di Andreas Hofer
Da questo segno li riconoscerete,
dalla rovina e dal buio che portano;
da masse di uomini devoti al Nulla,
diventati schiavi senza un padrone.
(G.K. Chesterton)
Alcuni anni fa una nota soubrette confessò d’aver abortito. Il suo compagno, ricco rampollo di un magnate cinematografico, non aveva accolto con entusiasmo, diciamo così, la notizia della gravidanza. Tanto che il suo primo pensiero era stato: come avrebbero fatto ora, con un neonato in fasce, ad andare in barca? Il piacere balneare finì per avere la meglio sugli obblighi della paternità e così i due, di comune accordo, si decisero per l’aborto.
Si staglia in negativo, in questa amara vicenda, l’immagine di una figura maschile che, esatto rovesciamento dell’Ulisse omerico, nega riconoscimento all’essere che ha contribuito a generare nella carne. Un uomo che lascia naufragare il figlio, simbolicamente prima ancora che materialmente, anziché abbandonare l’imbarcazione per accingersi a soccorrerlo. Se ne sbarazza – con disinteresse, almeno apparentemente – invece di sollevarlo, traendolo in salvo, dal deserto d’acqua dove la vita umana non può mettere radici.
Ho spesso pensato, nei giorni immediatamente successivi alla marcia per la vita di Roma, a cosa potesse aver spinto questo agiato erede, cui certo non mancavano i mezzi materiali, a rifiutare in piena coscienza di diventare padre. La semplice combinazione del cinismo e della frivolezza? O forse qualcosa di più profondo, che lo ha privato, lui per primo, di ciò che è autenticamente umano?
Una riflessione che mi porta lontano e finisce per rafforzare in me una convinzione coltivata da tempo, cioè che il destino di una vaterlose Gesellschaft (società senza padri) sia di diventare necessariamente una kinderlose Gesellschaft (società senza figli).
Pedagogia della sterilizzazione esistenziale e massificazione
Sembra vigere, nel nostro mondo, un imperativo categorico: evitare, fin dalla più tenera età, ogni rischio, ogni ferita anche minima, qualunque sforzo; per non parlare degli accenni al lato più tragico e oscuro dell’esistenza. Si pensa che così gli uomini crescano meglio, più sani. In realtà forse li si priva di una componente essenziale della loro umanità. Facendoli crescere in un ambiente che sa più di ospedale che di scuola si rischia solo di farli solo avvizzire precocemente.
Il tipo umano prodotto da questa pedagogia della sterilizzazione esistenziale, che rifiuta ogni strada in salita preferendo chiedere asilo alla comodità liquida e informe delle acque, è stato ben descritto da Josè Ortega y Gasset in celebri pagine della Ribellione delle masse. Ortega lo chiama «signorino soddisfatto», «bimbo viziato», «l’erede che si comporta esclusivamente come erede». Viziare, dice Ortega, «equivale a non frenare i desideri, a dare a un essere l’impressione che tutto gli è permesso e nulla è obbligato».
La comparsa del «signorino soddisfatto», esemplare più rappresentativo di «uomo-massa», è l’anticamera della pre-civiltà. Questo tipo d’uomo, per nulla incline ad «ascoltare istanze esterne superiori a lui», presto o tardi si tramuta infatti nel “neo-barbaro” odierno, che vive nell’intricatissima civiltà tecnica e giuridica che lo ospita alla maniera di un selvaggio che, nato e cresciuto nella foresta, ne gode i frutti – vale a dire i manufatti tecnici, le norme giuridiche, il patrimonio di morale e saggezza, e così via – come se questi scaturissero per generazione spontanea. Come se fossero frutti degli alberi, a portata della mano che altro non deve fare se non coglierli.
L’uomo-massa, affacciatosi alla vita alla maniera del «figlio di famiglia» al quale «tutto è permesso», è convinto di poter fare in società tutto ciò che gli aggrada, come se si trovasse nella propria cerchia familiare (è noto che l’ambiente familiare, osserva Ortega, è una riproduzione soft e artificiale di quello reale: al suo interno si tollerano molti atti che in società, in pubblico, verrebbero sanzionati se non con durezza quantomeno con assai minore indulgenza). Avanza e si impone, ad ogni livello della società, la tipica pretesa del «bimbo viziato»: ereditare senza impegno le comodità, la sicurezza, i vantaggi della civiltà, considerati come “prodotti” acquisiti una volta per tutte e senza sforzo alcuno.
Ogni conquista della civiltà nasce però non dall’istintualità ma dalla progettualità. E ciò è possibile solo in presenza della capacità di contenere le pulsioni immediate, quando si è in grado di differire la soddisfazione immediata di un bisogno.
Senso del limite, contenimento, autolimitazione, autocontrollo. Sono, questi, i contrassegni della personalità adulta e matura. L’incapacità di dilazionare un soddisfacimento immediato, strillare per ogni capriccio è invece l’atteggiamento tipico del poppante o dell’eterno adolescente, cioè di colui che ancora non ha terminato di adolescere, di crescere, laddove “adulto” deriva dal participio passato di adolescere, ad indicare l’individuo in cui ha trovato compimento il processo di crescita e maturazione.
Virilità o virilismo?
Luigi Zoja, nel suo Il gesto di Ettore, ricorda che la genesi della società umana – reale e non artificiale – coincide col momento in cui l’uomo diviene in grado di comporre in equilibrio il polo del maschio (la parte aggressivo-istintuale che l’uomo condivide col mondo animale) con il polo del padre, la facoltà raziocinante, progettuale e autolimitante, l’unica capace di portare a domesticazione l’istinto predatorio dei bruti.
Ciò si mostra con particolare evidenza, fa notare Zoja, se guardiamo alle figure mitiche che hanno plasmato l’immaginario collettivo occidentale.
Prendiamo Enea, che fugge da Troia in fiamme caricandosi il padre Anchise in spalla e portando con sé il figlio Ascanio, quando l’istinto e l’onore gli imporrebbero invece di combattere fino alla morte.
La fuga di Enea non ha nulla della vigliaccheria. Richiede anzi notevole fortezza. Essa è piuttosto il simbolo della pazienza, della prudenza paterna in grado di differire il soddisfacimento immediato dell’istinto di aggressività. Solo così Enea può proteggere la vita altrui sottraendo la propria famiglia dalla rovina e da una morte sicura.
Enea è ben diverso da Achille, uomo dell’ira, non dell’impegno civile. Eroe guerriero, feroce e prepotente, simbolo del maschio aggressivo che vive per l’ebbrezza dell’istante, per la gloria, per la fama e l’istinto. Questo è Achille, personificazione della condizione antipaterna e precivile dell’orda anonima di maschi in lotta tra di loro per le donne, agiti da un’individualità disordinata e immatura, preda degli istinti belluini.
Di questo brulicare di pulsioni nei poemi omerici sono simbolo i Proci. Nemici della figura paterna personificata da Ulisse – omnia illico, “tutto subito”, è un motto che loro ben si adatta – che evoca invece la ragione paziente, il calcolo progettuale, il trattenimento e la responsabilità.
Achille, eroe arcaico, si atteggia come fosse sempre in battaglia, unico rumore che gli sia noto. Perciò strepita orgogliosamente, grida il proprio nome con fare provocatorio per chiamare l’avversario allo scontro, porta scudi scintillanti ed elmi vistosi per impressionare il nemico. Si innalza alla maniera di certi maschi animali, che si gonfiano prima del duello per mostrarsi alla vista. La sua fama deve essere costantemente riconosciuta perché il suo “ego” è tanto fragile da non poter sopravvivere senza pubblico attestato.
Come Enea, Ulisse è piuttosto un Achille pacificato. Non senza un duro confronto con l’”avversario interiore” – scontro raffigurato dal lungo e periglioso vagare attraverso le insidiose liquidità marine – l’Odisseo è riuscito a equilibrare le spinte aggressive e istintuali col raziocinio. In lui il pensiero non è più pulsione primordiale ma, prima di tutto, autodisciplina. Perciò può essere trattenuto.
I due, Achille ed Ulisse, non potrebbero essere più distanti. Achille è la personificazione del virilismo. Violento e impaziente, il suo agire è impulsivo. Ulisse è la personificazione della virilità. Forte e paziente, sa attendere il momento più propizio per agire.
È questo sapersi con-tenere a renderlo capace di donare con generosità la propria vita per far crescere quella altrui, cosa inconcepibile per il narcisismo individualistico e immaturo simboleggiato dai Proci e da Achille. L’ascesa della figura del padre generoso capace di sacrificarsi per i bambini fu una conquista decisiva in un mondo come quello classico dove il genitore aveva più che altro diritti verso i figli, non doveri (in generale l’infanzia godeva allora di scarsissima considerazione, basti pensare che il greco nèpios sta sia per “bambino” che per “sciocco”).
Psicologicamente parlando, il “signorino soddisfatto” è l’uomo che resterà sempre maschio, mai diventerà padre. Rimarrà uno dei Proci, l’orda anonima di maschi in balia dei propri istinti incontrollati. Non diventerà Ulisse, l’uomo che abbandona la casa per combattere e poi combatte per ritornarvi.
Rivoluzione senza emancipazione
La figura del padre indica la verticalità del rapporto tra le generazioni, ma anche l’idea di una verticalità morale. Implicitamente le figure paterne di Enea e Ulisse comunicano a ogni uomo di ogni tempo l’esistenza di un mondo valoriale superiore al proprio “io” individuale. Difatti è ad Enea, alla disciplina interiore, che Virgilio assegna la potestà fondativa. A un padre è affidato il compito più alto: dover essere colui che getta le basi dell’impresa che porterà alla fondazione della grande civiltà romana.
Così si vollero vedere i romani, e prima di loro i greci, nei loro spiriti più alti. Miti, i loro, ancor oggi attuali perché senza tempo, immortale, è il messaggio trasmesso. Oggi la cultura dominante ci spinge invece verso il ritorno ai Proci, ai centauri, alle figure del maschile orgiastico, istintuale e aggressivo. Ci viene proposta come modello privato, in quanto individui, la regressione alla condizione precivile dell’orda anonima e indistinta, senza radici. Così abbiamo il contrasto verso le virtù del padre, la lotta senza quartiere a ogni ideale di sacrificio, disciplina, ascesi, abnegazione, rinuncia.
Si capisce quindi che la diffusione generalizzata dell’erotismo, preludio di una rivoluzione senza emancipazione, non può essere che la via maestra verso l’uomo-massa prefigurato da Ortega. Certo non appare strano che al permissivismo di massa si affianchi un modello pubblico all’insegna della progressiva statificazione della vita sociale, con uno stato sempre più invasivo e i suoi “corsi di educazione sessuale” per “scimmioni evoluti”.
La società senza padre in questo modo si coniuga con la proposta tecnocratico-ludica del «caosmos» (caos nel privato e cosmos nel pubblico). Lasciando che il “privato” sguazzi in ogni genere di “libertà trasgressiva” (aborto libero, droga libera, gioco libero e così via) si fomenta il caos nella società di modo che, una volta “liquefatta”, non rimanga che una massa informe di individui isolati incapace di opporre resistenza al cosmos “pubblico” retto da agglomerazioni anonime e collettività ipertrofiche.
Schiavitù senza padroni
Il «caosmos» vive della contemporanea presenza di due stati contraddittori: lo stato di selvatichezza e lo stato di barbarie. Lo stato selvatico, ha scritto Ernest Hello, è caratterizzato dal predominio della fantasia dell’individuo sulla società, è la licenza dell’individuo contro la comunità. Nello stato barbarico, al contrario, a predominare è la fantasia della società sull’individuo, è la schiavitù della comunità ai danni dell’individuo.
La selvatichezza, che dispensa l’individuo da ogni obbligo verso la società, si caratterizza in particolar modo per la licenza (negazione del diritto sociale). Più forte qui è l’individuo che opprime l’individuo più debole. La barbarie, che dispensa la società da ogni obbligo verso l’individuo, si caratterizza invece per la schiavitù (negazione del diritto individuale). Più forte qui è la comunità che schiaccia la persona.
Questa schizofrenica lega tra selvatichezza e barbarie pare essersi saldata nella società di oggi, caratterizzata dall’estensione massima dell’idea di mercato e dall’annichilimento della persona umana. Augusto Del Noce vi ha visto la realizzazione della «società economica pura», nella quale ogni realtà, anche le idee e i princìpi morali, è soggetta al consumo. In essa si afferma un totale egocentrismo; totale perché tutto, a cominciare dai rapporti con gli altri, acquista valore solo nella misura in cui può diventare strumento per l’affermazione e il potenziamento dell’io.
La copula tra consumismo e permissivismo, nella visione di Del Noce, genera la «reciproca strumentalizzazione», una «universalizzazione della servitù senza un padrone palese». Si tratta della negazione più completa dell’«eterno nell’uomo», cui conseguono il rigetto della comunanza tra gli uomini attraverso fini sopraindividuali, il rifiuto dell’idea di sacrificio rispetto a una realtà superiore e, di conseguenza, l’affermazione del desiderio come unità di misura universale.
Laddove si eclissa la figura del padre inizia ad avverarsi dunque la profezia chestertoniana di un mondo popolato «da masse di uomini devoti al Nulla, diventati schiavi senza un padrone».
Grazie Andreas. Bell’articolo. Bella analisi.
Il bimbo viziato, il signorino soddisfatto …l’adulto sono i miei tutti diritti.
Non è un caso che per quanto mi è dato vedere, l’odierna gioventù è perlopiù “orfana di padre”, non avendo alcun rispetto per la canizie e considerando i propri padri, degli emeriti imbecilli (e sto usando un eufemismo) 😐
Bariom, anche se mi non sembra chiaro cosa vuoi dire nel tuo commento, la tua considerazione ( l’odierna gioventù è perlopiù “orfana di padre”, non avendo alcun rispetto per la canizie e considerando i propri padri, degli emeriti imbecilli ) mi fa riflettere. Si vive un contrasto tra una visione gerarchica delle responsabilità della famiglia e la necessaria e anche evangelica responsabilità di essere autonomi e staccarsi dai genitori e fare nuova famiglia o la propria vita. Il contrasto tra una cultura che vedeva il pater familias sempre capo e rispettato fino a tardissima età dalla discendenza , dai nipoti, dalle nuore, dai generi e la necessità di questi di essere autonomi e fare la propria vita oggi “stride” a tutti i livelli. Questo contrasto che negli ultimi 50 anni ha creato ribellione all’interno delle famiglie fino a dire quello che dici tu sopra, da un lato è corretto perchè i figli devono lasciare il padre e la madre e fare la propria vita, dall’altro lascia i genitori soli e alla ricerca di una nuova ragione di affermazione al di fuori della famiglia. Mi domando perché allora un giovane deve ancora sentire la responsabilità tradizionale verso impegni che, una volta lo vedevano assumere un ruolo solido, ( ma autoritario ), fino alla fine della sua vita, quando oggi invece lo vedono con la prospettiva di diventare un imbecille agli occhi dei propri discendenti?
@salvatore, forse la risposta a Nigoula sotto, chiarisce meglio il mio pensiero e (sempre forse ti risponde)… diversamente possiamo tornarci su.
E’ comunque questo solo un aspetto, una sfaccettatura, dei tanti che l’articolo potrebbe suscitare 😉
Della serie: tanto peggio, tanto meglio! Non voglio diventare come quello’imbecille di mio padre, preferisco restare solo un maschio.
Purtroppo, a quanto vedo, i padri stessi non hanno alcun interesse a farsi rispettare, quasi fosse deprecabile imporsi autorevolmente sui figli in certi momenti (e quindi alla fine sempre). La cosa buffa è che poi i giovani si attaccano come cozze a educatori e parenti che dimostrino la fermezza “paterna” che ai padri veri spesso manca. Per esperienza nel campo, vedo che però anche in ambiti educativi, la fermezza davanti a gesti di grave trasgressione è cosa rara. A me è capitato in ambito scout il caso di un ragazzo (fra l’altro a cui ero e sono molto affezionato) che aveva rotto il setto nasale ad un altro con una testata per una futile discussione. Alla proposta di allontanarlo per un certo tempo dal gruppo, giusta o sbagliata che fosse, ma col senno di poi ha funzionato, molti capi hanno reagito con vaghi richiami a provvedimenti astratti, proposte di “parlare ancora” al ragazzo in questione, o semplicemente dicendo che il provvedimento era sbagliato, ma senza proporre un’alternativa di alcun tipo; quasi che una violenza del genere potesse essere risolta a mo’ di (brutto) telefilm americano con una sentita chiacchierata. “Vedi figliuolo, quello che hai fatto è sbagliato… Anch’io in Vietnam mi trovai nella tua situazione, ma poi capiii che bla bla bla…”. Questo è anche il risultato della diffusione da rivista da sala d’aspetto della psicologia, che invece dovrebbe essere gestita esclusivamente dai professionisti, e da professionisti accuratamente formati.
@Nigoula, giusta osservazione la tua.
In effetti più che poco interessati per molti odierni padri, credo rientri perfettamente nel discorso il tema del “sacrifico” qui affrontato da Andreas.
Affrontare momenti difficili nell’educazione dei figli richiede accettazione del sacrificio. Richiede accettare di entrare nella sofferenza… La “famosa” sofferenza dei NO, delle decisioni difficili, a volte “dure”, ma necessarie, prese non per gusto punitivo, ma proprio educativo.
Decisioni che spesso producono sofferenza proprio in noi padri per primi, perché ci porranno in situazione di conflitto con i figli, che a loro volta ci vedranno come ostacolo alla supposta loro felicità da “signorino soddisfatto” di cui sopra.
A noi stessi resta difficile anche solo “mantenere il punto” quando pure sappiamo questo si rende necessario.
Insomma, molto più semplice la strada dei SI, del non-conflitto, del “poverino”…
Per non parlare poi dell’imperante attuale “guai chi mi tocca i figli”, per cui se il pargolo (ad esempio) torna a casa con una nota, subito scattano le rimostranze verso il professore…
Se i giovani oggi considerano i padri degli emeriti imbecilli è perché può valere il detto “la colpa dei padri ricade sui figli”.
Ho parlato sin qui di “padri” sia perché lo sono, sia perché credo sia precipuo compito dei padri quello di educare i figli al giusto rapporto con l’autorità, il concetto di autorevolezza e quello conseguente della responsabilità, che un domani dovrebbe essere il loro.
Non che le madri in questo non siano coinvolte, ma con altre “sfumature” (che non sto qui ora a descrivere) che rientrano nel più ampio discorso della complementarietà.
@ Nigoula
L’eclissi della figura del padre comporta la legittimazione di qualunque comportamento. Con il rifiuto del padre viene delegittimata la norma e, di conseguenza, la sanzione.
Sono d’accordo.
Ma la sanzione di per sé ha poco valore se a monte non viene riconosciuta l’autorevolezza e anche la giustezza di chi commina la sanzione.
In altre parole la presa di coscienza che la sanzione è cosa “buona e giusta”, ha un valore educativo e riparatorio (in parte) sulla colpa commessa. Si torna quindi alla necessità che il giovane, il figlio (di questo si parlava, ma vale ovviamente per ogni altra categoria umana…) riconosca l’errore, l’autorità, e la giusta sanzione (che saggezza vorrebbe fosse anche “adeguata” e commisurata alla colpa commessa).
Diversamente la sanzione verrà vissuta come ingiusta e seppure accettata e vissuta (obtorto collo), produrrà solo l’effetto contrario e non ingenererà alcuna volontà di cambiamento (e questo Nigoula si applica bene al caso concreto che descrivevi).
La sanzione, di nuovo, è diciamo così, l’ultimo anello di una catena e in un’ipotetica giusta prassi e passaggio educativo, sarebbe addirittura chi ha commesso la trasgressione a invocarla.
Naturalmente, all’interno di un gruppo (vedi caso illustrato), sociale o anche famigliare, la sanzione ha anche altre valenze e necessità (riaffermare il senso del vero, del giusto, di ciò che è lecito e ciò che non lo è, può essere riparatoria verso chi o cosa è stato danneggiato, ecc.), ma il discorso si allargherebbe e comunque anche qui, la sanzione è un colollario. L’affermazione di ciò che è buono e giusto, ciò che è lecito, va oltre la sanzione ed è affermato e deve essere affermato anche da chi non può comminare sanzione alcuna.
D’accordissimo anche su questo; vedi la mia risposta a Clockwork più sotto. Senza autorevolezza la sanzione è vuota imposizione. A monte deve starci la relazione, e questo non lo davo per scontato.
L’ha ribloggato su Luca Zacchi, energie rinnovate e rinnovabili.
L’atto procreativo paterno non si compie se l’impeto del seme/sperma non è accolto dal grembo/ovulo, al di fuori del quale la potente vitalità del seme è destinata a spossarsi e a morire in un battito di ciglia. Il seme coniugato con l’ovulo vive invece e vivifica, intraprendendo, ben oltre la fugace foga dell’istante, la fatica creativa del perdurare che non si dà alla fuga, che non è fugace come il seme che fugge dall’ovulo. La procreazione non si compie se il seme si dis-perde, si di-vaga, si dis-trae dall’ovulo: dispersione, svagatezza, distrazione che signoreggiano chi idolatra l’istante e sdegna la durata. Il culto dell’istante è dunque nefastamente anti-procreativo, e con ciò anti-paterno.
In un’epoca in cui si stenta a capire che la generazione non si esaurisce nella procreazione, ma invoca la faticosa durata dell’accompagnamento del figlio entro il genus (ossia, entro una comunità ordinata dotata di regole che è faticoso ma necessario praticare ed assimilare), non meraviglia che si perda di vista il fatto che la procreazione paterna è impossibile se l’apporto del seme si sot-trae alla vocazione della durata e si consegna al mortifero exploit dell’istante. Non meraviglia neppure dunque che, una volta ripudiato il compito generativo col divaricarlo da quello procreativo, il maschio giunga a ripudiare la procreazione stessa (e così – ahimè – a dare la morte al frutto stesso dell’atto procreativo).
A entrambe le ripulse sottende, mi pare, la medesima ripulsa per la durata segnata dalla fatica, dal sacrificio, dalla rinuncia, dall’ascesi, dall’abnegazione, dal differimento progettuale del piacere, di cui parla splendidamente Andreas in questo post illuminante per il quale lo ringrazio.
Grande anche tu, Alessandro!
Grazie Lalla, troppo buona, mi fa piacere che t’abbia interessato il mio commento!
Le “pippe” mentali fanno crescere le occhiaie ai poveri fagioli, che finalmente, nel rumore, vaneggiano di eterea illusione. Il fine assunto di cogliere la smorfia di una narice ottenebrata, ricorda la primavera sottesa.
LIRReverendo
Troppo importante questo post ai miei occhi per passarci sopra velocemente. Sarebbe un po’ come profanarlo. Torno più tardi sperando che non sia domani… Intanto grazie, Andreas e Admin! Smack! 😀
Analisi molto ben condotta, scritta molto bene, complimenti!
Tuttavia, mi ritorvo solo a dover rigettare la parte (ciò comunque non riguarda Andreas, quanto il professor Zoja!) che bistratta miti e letterature e ne fa vessilli da sbandierare come sostegni della sua tesi.
@Nigoula: io ti riporto la mia esperienza di acierrino, per quanto confrontare le due esperienze sia comunque inutile, visto che si parla di due ambienti completamente diversi.
Spesso, parlando con i genitori dei miei ragazzi, ho notato che questi criticano i loro ragazzi, ma quando siamo noi a far presente che il ragazzo non si è comportato in maniera corretta, sono i primi a scusarlo e a difenderlo.
Nella mia comunità, inoltre, ho visto che spesso i padri sono quelli che dicono di “sì”, le madri sono quelle che dicono di “no”: quando il bambino dunque vuole qualcosa sa perfettamente a chi rivolgersi per averla.
Detto questo perciò, e rivedendo la mia esperienza come animato, penso che molte volte, più che la pena, sia la vergogna per la pena che dissuade il bambino dal fare qualcosa: un ragazzo, nell’ambito della comunità, ha molta più paura di essere escluso dal gruppo di amici piuttosto che di ricevere una qualche sanzione dall’educatore.
Per questo motivo, e perchè sono fondamentalmente anche io un bonaccione, credo fermamente nel valore delle chiaccherate, anche se effettivamente, nella tua situazione, anch’io avrei votato probabilmente a favore dell’allontanamento temporaneo del ragazzo.
@Clockwork D’accordissimo sul valore delle chiacchierate, io ho sempre parlato molto con i miei ragazzi. Diciamo che quella è una base necessaria su cui, quando si è costretti, innestare provvedimenti disciplinari anche duri. Il dialogo rende autorevole l’eventuale punizione, che altrimenti sarebbe vissuta come imposizione autoritaria, e appena si ha una posizione di minima forza,”sfanculata”, scusa il termine, senza complimenti (quanti genitori si vedono beccarsi botte di vaffa da figli adolescenti, ma a volte già dai bambini, senza fare una piega).
Non lo dico per tirarmela, ché sono pieno di difetti e peccati fino ai capelli, ma il fatto che raccontavo è successo ormai 5/6 anni fa… beh, una decina di giorni fa ho incontrato sul bus il suddetto ragazzo, il quale, dopo una affettuosa chiacchierata mi ha salutato dicendomi: “fatti abbracciare” e buttandomi le braccia al collo… E non più di una settimana fa un’altro mio ragazzo che ora è capo dov’ero io mi ha chiamato per una consulenza su un’attività che sta facendo coi suoi scout.
E all’epoca c’era gente che mi diceva che se facevo troppo il duro coi ragazzi me li sarei persi per strada…
Caro orologiaio, sperare che sia la vergogna, il senso del pudore, a frenare gli istinti o i desideri, è una bella cazzata. Se un branco di animali mette gli occhi sopra una ragazzina, credi che sia una bella chiacchierata a fermarli? Alla radice di questi fatti, all’origine di una violenza irresponsabile, c’è l’assenza del padre con le sue norme e le relative sanzioni.
Non ci scordiamo che “la legge” non ha mai salvato e non salva nessuno (non lo dico io ma la Scrittura – se poi la vogliamo mettere in discussione è altro discorso…).
Figura del padre, norme e anche sanzioni (già detto sopra…) mirano ad una solo risultato, la conversione, o più prosaicamente alla maturazione dell’individuo nel suo valore più alto e più “umano”.
La presa di coscienza di ciò che è vero e buono, termina con la capacità di “autoregolamentare” la propia vita e la propria coscienza, per portare a reale compimento la Legge che è quella dell’Amore.
Il discorso potrà sembrare utopico (allora il Vangelo è un’utopia), ma è in questa unica prospettiva che leggi, norme e sanzioni possono trovare il senso cristiano dell’edicare.
Scusate se torno su questi concetti, ma se anche norme, leggi e sanzioni sono necessarie in qualunque società civile, vediamo come queste, senza un precisa etica di base, producono esse stesse leggi, norme e sanzioni a volte profondamente ingiuste.
Bariom, stiamo parlando dell’eclissi della figura paterna nella nostra civiltà, e della conseguente relativizzazione, evanescenza, riduzione ad opinione della norma; nonchè della diminuzione, cancellazione, mostrificazione della sanzione, sempre in conseguenza della distruzione della figura paterna.
Qui il problema non è la norma (“la legge”) o la sanzione; il problema è la distruzione ddella figura del padre che, per sua natura, è normatore e sanzionatore. Il raragazzino che spacca il setto nasale ad un amico con una testata, o che, in branco, violenta una ragazzina indifesa, è figlio di un maschio che non ha fatto il padre, cioè non ha dato regole e, tantomeno, sanzioni al figlio.
E di fatto di questo si parlava… (mi pare di essere stato propiro il primo a commentare in tal senso)
Ma visto che un tuo intervento “L’eclissi della figura del padre comporta la legittimazione di qualunque comportamento. Con il rifiuto del padre viene delegittimata la norma e, di conseguenza, la sanzione” poneva l’accento in conclusione, su norme e sanzioni, su questo ho portato il mio commento.
Mi è concesso?
Le norme e le sanzioni non sono solo “necessarie in una società civile”: attengono alla morale e costituiscono il cuore di una civiltà. Come le madri mettono l’utero, per dare corpo all’umanità nascente, così i padri pongono la norma e la sanzione, per aiutare a crescere questa umanità. La norma, seguita dal premio o dalla sanzione, è il compito fondamentale ed imprescindibile di un padre. Un uomo che non dà regole e sanzioni ai propri figli, non è un padre; è solo un maschio.
Questione di punti di vista.
Cmq questa discussione si sta avvitando temo su se stessa, quindi lascio.
“Verso una società senza padre” mi pare sia un saggio degli anni settanta, oggi sembrerebbe il momento di discettare su cosa c’è “oltre” una società che, partendo con l’abbattere l’autoritarismo, ha sgretolato qualunque principio di autorità: quella dello stato, dell’insegnante, del governante (bisogna ammettere che in questo caso i diretti interessati ce l’hanno messa tutta ad autoscreditarsi). Eppure autorità è ciò che fa crescere, etimologicamente. Quindi, senza autorità si rimane incompiuti ed incompleti, sia sul piano personale che su quello sociale. E incapaci di futuro. C’è un’interessante analisi di C. Rise’ che già nel 2002 diceva: “il mondo occidentale, attraverso un lungo processo, terminato negli ultimi decenni, ha infatti letteralmente espulso di casa il padre, e così, contemporaneamente, “fatto fuori” la famiglia. ”
http://www.claudio-rise.it/editoriali/occidente.htm
cosa c’e’ oltre?
C’e’ il controllo dell’individuo ormai isolato.
Come previsto da Huxley nel mondo nuovo.
E’ un processo che parte comunque da lontano, oggi lo si imputa all’edonismo berlusconiano, ma gia’ Carosello preparava il terreno.
Anche se le radici van cercate in Cartesio…
Direi che come analisi è molto lucida e realista. Questa è per ora la realtà dei fatti e se non cambiamo qualcosa la situazione difficilmente può migliorare. Però, dato che siamo forniti di mani per fare, di voce per parlare e di cuore per rivolgerci a Dio… mettiamoci al lavoro, come sappiamo e come possiamo, sì, ma comportiamoci da sapienti e da cristiani.
Grazie Andreas! Divulgo il tutto in attesa della seconda parte. Smack! 😀
Pingback: Il principio pazienza – parte 2 | Il blog di Costanza Miriano
Ringrazio di cuore tutti per le belle parole e gli attestati di stima, che ricambio a mia volta. È un post “incubato” a lungo e sono contento che abbia potuto stimolare e spingere alla riflessione su un tema che, comunque la si pensi, è davvero di capitale importanza.