Dammi da bere – Ritiro di Quaresima 2024

Per entrare insieme in questa Settimana Santa, vi proponiamo questi esercizi che ci ha regalato don Paolo Prosperi.
Buona meditazione!

Dammi da bere – Ritiro di Quaresima 2024 – don Paolo Prosperi

“Così dice il Signore:

Ritornate a me con tutto il cuore,

con digiuni, pianti e lamenti;

laceratevi il cuore e non le vesti;

 ritornate al Signore vostro Dio,

perché Egli è misericordioso e pietoso, lento all’ira, di grande amore,

pronto a ravvedersi riguardo al male” (Gl 2, 12-13).

Non è certo un caso, se la prima grande parola che “fere l’orecchio”[1] di chi ogni anno partecipa alla messa del Mercoledì delle Ceneri (perlomeno nel Rito Romano), è questo ribattuto richiamo del profeta Gioele: “Ritornate a me con tutto il cuore (…), ritornate al Signore vostro Dio!”.

La Quaresima, lo ha richiamato Camu poco fa, è tempo di conversione. Ma che vuol dire conversione? Ebbene, uno dei significati del termine latino cum-versio è proprio ritorno. Convertirsi vuol dire ri-tornare, cioè invertire la rotta per ritornare al luogo che si è lasciato, alla dimora da cui ci si è allontanati.

Quale luogo? Quale dimora?

In senso ultimo, quella grande dimora, quella grande fortezza, come dicono i Salmi, che è il Signore stesso: “Il Signore è la mia rocca, la mia fortezza, la mia rupe (…), il mio alto rifugio” (Sal 18, 2).

Tutto qui? È in questo “tornare al Signore” tutto il contenuto della conversione?

Mi permetto di suggerire: sì e no. Sì e no, nel senso che essere nel peccato – ci insegnano tutti i grandi maestri della fede, don Giussani incluso – significa essersi distanziati non solo dal Signore, bensì anche da se stessi, dalla verità di sé. Sì e no, nel senso che essere nella menzogna, significa vivere dimentichi non solo “dell’ampiezza, della lunghezza, della profondità, dell’altezza dell’amore di Cristo, che sorpassa ogni conoscenza” – per citare le parole di San Paolo risuonate più volte nella lezione di padre Lepori (Cfr. Ef 3, 18)[2] –  bensì anche dell’ampiezza, della profondità, dell’altezza del proprio desiderio, della sete del proprio cuore.

Il ritorno cui la Quaresima ci invita, non è quindi solo ritorno a Dio. È anche ritorno a ed in noi stessi, nella verità autentica del nostro io, poiché in realtà l’una cosa “tira l’altra”. Solo il cervo arso dalla sete, corre all’impazzata all’acqua viva (cfr. Sal 41). Se non sentisse la sete, perché mai dovrebbe correre?  Così l’anima che non conosce se stessa – insegna san Bernardo –, cioè l’anima che vive dimentica del proprio stato di “siccità” interiore, non può conoscere veramente neanche Dio, poiché essa non sentirà in sè la fiamma di quel santo desiderio, che fa correre chi ne è arso al pozzo della Grazia.

Last but not least, a completare il quadro, un terzo e ultimo ritorno: il ritorno nella dimora della comunione fraterna, della fraternità. Il peccato, secondo tutti i grandi della tradizione, non ci distanzia e divide solo da Dio e da noi stessi, ma anche gli uni dagli altri. Mentre il frutto ed il segno inconfondibile del nostro ritorno a Dio, della presenza attiva, viva di Cristo in noi è il l’affiorare in noi della carità – è il sentire, il ricominciare a sentire l’altro come parte di noi, per quanto diverso da noi possa essere, per quanto profonde possano essere le ferite che si sono aperte nel rapporto tra noi.

Il segno più chiaro, la cartina al tornasole del crescere in me dell’esperienza di Cristo, dello scorrere in me dell’acqua viva del Suo Spirito – secondo quanto insegnano all’unanimità tutti i grandi maestri della tradizione – non è il benessere psicologico, il “sentirsi giustificati”; bensì è la carità, ossia il riflettersi nel mio sguardo su di te, dell’amore con cui mi riconosco amato.

Bene, in questa meditazione vorrei quindi riflettere con voi su questi tre “ritorni”, che mi pare trovino una non casuale corrispondenza proprio nelle tre grandi vie di penitenza che la Chiesa ci raccomanda di vivere in Quaresima.

Cos’è infatti il digiuno, se non un attivo lasciare che la fame e sete del nostro cuore tornino a manifestare la loro vera profondità e grandezza? E cos’è la preghiera se non un rivolgere lo sguardo del cuore – di questo cuore arroventato dalla ridestata coscienza della sua grande sete – al volto di quel Tu “misericordioso e pietoso” che Unico questa sete può lenire? E infine, che cos’è l’elemosina (pensiamo al posto della caritativa nella nostra vita) se non il gesto semplice ma grande, con cui ci educhiamo a sfondare la distanza che ci separa gli uni dagli altri, per tornare a riconoscere nell’altro un fratello, uno che ha nel cuore la nostra stessa sete?

 

  1. Ritornare nella verità di sé: il coraggio del silenzio.

Giustamente siamo soliti associare il digiuno all’astensione dal cibo. Astenersi da cibi e bevande è infatti il modo più concreto e semplice di fare memoria del fatto che c’è in noi una fame e una sete che nessun cibo, nessun bene finito può saziare.

Non è questa, tuttavia, l’unica forma di digiuno. Qui mi permetto di segnalarvene una che ritengo oggi più che mai urgente riscoprire, vivere e praticare: il silenzio.

Di fatto, il mezzo più potente con cui il potere oggi ci blandisce e aliena, cioè ci tiene lontani dalla verità di noi stessi, il mezzo con cui ci mantiene direi alla superficie di noi stessi, non son tanto “cibi e bevande”; quanto il frastuono di immagini, notizie, input d’ogni genere che attraverso nuove tecnologie e social media ci bombardano vorticosamente, invitandoci a trascorrere le nostre giornate – senza che nemmeno ce ne accorgiamo – a “surfare” sulla cresta di questo e quel video dai colori eccitanti, di questa e quella chat che ci aiuti a sentirci un po’ meno soli. Guai a lasciare dei momenti di vuoto, dei momenti in cui semplicemente tacere in silenzio. Stolti che siamo! Perché invece proprio il silenzio, è forse il più importante digiuno di cui abbiamo bisogno, per continuamente ritrovare il senso della “profondità, dell’ampiezza, e dell’altezza” (cfr. Ef 3, 18) del nostro cuore, del nostro desiderio, per tornare a sentire la “voce del silenzio”, per dirla con Mina, cioè la voce di quella solitudine profonda che giace al fondo del nostro essere, “croce e delizia al cor” (passando da Mina a Verdi): croce, perché questa voce mi fa sentire tutta la mia miseria, la mia pochezza, la pietosa pochezza; delizia, perché insieme alla percezione dolorosa del mio nulla, delle mie debolezze, delle mie ferite, nel silenzio affiora anche un altro suono: la voce della grandezza di questo mio cuore, della sterminata attesa che in questo mio cuore è intessuta: “Ci sono cose in un silenzio che non mi aspettavo mai”. Come è vero! Come ha ragione Mina! E quanto tempo perdiamo stupidamente nel non dar credito a questa semplice verità: “Ci sono cose in un silenzio che non mi aspettavo mai”.

 

C’è una grande figura femminile su cui non la liturgia della Quaresima ci invita a posare lo sguardo, che meglio d’ogni altra può aiutarci a capire tutto questo: è la donna samaritana, che Gesù incontra al pozzo di Sicàr, nel capitolo quarto del Vangelo di Giovanni. È un racconto a tutti voi noto e probabilmente caro, trattandosi di uno dei testi più sublimi di tutta la Scrittura. Tuttavia val la pena meditarlo insieme ancora una volta, tanto esso è ricco di inesauribili suggestioni.

In apparenza, Giovanni non ci dice alcunché sull’interiorità di questa donna, su quel che ella avesse nel cuore, mentre si avvicinava al pozzo di Giacobbe, forse con l’anfora sulla spalla, come le donne dell’epoca usavano fare (cfr. Gen 24, 11!). In realtà, quel sommo poeta che è Giovanni, attraverso il “quasi nulla” che dice, ci dice molto, anzi moltissimo:

“Vi era là un pozzo di Giacobbe. (…)

Era circa l’ora sesta (cioè mezzogiorno, nda).

Giunge una donna samaritana ad attingere acqua” (Gv 4, 6-7).

Innanzitutto, chi di voi è stato in Palestina – e soprattutto chi di voi è stato nella zona semi-desertica dove ancora si trova questo pozzo, sa che all’ora sesta (cioè a mezzogiorno) può fare un caldo davvero infernale. Viene così alla luce la prima misteriosa “sgrammaticatura”  (= dettaglio fuori posto)[3] del nostro testo : perché questa donna va ad attingere a un’ora simile?

Per rispondere bene a questa domanda, dobbiamo volgere l’attenzione all’Antico Testamento. C’è infatti nella Scrittura un altro passo in cui si parla dell’ora in cui le donne vanno al pozzo ad attingere: è quel capitolo 24 della Genesi, in cui si narra del viaggio del servo di Abramo nella città di Nacor, in cerca di una moglie da dare al giovane Isacco (Gen 24, 10). Giunto a Nacor, il servo decide di piazzarsi presso il pozzo fuori dalla città  “nell’ora della sera, quando le donne escono ad attingere”, (Gen 24, 11)[4], evidentemente al fine di incontrare qualche bella fanciulla nell’unico posto ove ciò era possibile (le donne dell’epoca, si sa, non avevano molta libertà di movimento!).

Cominciamo così ad intuire: se questa donna va al pozzo a mezzogiorno e non alla sera, è perché vuole andarci senza correre il pericolo di incrociare anima viva. E perché non vuole incrociare anima viva? Proprio il seguito del racconto di Genesi 24, con cui il racconto di Giovanni è in realtà segretamente in dialogo, ci dà la risposta.

Fermati i cammelli, il servo di Abramo invoca il Signore chiedendogli di fare in modo che la ragazza cui egli chiederà da bere e che gli risponderà: bevi! (ci ricorda qualcosa?!) – possa essere la fanciulla giusta per Isacco (Gen 24, 12-14)[5]. E infatti, di lì a poco, ecco che arriva Rebecca, figlia di Betuel[6], “molto bella” e vergine, “che nessun uomo aveva ancora conosciuto” (Gen 24, 16)[7]: insomma, la ragazza perfetta per Isacco!

Iniziamo così a capire: anche Gesù, secoli e secoli dopo il servo di Abramo, si trova a chiedere da bere ad una donna, seduto su un pozzo in terra (semi) straniera. Ma la donna che si trova di fronte è ben diversa da Rebecca. Non solo non è vergine. Come presto verremo a sapere, ella “ha avuto cinque mariti e l’uomo con cui sta ora non è nemmeno suo marito”, il che la rende una disonorata non solo agli occhi dei giudei, ma anche a quelli dei suoi stessi compaesani (il numero massimo di mariti che era consentito avere, anche tra i Samaritani, era tre).

Ecco dunque spiegato l’arcano: la donna va ad attingere a mezzogiorno perché è e si sente una reietta. La calura soffocante dell’ora a cui va al pozzo, diviene così il simbolo, sottile e struggente, della tragica spirale in cui la sua stessa “sete” l’ha trascinata. Tutti i suoi tentativi di riempire il vuoto del suo cuore, non solo non hanno ottenuto gran che. L’hanno precipitata in uno stato di siccità e di solitudine sempre più penoso.

 

  1. “Ritornate a Me”: guardare in faccia a Cristo.

Forse è proprio a questo che sta pensando, mentre s’avvicina come ogni giorno al pozzo. Se non che, qualcosa d’improvviso la strappa ai suoi malinconici pensieri: al pozzo c’è qualcuno. Seduto sul parapetto, c’è un uomo che guarda giù, come assorto, nel profondo del pozzo.

Non appena la donna si avvicina, lo sconosciuto solleva la testa e la guarda dritto negli occhi. Sembra sfinito, come da un lungo cammino; e assetato, tremendamente assetato – a giudicare dalle labbra gonfie e screpolate. Chissà da quanto è lì seduto che aspetta qualcuno che gli dia da bere. Possibile che nessuno gli abbia detto che la città non dista che un miglio? Un sussulto, come di umana compassione, la afferra. Ma no, non si tratta appena compassione. C’è dell’altro. Nonostante l’aspetto trasandato, nonostante la polvere che ne copre la barba ed il volto, c’è nello sguardo di questo straniero qualcosa che le penetra dentro, nel fondo del cuore, e lo costringe a battere forte.

Istintivamente, quasi a difendersi dall’intensità di quello sguardo, la donna si dedica alle solite operazioni necessarie a calare l’anfora nel pozzo. Ma a questo punto l’uomo rompe il silenzio e le rivolge quelle parole, quelle tre parole che da quel giorno – così almeno mi piace immaginare – rimbomberanno nel suo cuore per tutta la vita: “Dammi da bere” (Gv 4, 7).

“Dammi da bere…”

 

Quid animo satis? Che cosa basta all’anima? Che cosa può davvero lenire la sete del nostro cuore? Se dovessi dare una risposta sintetica, a partire da quel che ho vissuto in questi ormai quasi cinquant’anni di vita, penso risponderei proprio così: l’incontro con un’altra Sete, l’impatto con un’altra Sete infinitamente più ardente della mia.

Quale sete? Quella sete che nella carne assetata e stanca di quest’uomo Gesù si rende sensibilmente, carnalmente percepibile: la sete che l’Immenso Dio ha di darsi a me, di riversare in me la Sua vita.

Dio soffre una passione d’amore – diceva Origene. Il che vuol dire: Dio ha sete di riversare in me la Sua Vita, più di quanto io abbia sete di vita. Dio ha sete di attirarmi a Se, così come un uomo disidratato, sente il bisogno di bere. È questo che facendosi carne Dio è venuto a rivelarci. È questo che soffrendo la sete al pozzo, Gesù è lì a dirci. Dio non solo vuole donarci la Sua vita. È di più di così: Egli ha sete di darsi a noi. Sembra la stessa cosa. E invece è molto di più, è infinitamente di più – un di più che però noi possiamo scoprire solo guardando alla carne di quest’Uomo – l’uomo Gesù.

 

Di cosa ha sete il cuore? In definitiva, ciascuno di noi lo sa – oscuramente lo sa: ha sete d’amore, come dice in modo così semplice e vero Violetta Valéry nella Traviata: “Oh gioia ch’io non conobbi, essere amata amando!”. Gira e rigira, è questo che il nostro cuore inquieto cerca: il grande amore. Non un amore qualunque, però. Come amava dire Benedetto XVI, quel che cerchiamo è l’amore infinito. L’amore infinito: che bella espressione!

Ebbene, questo Amore infinito non solo esiste, ma ci è venuto incontro, si è fatto carne per farsi vedere e toccare, per farsi gustare dal nostro cuore assetato.

Giovanni ci fa capire tutto questo ancora una volta attraverso tanti piccoli dettagli, che è come se fossero lì per aiutarci a intravedere l’abisso di questo Amore, che nella carne di Gesù si nasconde e insieme risplende. Come la donna, nell’andare al pozzo, era arsa da una sete più profonda di quella fisica, così Gesù siede al pozzo a causa d’una sete assai più ardente di quella del Suo corpo. E come Giovanni ci aveva aiutato a intravedere la sete “invisibile” della donna usando d’una semplice annotazione temporale, così trapunta il racconto dell’arrivo di Gesù al pozzo di tutta una serie di dettagli, che hanno il compito di aiutarci a percepire il grande Mistero di cui la carne assetata di Gesù è segno. Vediamone qualcuno.

Innanzitutto, l’antefatto (Gv 4, 1-3) [8]: Giovanni ci informa che Gesù ha deciso di fuggire dalla Giudea e fare ritorno in Galilea, poiché a Gerusalemme sono ormai in molti ad odiarlo. In apparenza, Egli giunge dunque al pozzo di Sychar per caso, mentre sta scappando dai suoi fratelli Giudei. Il “caso” non è però senza precedenti. Già qualcun altro era presso un pozzo in terra straniera in modo simile: non tanto il già menzionato servo di Abramo, quanto Giacobbe, in fuga dal fratello Esaù (cfr. Gen 29). Con un importante nota bene: nonostante il diverso movente, il viaggio di Giacobbe nella terra di Nahor, aveva avuto un esito in tutto simile a quello del servo di Abramo: anch’egli aveva incontrato, presso lo stesso pozzo ove il servo aveva incontrato Rebecca, una splendida fanciulla, Rachele, la quale sarebbe infine divenuta sua sposa. Le cose si fanno così più intriganti ancora: sullo sfondo dell’incontro tra Gesù e la donna di Samaria al pozzo, non c’è dunque solo il fidanzamento tra Isacco e Rebecca, ma anche l’incontro tra Giacobbe e la bella Rachele. Vi torneremo tra breve. Passiamo ora all’inizio vero e proprio del racconto:

“Doveva perciò attraversare la Samaria. “Giunse pertanto a una città della Samaria chiamata Sicar, vicino al terreno che Giacobbe aveva dato a Giuseppe suo figlio. Qui c’era un pozzo di Giacobbe” (Gv 4, 4-6)

Doveva perciò attraversare la Samaria” (Gv 4, 4):

Veramente doveva?? Altra “sgrammaticatura”! In realtà, nessun Giudeo del I secolo che volesse recarsi dalla Giudea in Galilea, avrebbe mai scelto di passare per la Samaria, essendo che Samaritani e Giudei – come il nostro stesso racconto attesta (Gv 4, 9-10)[9] – si odiavano e disprezzavano a tal punto, che per un Giudeo poteva essere fin pericoloso aggirarsi per certe contrade. Per andare in Galilea, si percorreva perciò un’altra strada, quella che costeggiava il fiume Giordano. Perché allora Giovanni ci dice che Gesù doveva attraversare la Samaria? In che senso doveva attraversarla? È chiaro: doveva attraversarla, perché voleva attraversarla. E voleva attraversarla, perché questo era l’unico modo per incontrare una precisa persona: la “traviata” di Sychar.

“Giunse pertanto a una città della Samaria chiamata Sicar, vicino al terreno che Giacobbe aveva dato a Giuseppe suo figlio” (Gv 4, 5),

Anche qui, bisogna leggere tra le righe. Raramente in Giovanni le informazioni geografiche son buttate lì per puro amor di cronaca. Spesso e volentieri, i luoghi sono invece “pregni” di significato, soprattutto se si tratta di luoghi ricchi di storia. Mi viene in mente la scena del Signore degli Anelli, in cui Legolas e Gimli entrano nella antichissima foresta di Fangorn, e Legolas, come in un momento di chiaroveggenza, dice a Gimli: “questo luogo è pieno di ricordi…”. Ecco: immaginiamo Gesù che arriva in questa terra, cammina in mezzo a questi campi, in cui forse mette piede per la prima volta, e mentre si guarda in giro, è come se vedesse in flashback tutta la storia di questa terra. Risalendo la corrente del tempo, vede quanto belle fossero queste terre all’epoca dello splendore di Samaria, prima della decadenza e del crollo del regno del Nord. E poi, spingendosi ancora più indietro, vede Giacobbe, che ormai morente (cfr. Gen 48-49), dona proprio questa terreno in eredità a Giuseppe, il figlio suo prediletto. Prediletto…perché?

Gesù ben lo sapeva: prediletto perché figlio di Rachele, la moglie amata (cfr. Gen, 29, 16-18), l’unica che Giacobbe aveva scelto (Gen 29, 18)[10]. Se ne era innamorato a prima vista, quel giorno al pozzo. E così, per far colpo su di lei, aveva fatto (non sapeva bene come) quel gesto un po’ folle di sollevare tutto da solo la grande pietra che chiudeva il pozzo (Gen 29, 2.9-11)[11]. Per averla, poi, aveva accettato di faticare sette anni al servizio di Labano. Eppure né il faticare né l’aspettare gli erano stati di peso, tanto l’amava[12].

Cominciamo così a capire: chi è la donna Samaritana? In un certo senso, ciò che rimane di Rachele. Da Rachele era nato Giuseppe, da Giuseppe Efraim e da Efraim era derivato il popolo di Samaria. Ma questo popolo aveva nel tempo perso il primitivo splendore: “Rachele”, da sposa prediletta di Giacobbe e perciò benedetta, s’era ridotta ad essere un popolo promiscuo, semi-pagano. Nella donna che Gesù incontra al pozzo, Gesù incontra in realtà qualcosa in più d’una donna dal passato discutibile. In lei, è come se si personificasse l’umiliazione d’un intero popolo – un popolo del quale Gesù ben conosce l’originaria dignità. A tutto questo egli pensa, quando il suo sguardo cade infine sul pozzo di Giacobbe.

 Qui c’era un pozzo di Giacobbe.

Infine il pozzo. È chiaro, a questo punto, che nel guardare al pozzo che tanti secoli prima Giacobbe aveva lasciato a Giuseppe, Gesù pensa ad un altro, più famoso “pozzo di Giacobbe”: quello dove il patriarca aveva incontrato Rachele. Egli è infatti venuto per ricapitolare quella storia interrotta e portarla a compimento. Egli è venuto per redimere la casa di Rachele, e darle una gloria ancora più grande di quella che ha perduto: “Sei forse tu più grande di Giacobbe che ci ha dato questo pozzo?” (Gv 4, 12) – gli chiederà di lì a poco la donna.

Sì, Gesù è più grande di Giacobbe. E perché è più grande?

È più grande perché Egli presto solleverà, con la forza del Suo amore, una pietra ben più grande di quella che Giacobbe aveva spostato per amore di Rachele. Quale pietra? La pietra del peccato del mondo – quella pietra che rende il nostro cuore duro, incapace di dissetare la sete del Signore. Il vero pozzo cui il Signore desidera poter bere, infatti, altro non è che il cuore stesso della donna, cioè dell’umanità perduta – quel cuore che fatto per adorare il Signore “in spirito e verità” (Gv 4, 23-24), non fa che correre dietro ad idoli e falsi signori[13].

Così finalmente capiamo: sì, anche il Signore, come ogni vero amante, ha sete d’essere riamato. Ma non è in ciò che risplende la Sua superiore grandezza. La Sua superiore grandezza, sta nel fatto che Egli, con la forza stessa del Suo amore, ha il potere di redimere il cuore inquinato di colei che ha scelto una volta per sempre, ri-trasformandola in pozzo d’acqua viva (Gv 4, 15).

In sintesi, c’è un’innegabile “allure romantica” in questo incontro tra Gesù e la donna Samaritana[14]. E tuttavia si tratta d’una “love story” diversa da ogni altra. Perché diversa?  Non solo perché l’unione cui il Signore tende non è carnale (l’incontro non termina infatti con alcun fidanzamento); quanto per il fatto che l’amore di questo Amante, contiene in sé il potere di “ricreare” il cuore di chi ad esso s’abbevera:

Chi beve dell’acqua che io gli darò, non avrà mai più sete, anzi, l’acqua che io gli darò diventerà in lui sorgente di acqua che zampilla per la vita eterna» (Gv 4, 15).

Vengo così all’ultimo accenno, che ha a che fare col nesso che segretamente lega la sete patita da Gesù al pozzo, al mistero di un’altra sete: quella della croce (Gv 19, 28). A ben guardare, infatti, la sete patita da Gesù al pozzo di Sychar, non è che la prefigurazione d’una sete ben più atroce: quella che egli patirà (Gv 19, 28) quando al termine d’un cammino ben più sfibrante, si siederà sulla croce, spinto dalla brama di raggiungere la donna-umanità nel cuore di un inferno ben più torrido della calura dell’ora sesta a Sychar. Solo in quell’ora la Sua sete sarà davvero saziata (Gv 19, 34). Poiché solo in quell’ora Egli potrà infine far scorrere dal Suo fianco squarciato, l’acqua viva del Suo amore redentore (Gv 19 34!).

Possiamo a questo punto fare il passo decisivo. Tutto quanto detto è bello, commovente. Ma come può impattare la mia vita? Come può diventare esperienza mia?

Torniamo alla donna Samaritana e domandiamoci: di tutto quel che s’è detto, di tutta la bellezza racchiusa nella scena che di cui ella stessa è protagonista, che cosa ella capisce, che cosa è in grado di capire, al momento in cui Gesù comincia a parlarle?

Nulla, quasi nulla. Se sapesse! “Se tu conoscessi il dono di Dio e Chi è chi ti ha chiesto da bere…” (Gv 4, 10). Ma il punto è proprio questo: che la donna non sa! Non sa Chi si nasconda sotto le spoglie di quest’uomo che le chiede da bere, e perciò non può percepire “il dono di Dio”. Tuttavia qualcosa percepisce, e per questo chiede:

“Come mai tu che sei Giudeo chiedi da bere a me, che sono donna samaritana?” (Gv 4, 9).

“Perché quest’uomo mi ha chiesto da bere? Che vuole da me?

Cruciale, decisiva domanda! Tanto che l’intero dialogo tra Gesù e la donna, a ben guardare, non è che un cammino in crescendo, attraverso cui Gesù conduce pian piano la donna ad una risposta sempre più piena, sempre più profonda ad essa. Certo, lo si è detto, ci deve essere stato qualcosa nel modo in cui Gesù l’ha guardata e le ha parlato, che fin da subito deve aver destato in lei il desiderio di capire chi fosse e cosa da lei volesse. E tuttavia: mai avrebbe immaginato, mentre Gesù le chiedeva da bere, quanto “dissetante” sarebbe stata la risposta all’enigma (cfr. Gv 4, 28)[15]!

Si capisce così che cosa sia il cammino della fede. Il cammino di fede della Samaritana, non è stato un cammino che l’ha condotta oltre il fascino della carne di Gesù – oltre la carne di quel volto assetato. Piuttosto, è stato un cammino che l’ha portata a gustare e vedere l’altezza, la profondità dell’Amore di cui quel volto assetato era segno.

Non è in qualche modo lo stesso per noi? Non è questo il cammino della fede? Non c’è data, la vita, per imparare a vedere nella “povera carne” di moglie e marito, di figli, amici e circostanze date, il volto di questo Dio, che assetato attende d’essere da noi riconosciuto Presente?

Giungiamo così al punto chiave.

Abbiamo detto che la vera sete che spinge Gesù a parlare alla donna, è il desiderio di rivelarle il Mistero del Suo amore. Ebbene, siamo sicuri che questo è l’unica cosa di cui Egli ha sete?

Si noti: Gesù le ha chiesto da bere. Il che vuol dire: se non fosse lì che per dare, se non volesse ricevere nulla da lei, allora avrebbe di fatto mentito – il che è da escludere (Gesù non mente mai!). Che cosa dunque vuole? La donna fa in fretta a capire che non è acqua che vuole (Gv 4, 10). Che cosa allora? Tralasciando l’ipotesi seconda, che con ogni probabilità deve essere passata per la mente della donna  -prima che Gesù fughi ogni dubbio dicendole di andare a chiamare suo marito! –[16], vengo alla risposta a mio avviso più giusta, peraltro contenuta nel versetto 21:

“Credimi, donna!…”

Di fatto l’unica richiesta reale che Gesù fa alla donna, è di credergli. Di qui la conclusione che fu già del grande Agostino: è della fede della donna che Gesù aveva sete. Perché?

Perché senza la fede, senza cioè dare fiducia a quel che quest’uomo infine le dirà di sé (Gv 4, 26), sarebbe stato impossibile per la donna arrivare a capire il dono che le era stato fatto. Se non fosse giunta alla fede, che cosa la nostra Samaritana avrebbe trovato di così “dissetante”, nel ripensare al volto dell’uomo che le aveva chiesto da bere?

Si capisce così, perdonatemi la crudezza, a “che serve” la fede. A un certo punto bisogna farsi nuda e cruda questa domanda: a “che mi serve” in fin dei conti la fede? La fede “mi serve” – anzi: mi serve più d’ogni altra cosa – perché io non posso entrare in contatto con l’acqua di dell’Amore di Cristo, che è ciò di cui ultimamente il mio cuore ha sete, se non attraverso la fede[17]. È la fede che arroventa il volto di quell’uomo inchiodato a una croce, e lo rende segno dell’Amore di Dio per me. E per questo non c’è nulla di cui Cristo abbia più sete, che della nostra fede.

 

  1. “Che siano una sola cosa come Noi”

Non è però finita qui. Se non c’è nulla di cui il Signore abbia più sete che della nostra fede, c’è però qualcosa di cui mi pare si debba dire che ha almeno altrettanta sete – qualcosa che è della fede il frutto ed il segno più importante: la carità fraterna. Veniamo così al terzo e finale punto, su cui, vista l’ora, mi soffermerò più brevemente.

Uno dei passaggi che più mi ha colpito della seconda lezione degli esercizi di padre Lepori, è stato il commento alla grande preghiera sacerdotale di Gesù, al capitolo 17 del vangelo di Giovanni – in particolare il suo insistere sul fatto che nell’ora in cui Gesù sta per andare a morire in croce, ciò che più ha a cuore, ciò che Egli chiede al Padre, in risposta al suo sacrificio d’amore, è la comunione tra i suoi (cfr. Gv 17, 20-23)[18]. In effetti, se si legge d’un fiato il cosiddetto grande discorso dell’Addio, dal capitolo 13 al 17 del Quarto Vangelo, è impressionante accorgersi di quanto quest’unità gli prema: “Amatevi gli uni gli altri come io vi ho amato” (Gv 13,34; cfr. Gv 13, 12-16; Gv 15, 10-17). Nel momento estremo, è come se Gesù non avesse altro da chiedere ai suoi. Perché? Perché in effetti è proprio questo lo scopo per cui Gesù va a morire in croce: per generare la comunione tra i suoi.

È bellissimo, in questo senso, che il comando dell’amore, sia preceduto da una frase importantissima, che ne chiarisce il senso: “Vi do un comandamento nuovo”. Perché nuovo? In che senso nuovo? Non è il comandamento dell’amore ad essere nuovo. La legge già prescriveva l’amore del prossimo. La novità, è invece tutta in quel “come io vi ho amato”, che in realtà vuol dire: “con l’amore che scaturisce da me, con l’amore che è il frutto in voi del mio sacrificio, del Mio dare la vita per voi”.

Così capiamo. Da un lato, Gesù sta dicendo: “il segno che uno si apre a Me, che si abbevera a me, è il fatto che desidera amare e guardare chi gli è messo accanto d’un amore che sia come il riverbero dell’amore che da me riceve”. “Tu non puoi vivere la fede” – è come se Gesù dicesse – “se questo tuo abbandonarti a Me non diventa – almeno come desiderio! – impeto ad amare chi ti metto accanto così come Io ho amato te” (cfr. 1 Gv 4, 20-21!)[19].

C’è però anche l’altro lato della medaglia: per non fraintendere queste parole, cioè per non intenderle come un fardello che grava tutto sulle nostre spalle – “adesso dovete volervi bene!” –, dobbiamo leggerle tenendo sullo sfondo un’altra scena: quella della morte in croce di Gesù. Infatti, quell’amore reciproco che nel cenacolo il Signore chiede, sulla croce lo dona, lo fa erompere come Acqua Viva dal suo cuore squarciato (cfr. Gv 19, 34). E sotto la croce vi è chi è pronto ad accoglierlo: Sua madre ed il discepolo amato: “Donna, ecco tuo figlio. Figlio, ecco tua madre” (cfr. Gv 19, 25-27)[20].

Che bello: il frutto del dono totale che Cristo fa di sé sulla croce – di più: il fine di questo dono di sé totale – qual è? È la nascita di una familiarità nuova, prima impossibile, tra Maria e Giovanni: una familiarità così vertiginosa, da essere come un riflesso dell’unità che c’è tra Gesù e Sua madre. Questo è il frutto dell’amore della croce. Questo è il fine per cui Cristo dà via se stesso sulla croce. “Ho sete!” (Gv 19, 28) – grida appena prima di spirare. Di cosa ha sete? Della mia e tua fede, senza dubbio. Ma non solo. Ha sete del mio e tuo desiderio di darci, di spenderci, di darci per costruire la Chiesa, per costruire la comunione tra noi.

Permettetemi allora di chiudere con un ultimo spunto. Rileggendo la lezione di padre Lepori, mi ha colpito molto la menzione che fa di santa Teresina di Liseux: “Non è forse evidente – cito – palpabile, nelle nostre comunità, che chi più si consacra e si sacrifica alla comunione fraterna ha più consistenza come persona? Magari è più carente di doni e carismi, il meno capace di agire e parlare, il meno intelligente. Eppure, come è evidente che la comunità tiene perché c’è quella persona, c’è quell’umiltà, quella presenza, quello sguardo, quell’attenzione, quella carità, quella fede!” E poco dopo prosegue: “Pare che al momento della morte di Santa Teresa di Lisieux le monache non sapessero cosa scrivere su di lei nel necrologio, proprio perché aveva ‘solo’ amato e favorito la comunione in comunità. Non aveva fatto niente altro di speciale”. Non aveva fatto niente di speciale, osserva padre Lepori. E nello stesso tempo, era ben cosciente di aver fatto la cosa più speciale. Infatti, se andate a leggere, nel Manoscritto B degli scritti della santa, il famoso racconto del momento chiave del suo cammino interiore, scoprirete che la grande “illuminazione” che ha fatto fare a Teresina il salto di qualità decisivo nel suo rapporto col Signore, ha a che fare proprio con la scoperta del primato della carità, intesa nel senso detto, come offerta totale di sé per il bene della Chiesa. Tormentata dalla grandezza dei propri desideri – voleva essere tutto: voleva essere martire ed essere missionaria, voleva essere apostolo ed essere prete (molto moderna come santa, no?) –, un bel giorno si mette a leggere i capitoli dodicesimo e tredicesimo della Prima lettera ai Corinzi, che non sono altro che una sinfonia sulla questione del giusto posto dei diversi carismi nella Chiesa. Ebbene, ad un certo punto l’occhi le cade sul seguente passaggio, che la folgora: “Aspirate ai carismi più grandi, ed io vi mostrerò una via migliore di tutte. Se anche parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sono come un bronzo che risuona o un cembalo che tintinna” (1 Cor 12, 31-13, 1). Il che lei intende più o meno così: “sì, è giusto aspirare ai carismi più grandi. Ma signori, il dono più grande di tutti, quello che davvero innalza, è la carità. Chi è più grande nella Chiesa? Chi ama di più, cioè chi più si dà per servire il tutto, il Corpo totale:

“Siccome le mie immense aspirazioni erano per me un martirio, mi rivolsi alle lettere di san Paolo per trovarvi finalmente una risposta. Gli occhi mi caddero per caso sui capitoli 12 e 13 della prima Lettera ai Corinzi, continuai nella lettura e non mi perdetti d’animo. Trovai così una frase che mi diede sollievo: ‘Aspirate ai carismi più grandi e io vi mostrerò una via migliore di tutte” (1Cor 12,31). L’Apostolo infatti dichiara che anche i carismi migliori sono un nulla senza la carità; e che questa medesima carità è la via più perfetta che conduce con sicurezza a Dio’”.

Che grande mistero! Dio rischia così tanto sulla nostra libertà, è così rispettoso della nostra libertà, che quando ti dà un carisma, quando ti dà un dono, se lo usi male, se non lo metti al servizio della comunione, non te lo toglie. Se te lo togliesse, non sarebbe un dono, poiché il dono – come ricorda san Paolo – è per essenza “irrevocabile” (…). Di qui il paradosso per cui uno può convertire le masse in forza del carisma che Dio gli ha dato – pensiamo a Martin Lutero: chi può dire con sicurezza che non avesse ricevuto un grande carisma? – e non per questo essere un santo. Chi l’ha detto che se uno ha una grande “gratia gratis data”, per usare la terminologia di San Tommaso, cioè un grande “carisma”, allora è un grande santo? Non è così. Uno potrebbe aver ricevuto un carisma grandissimo, col quale scaccia i demoni e converte i leoni, e tuttavia sentirsi dire dal Signore: “Io non ti conosco”. Perché? Perché la gratia gratis data, cioè il dono che Dio liberamente dà a Tizio o a Caio a beneficio della Chiesa (ad utilitatem ecclesiae) non è la gratia gratum faciens, cioè non è quel che ti rende santo. Quel che ti rende santo sono la fede, la speranza e la carità e basta. Il che vuol dire: se anche tu fossi l’ultima vecchietta Siberiana che nessuno conosce e di cui nessuno saprà mai nulla, puoi essere più santa di Giovanni Paolo II, di don Giussani e Madre Teresa di Calcutta messi insieme.

“Considerando il corpo mistico della Chiesa non mi ritrovavo in nessuna delle membra che san Paolo aveva descritto, o meglio: volevo vedermi in tutte. La carità mi offrì il cardine della mia vocazione. Compresi che la Chiesa è un corpo composto di varie membra, ma che in questo corpo non può mancare il membro necessario e più nobile. Capii che solo l’amore spinge all’azione le membra della Chiesa, e che spento questo amore gli apostoli non avrebbero più annunziato il Vangelo, i martiri non avrebbero più versato il loro sangue, allora gridai: o Cristo, ho trovato finalmente la mia vocazione, ho trovato il mio posto nella Chiesa e questo posto me lo hai dato Tu. Nel cuore della Chiesa mia madre io sarò l’amore e in tal modo sarò tutto, e il mio desiderio si tradurrà in realtà”.

 

Testi:

Quaresima. Dio è misericordia, in Luigi Giussani, La familiarità con Cristo. Meditazioni sull’anno liturgico, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo, 2008, pp.47-48

Mauro-Giuseppe Lepori, Gli occhi fissi su Gesù, origine e compimento della fede, Esercizi della Fraternità di Comunione e Liberazione, Rimini, 14-16 aprile 2023

Vangelo di Giovanni

Santa Teresa di Lisieux, Manoscritti autobiografici

***

[1] Cfr. G. Leopardi, Ritratto di una bella donna sopra il monumento sepolcrale della medesima, v. 47.

[2] “Che il Cristo abiti per la fede nei vostri cuori e così, radicati e fondati nella carità, 18 siate in grado di comprendere con tutti i santi quale sia l’ampiezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità, 19 e conoscere l’amore di Cristo che sorpassa ogni conoscenza, perché siate ricolmi di tutta la pienezza di Dio” (Ef 3, 17-19).

[3] Giovanni nasconde spesso i “misteri più profondi”, per dire così, sotto il velo di dettagli fuori posto, che alcuni specialisti chiamano ungrammaticalities (sgrammaticature volontarie). Si tratta di una strategia letteraria ordinata a spingere il lettore a cercare il senso profondo di un testo, proprio in forza dello straniamento che il lettore prova nel trovarsi davanti a dettagli del racconto che di primo acchito sembrano fuori luogo, bizzarri. In questo modo, Giovanni ottiene un duplice effetto: suscitare nel lettore la percezione della presenza di un “mistero intrigante”, che si cela “sotto li versi strani”, senza però dargliene la soluzione. È il lettore stesso a doverla trovare, così come ogni uomo e donna è chiamato a penetrare con gli occhi della fede il velo della carne dell’uomo Gesù, per vedere in essa “le meraviglie” che vi sono nascoste.

[4] “Fece inginocchiare i cammelli fuori della città, presso il pozzo d’acqua, nell’ora della sera, quando le donne escono ad attingere” (Gen 24, 11).

[5] “E disse: «Signore, Dio del mio padrone Abramo, concedimi un felice incontro quest’oggi e usa benevolenza verso il mio padrone Abramo! 13 Ecco, io sto presso la fonte dell’acqua, mentre le fanciulle della città escono per attingere acqua. 14 Ebbene, la ragazza alla quale dirò: Abbassa l’anfora e lasciami bere, e che risponderà: Bevi, anche ai tuoi cammelli darò da bere, sia quella che tu hai destinata al tuo servo Isacco; da questo riconoscerò che tu hai usato benevolenza al mio padrone» (Gen 24, 12-14).

[6] Si noti che, essendo Betuel figlio di Nahor, che è fratello di Abramo, Rebecca e Isacco sono anche cugini di secondo grado, così come Giudei e Samaritani, nonostante l’odio che al presente li oppone e la promiscuità semi-pagana dei secondi, rimangono comunque parenti, in forza delle lontane comuni origini. Il parallelismo Gesù : donna Samaritana = Isacco : Rebecca, è dunque più stretto di quel che appare a prima vista!

[7]15 Non aveva ancora finito di parlare, quand’ecco Rebecca, che era nata a Betuèl figlio di Milca, moglie di Nacor, fratello di Abramo, usciva con l’anfora sulla spalla16 La giovinetta era molto bella d’aspetto, era vergine, nessun uomo le si era unito. Essa scese alla sorgente, riempì l’anfora e risalì. 17 Il servo allora le corse incontro e disse: «Fammi bere un pò d’acqua dalla tua anfora». 18 Rispose: «Bevi, mio signore». In fretta calò l’anfora sul braccio e lo fece bere”.

 

[8] “1 Quando il Signore venne a sapere che i farisei avevan sentito dire: Gesù fa più discepoli e battezza più di Giovanni 2 – sebbene non fosse Gesù in persona che battezzava, ma i suoi discepoli -, 3 lasciò la Giudea e si diresse di nuovo verso la Galilea”.

[9]9 Ma la Samaritana gli disse: «Come mai tu, che sei Giudeo, chiedi da bere a me, che sono una donna samaritana?». I Giudei infatti non mantengono buone relazioni con i Samaritani” (Gv 4, 9-10).

 

[10] La povera Lia, come noto, gli era stata infatti “appioppata” con l’inganno dall’astuto Labano (cfr. Gen 29, 21-26).

[11] “1] Poi Giacobbe si mise in cammino e andò nel paese degli orientali. [2] Vide nella campagna un pozzo e tre greggi di piccolo bestiame, accovacciati vicino, perché a quel pozzo si abbeveravano i greggi, ma la pietra sulla bocca del pozzo era grande. [3] Quando tutti i greggi si erano radunati là, i pastori rotolavano la pietra dalla bocca del pozzo e abbeveravano il bestiame; poi rimettevano la pietra al posto sulla bocca del pozzo. (…). 9]Egli stava ancora parlando con loro, quando arrivò Rachele con il bestiame del padre, perché era una pastorella. [10] Quando Giacobbe vide Rachele, figlia di Làbano, fratello di sua madre, insieme con il bestiame di Làbano, fratello di sua madre, Giacobbe, fattosi avanti, rotolò la pietra dalla bocca del pozzo e fece bere le pecore di Làbano, fratello di sua madre. [11] Poi Giacobbe baciò Rachele e pianse ad alta voce. 

[12] “Così Giacobbe servì sette anni per Rachele: gli sembrarono pochi giorni tanto era il suo amore per lei” (Gen 29, 20).

[13] Se l’associazione sposa – pozzo d’acqua viva può suonare ai nostri orecchi un po’ strana, non così era nell’ambiente in cui la Bibbia si pian piano formata. Non è certo un caso che ben tre delle più importanti scene di fidanzamento della Bibbia si svolgano presso un pozzo (cfr. Gen 24; Gen 29, 1-14; Es 2, 15-22). In una terra semi-desertica come la Palestina, come non trovare proprio nella sete d’acqua, il simbolo più naturale del desiderio amoroso? E come non trovare proprio nel pozzo, la metafora più naturale di ciò che lo soddisfa? Si comprende così perché nel poema Israelitico dell’eros per eccellenza, il Cantico dei Cantici, (Cant 4, 12.15) il pozzo possa essere preso ad immagine regina di ciò che la donna, quando ama davvero, diviene per il suo sposo: quella fonte di acqua viva che continuamente gli dà vita e gioia:

[12]Giardino chiuso tu sei,
sorella mia, sposa,
giardino chiuso, fontana sigillata. (…)
[15]Fontana che irrora i giardini,
pozzo d’acque vive
e ruscelli sgorganti dal Libano.

[14] Molti altri dettagli del testo lo confermano. Su tutti il battere (Gv 4, 9) e ribattere (Gv 4, 27) sul fatto che tanto la donna stessa prima, quanto i discepoli poi, si stupiscono del fatto che Gesù le parli non solo (e nel caso dei discepoli addirittura non tanto) perché Samaritana, bensì prima di tutto perché donna (Gv 4, 9): “[27] In quel momento giunsero i suoi discepoli e si meravigliarono che stesse a discorrere con una donna. Nessuno tuttavia gli disse: «Che desideri?», o: «Perché parli con lei?».

La ragione dello stupore è presto detta: come noto, non era considerato decoroso, secondo il codice etico della società giudaica dell’epoca, che un uomo parlasse da solo ad una donna, a meno che ella fosse sua madre (o nonna), sua sorella, la sua fidanzata o sua moglie.

[15] Giovanni allude al “dissetamento” avvenuto, quando nota che la donna, prima di correre in città a raccontare l’accaduto, lascia l’anfora al pozzo. Ebbene sì, la promessa di Gesù (Gv 4, 13-14), si è davvero realizzata, se è vero che la gioia e lo stupore che riempiono il cuore della donna quando Gesù “getta la maschera” (Gv 4, 26) è tale, che ella si dimentica in effetti della sete che l’aveva spinta al pozzo: “[28] La donna intanto lasciò la brocca, andò in città e disse alla gente: [29]«Venite a vedere un uomo che mi ha detto tutto quello che ho fatto. Che sia forse il Messia?”

[16] Gv 4, 16-18: Le disse: «Và a chiamare tuo marito e poi ritorna qui». [17] Rispose la donna: «Non ho marito». Le disse Gesù: «Hai detto bene “non ho marito”; [18] infatti hai avuto cinque mariti e quello che hai ora non è tuo marito; in questo hai detto il vero». Come è stato messo in luce dall’esegesi più recente, l’apparentemente brusco “cambio di tema” di Gesù, cessa di apparire tale e diviene al contrario un intervento perfettamente “in tema”, se se si tiene presente non solo la forte ambiguità della situazione, ma anche e soprattutto le risonanze “romantiche” della metafora dell’acqua di fonte nella tradizione Israelitica. In altri termini, mettendosi nei panni della donna: una volta intuito (come è più che probabile), che non è affatto acqua materiale che il fascinoso straniero le sta promettendo (quello stesso straniero, non dimentichiamolo, che inizialmente le ha chiesto da bere…), che tipo “d’acqua viva” la donna può aver immaginato egli le stesse “offrendo”?

[17] Padre Lepori lo diceva agli esercizi con altre parole: “La fede è quello sguardo, quell’ascolto, quell’attenzione del cuore che vede, che sente, che si ricorda, che fa memoria che non è più possibile uscire, trovarsi fuori dall’ampiezza, dalla lunghezza, dall’altezza e dalla profondità dell’amore di Cristo”.

[18] [20] Non prego solo per questi, ma anche per quelli che per la loro parola crederanno in me; [21] perché tutti siano una sola cosa. Come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi una cosa sola, perché il mondo creda che tu mi hai mandato. [22] E la gloria che tu hai dato a me, io l’ho data a loro, perché siano come noi una cosa sola. [23] Io in loro e tu in me, perché siano perfetti nell’unità e il mondo sappia che tu mi hai mandato e li hai amati come hai amato me.

[19] “Se uno dice: «Io amo Dio» e odia suo fratello, è un bugiardo. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede. 21 E questo è il comandamento che abbiamo da lui: chi ama Dio, ami anche suo fratello”.

[20] Gesù allora, vedendo la madre e lì accanto a lei il discepolo che egli amava, disse alla madre: «Donna, ecco il tuo figlio!». [27] Poi disse al discepolo: «Ecco la tua madre!». E da quel momento il discepolo la prese nella sua casa.

 

 

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