Quando Messori intervistò Eco: «Dio? È un filosofo non un ingegnere

Vittorio Messori intervistò Umberto Eco nel 1982 per le pagine del mensile Jesus. Con il grande studioso, che da giovane, fu dirigente nazionale di Azione Cattolica, parla del successo de Il nome della Rosa il celebre romanzo “teologico”: ogni verità si confonde con il suo opposto, la virtù equivale al vizio, Dio si dissolve nel Caos.

Umberto Eco nella sua abitazione (1982) in una foto scattata in occasione dell’intervista di Vittorio Messori

Spulcio dal taccuino fitto di note dopo qualche ora di colloquio: «Non credo più in Dio, ma forse Dio crede ancora in me. Dunque, manteniamo un certo rapporto». «Se trovi qualcuno che ama troppo gli altri, sappi che con ogni probabilità è un ateo». «Dio è laureato in filosofia più che in ingegneria». «La scommessa di Pascal va rovesciata: conviene scommettere sull’inesistenza, non sull’’esistenza di Dio».

«A proposito di Pascal, se abitasse sul mio pianerottolo ci saluteremmo ossequiosi ma ci frequenteremmo poco. Se ci fosse invece Tommaso d’Aquino, tutte le sere giocheremmo a briscola assieme ma finiremmo con l’andare per avvocati. E magari lui mi denuncerebbe alla Digos per cercare di incastrarmi». «Se fossi Dio e avessi un Figlio lo manderei a studiare all’università di Harvard e non a quella di Camerino». «Che la Chiesa sia cambiata me ne sono accorto quando i cappuccini di Alessandria mi hanno accolto in convento con mia moglie (donne in clausura!) e mi hanno chiesto che marca di whisky preferivo».

Anche questa volta, Umberto Eco non ha deluso il suo interlocutore: il “signore dei segni”, come lo chiamano, è il contrario del tetro, sussiegoso, spiritoso barone universitario standard.

Questo ex dirigente nazionale di Azione Cattolica, quest’uomo che sino all’università conobbe soltanto il chiuso cattolicesimo preconciliare (dove spesso, per usare una sua espressione, «la santità si accompagnava a una preoccupante mancanza di ormoni»), questo devoto da comunione quotidiana, che scelse san Tommaso per la sua tesi pensando alla fede da difendere e non a una cattedra da conquistare, da ormai un quarto di secolo sembra programmato e aggiornato continuamente da un computer secondo il modulo del perfetto collaboratore de L’Espresso. O, se volete, de L’Express, di Esquire, del New Yorker. O, magari, del nuovissimo FMR, il mensile di Franco Maria Ricci.

Intelligentissimo, coltissimo, furbissimo (nel senso ammirato del termine) sa a perfezione che l’eroe intellettuale radical dell’Occidente postindustriale deve occuparsi con estrema serietà del “frivolo”, dell’”effi-mero”. Dunque, ricco apparato critico e filologico applicato a fumetti, disco-music, juke-box, discipline universitarie un po’ stravaganti, mode culturali “emergenti” e comunque “nuove”. Il criterio di scelta deve infatti ispirarsi alle leggi della “crono latria”, come l’ultimo, un po’ incattivito Maritain chiamava il culto del “giovane”, del “nuovo”, dell’inedito. In tutto poi, la sterminata erudizione deve mascherarsi dietro una verve un po’ distratta, ironica: il vecchio surtout pas trop de zèle ammonisca e guidi, sì che il tono della commedia non scivoli mai nel dramma sempre inelegante. Magari nel dramma per eccellenza: il prendere troppo sul serio se stessi, il proprio mistero, le domande ultime, quelle che affiorano dentro nel buio solitario della notte, quando il cicaleccio del seminar, del dibattito è sospeso sino al mattino

 

Se poi quelle domande continuano a inquietare – se, come è il caso di Eco, si ha ben altra sensibilità, ben altro spessore umano di un Moravia, altro eroe di questa cultura ma afflitto da lugubre superficialità, occupato solo dalla sua senile monomania erotica – allora le si esorcizzi montando una gran macchina di parole per dire che quelle domande sono insignificanti, anzi, che forse non esistono proprio. Il che è avvenuto con II nome della rosa. Che è libro mirabile nel senso etimologico della parola. Consumatore smodato, quasi maniacale, quale sono, di libri e giornali, quello è il chilo di carta che salverei assieme a pochi altri, estraendolo dal container di roba stampata subita in questi ultimi tempi. Libro tanto più “velenoso” (sarà lo stesso autore a suggerirmi l’aggettivo) quanto più abile, colto, bello. Romanzo che rinnova il programma che fu già di Sartre («Di ciò di cui non si può teorizzare, si deve narrare»), ma con diversa levità divertita della saggistica travestita da narrativa de La nausea o de II muro o de II diavolo e il buon Dio. L’eccellente riuscita de II nome della rosa è proprio nella felicità narrativa che permette anche alle casalinghe di arrivare alla fine divertendosi, appassionandosi alla trama, assorbendone gli umori maliziosi senza neppure accorgersene. In questo senso, perfetto strumento di “cultura di massa”.

La reazione dei critici “cattolici” ha stupito lo stesso Eco. «Se fossi ancora credente, sarei stato ben più severo, ben più intollerante», mi dice l’autore nella sua casa milanese di via Melzi d’Eril, sulla cui facciata campeggia una scritta, un reperto bellico (U.S., Uscita di Sicurezza, del rifugio antiaereo si intende) che richiama curiosamente il titolo famoso di Ignazio Silone. La delusione di Eco è giustificata: è successo infatti che quei cattolici che scambiano il dialogo con le dimissioni (o che forse non hanno sufficiente acribia o non vogliono crearsi nemici tra la cultura “che conta”) hanno osannato II nome della rosa; come è giusto vista la bravura dell’autore. Ma nel contempo non hanno spiegato al lettore disarmato che quelle pagine erano un’intenzionale – ed efficacissima – mina vagante lanciata dal semiologo-scrittore sulla strada, oggi già così impervia, del continuare a credere.

Per fortuna – anche a conforto di Eco, scontento per la polemica mancata – non tutti dormono anche nella vecchia Compagnia di Gesù. Ecco allora la Civiltà Cattolica uscire con una grossa bacchetta e picchiare a dovere sulle nocche dello scrittore. Già il titolo dell’articolo è esplicito: L’allegro nominalismo nichilistico di Umberto Eco. Le cinque, fitte pagine di padre Guido Sommavilla s.j. finiscono senza troppi complimenti: «…un altro lampante falso storico, tra i tanti di questo libro: tutto costruito a specchi deformanti in serie sistematica e tattica strisciante, a discredito e derisione (anche se fa poi ridere così poco) di tutti i valori della Chiesa, della religione, dell’etica, della civiltà e della vita». Un finale forse un po’ scomposto – almeno per i gusti di Eco e miei – ma al quale il padre giunge dopo un circostanziato j’accuse così riassumibile, alla buona: lo sforzo del libro sarebbe tutto teso a dimostrarci che non c’è nulla di vero né di serio, tranne la sua (di Eco) personale verità e la sua ironia; egli (Eco) vorrebbe convincerci che non c’è alcuna differenza tra Cristo e Giuda, tra santo e delinquente, mancando ogni termine sicuro di confronto. Qui Pilato ancora una volta ghignerebbe il suo quid est veritas? Anzi, scrive padre Sommavilla ritorcendo il boomerang: «Ma se la verità è che tutto è da ridere, è da ridere anche la teoria che afferma che tutto è da ridere, tutta da ridere è dunque anche l’idea centrale di questo libro. È dunque ridicolo sostenere che tutto è ridicolo».

L’accusato – cui ricordo il cahier, – fa la sola cosa che gli è consentita: ride. «Ho l’impressione che il buon padre abbia visto giusto», mi dice, «ha ben individuato la boccetta di veleno del libro, anche se poi ha forse pestato un po’ troppo il pedale. Dimenticando oltretutto di dire che tutto ciò che io metto in bocca a fra Guglielmo, il mio protagonista, non è che un collage di citazioni da quel grande pensatore francescano che fu Occam; e che il mondo della spiritualità medievale, nel libro, è vissuto (mi pare) molto dal di dentro e senza riderci su». Spiega: «L’assoluta onnipotenza di Dio: ecco la tesi centrale de II nome della rosa. Qui è, paradossalmente, la radice dell’ateismo: un Dio che può giungere sino a violare il principio di non-contraddizione, a far sì che ciò che è avvenuto non sia mai avvenuto, finisce coll’esplodere nel Caos, nel panteismo; nel nichilismo appunto. A differenza di Tommaso d’Aquino, Occam toglie a Dio ogni limite: con questo si dissolve non solo la scolastica, ma la possibilità stessa di un Dio conoscibile, razionale».

Va bene, va bene: i soliti giochi verbali da filosofo, privi di alcuna verifica; chi ci assicura che l’ipotesi su Dio dell’Occam secondo Eco sia più reale di quella del Tommaso secondo i tomisti? Veniamo al concreto, piuttosto: la scommessa per Dio e contro Dio nasce dal vissuto esistenziale, mai da un teorico argomentare. Di recente, Eco ha parlato della sua «meditata apostasia». Gli va dato atto che, a differenza di tanti ex cattolici non ha lasciato la Chiesa per rifugiarsi nella sagrestia di un’altra chiesa, quella del “Partito” con la maiuscola, il comunista. È rimasto un “cane sciolto” (anche questa è una sua autodefinizione), seppure sempre dentro gli steccati del neoilluminismo. «Illuminista sì ma, prego, illuminista bizantino», mi ricorda, «il semplice illuminista è uno che crede impossibile trovare una spiegazione globale del mondo. L’illuminista bizantino sarebbe d’accordo, ma sospetta sempre che magari non è plausibile neppure quello scetticismo. Che anche quella rete, quel labirinto (non una piramide!) che è l’universo dei segni in cui siamo immersi abbia una nascosta spiegazione».

Ma non gli sembra ormai patetico l’illuminismo con il suo dogma di base, l’inesistenza del peccato? Oggi, poi; quando c’è chi comincia a dire che l’ipotesi cristiana del peccato (a partire da quello “originale”) è la sola verità scientificamente dimostrabile, visto come sta andando la storia di ciascuno e dell’umanità. «È vero», ammette, «siamo tutti sbagliati, ça ne colle pas come dice un mio amico psicanalista francese: ma non so rispetto a che cosa. E poi sono convinto che alla fine, e anche qui non so come, ce la caveremo». Il che, gli osservo, è la tesi cristiana: il mondo, nel suo complesso, è già salvato, può finire male (inferno?) la storia personale di qualcuno ma non la globalità della storia, che va verso il suo compimento.

«Se vuole», mi concede. «Ripeto: credo che ce la caveremo, ma non so come. Nel ritorno del Cristo, nella Parusia io non credo». Ecco saltare fuori il nome decisivo. Come si arriva a una “meditata apostasia”, per quali motivi uno che accettava il Cristo – e con tanto fervore come il giovane Eco – decide poi di ritirare la sua speranza? Qui, il filosofo, il semiologo, lo scrittore, si lancia in complesse dimostrazioni che – con ogni rispetto e ammirazione per le agudezas – non sfuggono al sospetto di essere state elaborate post factum, per razionalizzare un rifiuto che ha l’aria di venire (come ogni sentimento vero) più dal cuore che dalla ragione. Due in sostanza gli argomenti di Eco. Primo: scegliendo di far nascere suo Figlio, nel bacino mediterraneo durante la Pax Romana, Dio avrebbe fatto una precisa scelta “etnocentrica”, a favore di una razza, di un popolo, di una cultura; avrebbe cioè valutato «il modello culturale occidentale come il migliore possibile». Facile obiettare che, se l’Incarnazione aveva da essere, in qualche posto doveva pure realizzarsi. E che è difficile considerare “occidentale” la cultura di Israele: è piuttosto sotto il suo impatto tipicamente orientale che l’Occidente si trasforma sino a identificarsi con categorie che (seppure in varia maniera ellenizzate), in realtà vengono dall’Oriente. Volendo continuare su questa strada, poi, un’occhiata all’atlante ci mostrerebbe Israele come il posto-cerniera per eccellenza tra i tre continenti decisivi per la storia umana: Asia, Europa, Africa.

Passiamo all’argomento due che è il vecchio tema del ritardo della Redenzione. Perché, si chiede Eco, se il male del mondo è così grave, il Liberatore arriva dopo tanti millenni di storia? Se tante generazioni sono nate e morte senza redenzione, «non vuoi forse dire che il peccato agli occhi di Dio non è poi così grave, che Gesù è colui che doveva redimere dalla varicella?». Anche qui, non sarebbe difficile rinviare a quell’altro argomento cristiano della “pedagogia” divina. Per la fede, il Messia non è un agente dei Nocs o dei Gis, il paracadutista di un commando che fa una repentina apparizione: entrare nella storia significa rispettarne anche i ritmi, assumerne la lunga pazienza.

Ma è chiaro che su questa strada il dibattito sarebbe presto bloccato, con scambio fittamente elegante di reciproci sofismi. Professor Eco, «il cuore ha le sue ragioni che la ragione non conosce». Dove sono le radici vere della “apostasia”, meditata o no che sia? Questo filosofo (che per fortuna non è un ideologo) è pronto a concedermi che qualunque “prova o “ragionamento” serve solo a convincersi di ciò di cui si è già convinti. «Perdere la fede», dice, «è l’interruzione di un circuito elettrico. È vero: l’aspetto razionale non basta a spiegare la mia storia; ma non basta neppure quello biografico. Altri che hanno avuto le mie vicende, la fede l’hanno conservata». Scoprendosi – a tratti – nella sua umanità mi parla della «tragicità della scommessa sull’inesistenza di Dio». «Chi punta in questo modo deve produrre molto più amore del credente, per giustificare la sua vita e la sua morte». La morte, appunto; il suo dramma, lo scrittore lo vive nella carne, da quando suo padre morì inaspettatamente: «Sono passati tanti anni da allora, ma ci penso sempre. Io non cerco, freudianamente, di vendicarmi di mio padre, ma di vendicarlo».

Eco, dov’è suo padre, dove sono gli altri morti, dove saremo noi? Che c’è dietro quelle porte bronzee? «C’è il caos», dice con voce sicura, almeno in apparenza. «Oppure c’è il deserto piatto».

La morte, gli ricordo, è la scommessa per eccellenza, aperta nella sua logica a due esiti possibili. E se avessero ragione coloro che dicono che sarà Gesù, che sarà il carpentiere di Nazareth a venirci incontro? «Guardi», mi dice, «se per caso Cristo-giudice c’è davvero e vuole imbastirmi un processo gli dico più o meno le cose che sto dicendo a lei: ho ragionato così e così e sono arrivato alla conclusione che non eri tu ad aspettarci. Credo che in questo modo potremmo giungere a patti ragionevoli. Se invece ragionevole non è, se è il Dio crudele e vendicativo che magari ha già deciso in anticipo il mio destino, allora non voglio avere niente a che fare con lui. Mi mandi pure all’inferno, dove almeno c’è gente per bene. Ma se un Dio c’è, è il Dio di San Tommaso e con questo si può ragionare. Abbiamo studiato sugli stessi libri».

Ben trovato, ma non è forse un po’ troppo – come dire – antropomorfo per essere convincente del tutto? Non è un proiettare nei cieli il “Vostro onore” del processo da telefilm o il «non sono d’accordo con il compagno che ha parlato prima» del dibattito al comitato di quartiere? Pur messo a forza dentro categorie aristoteliche, il Dio di Tommaso non ha perso del tutto il ricordo del Dio di Paolo ai Corinti: «Sta scritto infatti: distruggerò la sapienza dei sapienti e annullerò l’intelligenza degli intelligenti. Dov’è il sapiente? Dov’è il dotto? Dove è mai il sottile ragionatore di questo mondo?».

Ma qui dobbiamo fermarci. Anche se — prima di congedarmi per andare a cena con il suo amico Luciano Berio, il musicista d’avanguardia – Eco ha trovato modo di dire tante altre cose, tutte interessanti, che spiace non potere trascrivere. Chissà, pensiamo infilandoci nell’ascensore, se il “bizantino” riuscirà un giorno a prevalere sull’illuminista? Su quella cultura dimezzata, cioè, che da due secoli ci soffoca dicendo che ci libera non riuscendo a vedere che «l’ultimo passo della ragione è riconoscere che c’è una infinità di cose che la superano».

                                                                                                                                               (Jesus, n. 4 – 1982)

 

29 pensieri su “Quando Messori intervistò Eco: «Dio? È un filosofo non un ingegnere

    1. admin @CostanzaMBlog

      Perché in questi giorni sta andando in onda la muova fiction de Il Nome della Rosa

      1. pietro

        @ Alèudin: Ha ragione, sono stato sibillino: nella mia mente è chiaro come Benedetto XVI abbia sempre superato l’artificiale contrapposizione fede-ragione. Tutti i discorsi, quindi anche quelli di Eco-Messori, che prescindono dalla fede (corollario: superbia della ragione illuministica) non “conoscono” Dio (Si comprehendis, non est Deus – Sant’Agostino, citato nella Deus Caritas Est).
        Purtroppo la Lectio Magistralis di Ratisbona venne oscurata dalle polemiche di matrice islamica (che, ovviamente, non potevano permettersi di capire il messaggio attualizzato di gran lunga più importante del mero esempio arcaico scelto con ingenua imprudenza): lì c’era la sintesi di ogni risposta ad ogni Nome della rosa (fra l’altro, l’incipit non riecheggia “quel ramo del lago di Como…”?).
        Più semplicemente (da “Pensieri spirituali- La risposta di Dio)” “Dio si nasconde nel mistero: pretendere di comprenderlo significherebbe volerlo circoscrivere nei nostri concetti e nel nostro sapere e così irrimediabilmente perderlo. Mediante la fede, invece, possiamo aprirci un varco attraverso i concetti, perfino quelli teologici, e possiamo “toccare” il Dio vivente …” (discorso al santuario di Jasna Gora, 26.V.2006). Altro che Eco …

  1. Alessandro

    E se Dio fosse un Artista, piuttosto che un filosofo o un ingegnere?
    Un filosofo direi proprio di no, non può cercare la saggezza colui che è la Saggezza; filosofi al più lo siamo noi quando quella Saggezza la perdiamo di vista, diventiamo consapevoli della perdita e questa situazione crea una tensione che è sostanzialmente spirituale piuttosto che intellettuale. La filosofia diventa intellettualismo quando va alla ricerca della Saggezza ma procede nella direzione sbagliata.
    Direi neppure un ingegnere, né tanto meno l’architetto che tanto piace ai massoni, i tecnici perseguono fini utilitaristici e mi risulta difficile pensare ad un Dio tecnocratico.
    Un Creatore di armonia e bellezza gratuite, riflesso di Sé, vera e pura Bellezza, forse è l’ipotesi più plausibile; sarei propenso a cercare Dio nella bellezza piuttosto che nell’utilità pratica o tra i sofismi della mente, seguendo questi ultimi, poi, è facilissimo perdersi.

  2. Domenico Carlucci

    Il nome della rosa fu scritto per gettare fango sulla Chiesa, sul monachesimo e sul Medioevo, periodo illuminato.. altro che ‘buio’. Si mettono in cattiva luce i benedettini, a favore dei francescani, anche oggi di moda perché ‘poveri’…. La povertà falsamente intesa oggi è entrata anche nella Chiesa. La cosa che più dispiace è la totale incapacità di tanti falsi cattolici a intravedere tutto ciò, leggendo il libro o guardando il film. Tanto ormai l’essere cristiani è, quasi sempre, solo un fatto sociale, psicologico, esistenziale. Della Fede, della sua difesa, della storia della Chiesa… neanche a parlarne.

    1. biancamaria guerrieri

      Il nome della rosa era non altro che un romanzo giallo ambientato in un monastero benedettino;avrebbe dovuto avere 20 lettori entusiasti; ma siccome Eco era un genio della comunicazione e di cultura eccelsa ne fece un vuoto strumento per propagare il vuoto: Io ero allora insegnante in una scuola superiore statale e il preside mandò tutta la scuola una mattina al cinema per vedere il film : Io dovetti accompagnare la mia classe di studenti ad assorbire tanta “spirituale” cultura e ne fu-i sinceramente moltoi rattristata.

    2. ROBERTO

      Sono con te.Basta fango contro la nostra santa madre Chiesa pura ed illibata.Altra cosa sono alcuni uomini di chiesa che l’hanno tradita,anzi alcuni non sono neppure cristiani

    1. pietro

      @ Fabrizio Giudici: perfetto! mi conforta scoprire in tarda età che la mia valutazione di Eco ricalca quella di ben più dotti lettori.

      1. “Dotto lettore” certamente non si riferisce a me 😉 immagino che sia riferito al blog che ho citato.

        Io il libro non l’ho mai letto e nel mio piccolo conforta pure me avere molte conferme indipendenti che ho fatto bene a non perderci tempo.

    2. Paolo Pagliaro

      Buongiorno Fabrizio,
      non sono d’accordo: il libro è molto ben scritto, e si legge con interesse. Potrà essere – anzi, lo è certamente – un libro con intenti anti-cristiani, ma non insegna a essere stupidi, tutt’altro.
      Vorrebbe, invece, insegnare a usare la ragione in modo distorto, come un gioco senza verità ultima, in cui ciascuno è libero di seguire il proprio corso; il fine è la mutevole e piacevole esplorazione del possibile, il “peccato” è intristire la vita con vincoli e censure.
      Il commento migliore è più lucido è stato quello del compianto padre gesuita Sommavilla (traduttore di von Balthasar), grande esperto di letteratura e mente finemente critica della cultura moderna – un gesuita nell’autentico spirito Ignaziano.
      Certo, non è un libro da raccomandare per il messaggio, ma per persone solide come lei è da leggere: per capire come i “grandi” della cultura illuministica diffondono la loro visione allegramente nichilista.

      1. un libro con intenti anti-cristiani, ma non insegna a essere stupidi, tutt’altro.

        Se insegna intenti anti-cristiani, insegna ad essere stupidi. Non ci sarebbe altro da dire. Se vogliamo usare un termine più preciso di quello usato da sircliges, insegna ad essere stolti. Gli stolti, nel linguaggio biblico, sono quelli che tecnicamente sarebbero intelligenti ma non comprendono l’essenza reale delle cose e, alla fine, usano la propria intelligenza per fare stupidaggini.

        Per quanto mi riguarda, non ho interesse a leggere libri del genere. Comprendo che uno che fa apologetica cristiana, sia un giornalista, uno scrittore, o un insegnante, potrebbe avere necessità di leggerli per contrastarli. Ma come semplice fedele, non avendo responsabilità esplicite nei confronti di nessuno, posso farne benissimo a meno.

        Mi vengono in mente un paio di santi che ammoniscono contro le letture pericolose, ma non trovando le fonti ora non posso citarli.

        Molto più banalmente, ragiono con il principio di economia: il mio tempo è limitato e ciò che dedico ad una cosa viene sottratto ad un’altra. E allora invece di dedicarlo a cose brutte da usare in negativo preferisco focalizzarmi su cose belle da usare così come sono.

        1. Luigi igiuL

          @Fabrizio,
          Teresa d’Avila narra nella sua “autobiografia” del periodo adolescenziale passato a leggere romanzi cavallereschi (ne ha scritto anche uno, andato perso). Lo faceva di nascosto da suo padre perché contrario, ma li prendeva da sua madre che, essendo molto malata, trovava un po’ di sollievo in quel genere di letture. Quando Teresa scrive quelle pagine, aveva già scalato le vette della santità e quindi non usa parole dolci in merito a quel periodo della sua vita a e quindi di quelle letture, mentre era ormai un’accanita sostenitrice delle buone letture, al punto da volere in tutti i suoi monasteri una biblioteca aggiornata. Era nella seconda metà del 1500 e una biblioteca a uso delle monache era una novità inaudita.
          È il primo esempio che mi è venuto in mente 🙂

  3. Eco aveva una libreria sconfinata ed è stato personaggio coltissimo, ma l’essere colti coincide anche con l’essere sapienti? Petrarca sosteneva che il filosofo deve avere amore per la sapienza e la verità, e che questa andasse ricercata in Cristo perché in Lui v’è la sapienza di Dio. Per Petrarca, non era dunque possibile essere veri filosofi senza amare Cristo. Ma certi “filosofi”
    con la ragione e la loro “filosofia”, abbassano Dio alla loro misura e pretendono di eliminarlo dalla coscienza umana, oppure, quando non lo fanno, pretendono di determinare le regole comportamentali dell’Onnipotente, (“Credo che in questo modo potremmo giungere a patti ragionevoli. Se invece ragionevole non è, se è il Dio crudele e vendicativo che magari ha già deciso in anticipo il mio destino, allora non voglio avere niente a che fare con lui. Mi mandi pure all’inferno…), quando Agostino disse che possiamo solo esclamare: “Signore abbi pietà di me” e null’altro.
    Messori chiosa l’intervista citando il celeberrimo motto di Pascal, che suona quasi come uno sberleffo al coltissimo professor eco; pure Gesù, apparendo a Tommaso, lo sbeffeggio’ a tal guisa: “tu hai creduto, perché hai veduto”, significando così che la ragione debba comprendere che la fede non si può né comprendere, né spiegare col raziocinio. La ragione, può stabilire che l’oggetto della fede trascende la ragione e non può dipendere da questa. L’avesse compreso Uberto Eco…

  4. Bastiano

    Il mio giudizio, molto personale e terra terra, nasce da un fatto (che magari non depone a favore della mia cultura e della mia intelligenza, ma così è): io in genere se comincio a leggere un libro lo leggo fino alla fine, anche se non mi soddisfa del tutto. “Il nome della rosa” credo sia l’unico libro che ho iniziato a leggere e che, annoiato e contrariato, dopo non molte pagine (non ricordo quante) ho chiuso, messo da parte e mai più aperto.

    1. Maria Teresa

      Dio non va discusso e quando lo si fa è la tentazione che parla. La filosofia nacque per dare risposte all’uomo che iniziava a studiare se stesso. Tutti i filosofi o quasi sono giunti alla considerazione di un Dio al di sopra di ogni cosa. Persino Platone vide nella bellezza creata un Bene Supremo che restituiva all’uomo certezze.
      La filosofia è nelle trame di tutta la storia del mondo. L’amore per il sapere a volte rende superbi ma l’uomo è imperfetto e la superbia può diventare così tanto spropositata, da restare chiusa in se stessa per moltiplicarsi all’infinito. Il nome della rosa è un capolavoro a cui i Cristiani devono avvicinarsi come ad un dono ricevuto e pronto da scartare. Fermi nel nostro bellissimo CREDO potremo così discernere cosa è da Dio e cosa no.

  5. Carla casabassa

    Oppure saltato tante e tante pagine noiose per vedere come va a finire,,,,e trovare che come giallo proprio non c’è

  6. Ciao Costanza, ho visto che i commenti al tuo articolo dell’8 marzo sono chiusi, ma vorrei ringraziarti per il tuo sostegno al XIII Congresso Mondiale delle Famiglie.
    Con stima,

    Mirko Ciminiello
    Capo segreteria del XIII WCF di Verona

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  8. Laura

    E infatti né filosofo né architetto,Deus Caritas est!! Anche Sant’Agostino riconobbe l’inutilità di vuoti ragionamenti per conoscere Dio:Tardi ti amai.!

  9. Jones

    Mi sono imbattuto in questo stralcio di intervista cercando scritti e riflessioni recenti di Messori. Un testo che colpisce per fluidità e leggerezza (da me apprezzate nello stile “messoriano”) ma anche per il contrappunto di idee tra intervistatore e intervistato. Non posso che aderire alla descrizione che Eco fa di un ipotetico incontro con la figura di Cristo: una Divinità ragionevole si suppone soppesi i percorsi che la ricerca intellettuale, ospirituale (per molti ma non per tutti), mistica (per pochissimi eletti) o infine esperienziale (questa sì appannaggio di tutti gli esseri umani) ha saputo produrre durante la vita. L’omaggio a Tommaso D’Aquino, che fornirebbe la guida per avvicinare la ragione a Dio, mi fa sorridere con simpatia e al contempo mi rimanda al grande sforzo che J. Ratzinger ha profuso nel tentare di tenere in dialogo la fede cristiana con il pensiero filosofico lato sensu greco. Peraltro, in tutto ciò, avverto che la mia prospettiva agnostica trova di che confrontarsi, utilmente e al contempo senza rinunciare in alcun modo
    all’autonomia.

  10. Jones

    Notevoli, dalla mia prospettiva, i cenni al peccato come “scientificamente” dimostrato: condivido la medesima percezione. La fallibilità, l’inclinazione umana alla violenza immotivata e moltissimi altri tratti dell’agire mostrano che le persone hanno una sorta di difetto di fondo. La spiegazione che la religione cristiana offre, poi, è di certo discutibile ma le riletture laiche del testo biblico (inteso qui: Genesi) non sono prive di spunti per integrare altre visioni antropologiche.

I commenti sono chiusi.