. Il presepe non è solo una epifania della nascita di Gesù, io lo sento come una presentazione della nostra quotidianità, con la speranza che Lui la trasformi nel coro degli angeli che cantano la Sua pace. Gesù è venuto nella nostra vita, che è proprio come la rendiamo presente nel presepe. C’è qualcosa che non sia la meraviglia dell’Amore misericordioso del nostro Dio per tutti e per ciascuno di noi, chiunque siamo e comunque ci trovi? Il fatto che spesso non ce ne rendiamo conto non fa meno meravigliosa la Sua presenza in ciascuno di noi. C’è da esserne grati in continuazione.