Chi non ama la vita, non ha pazienza con essa.
(Romano Guardini)
La fatica per vivere
Si arreca un danno incommensurabile alle nuove generazioni evitando di scomodarle con la verità, nota fin dai tempi antichi, che la vita è anche certamen: lotta, contesa, perciò inscindibile dalle nozioni di sforzo e impegno. La fatica è necessaria, rammenta ancora una volta Ortega y Gasset. Occorre sforzarsi per vivere: «La fatica di un organo sembra a prima vista un male che questo soffre. Pensiamo forse che in una condizione ideale di salute non esisterebbe la fatica. Ciononostante, la fisiologia ha notato che senza un minimo di fatica l’organo si atrofizza. C’è bisogno che la funzione sia eccitata, che lavori e si stanchi perché possa nutrirsi. È necessario che l’organo riceva di frequente piccole ferite che lo mantengono all’erta. Queste piccole ferite sono state chiamate «stimoli funzionali»; senza di esse, l’organismo non funziona, non vive». (J. Ortega y Gasset, Spagna invertebrata, in Scritti politici, Utet, 1979, p. 525).
Stralciare dall’esistenza il minimum inevitabile di fatica rischia di far inabissare un’altra antica certezza del senso comune: la consapevolezza che la società è sintesi di “ordine costruito” (taxis) e “ordine spontaneo” (cosmos). Delicato equilibrio tra istanze della cultura e della natura, la societas è anche – forse principalmente – “costruzione” sociale, non “sottrazione”. Esige un lento e paziente lavoro di edificazione e conservazione.
Come tale, ogni “costruzione sociale” richiede cura e responsabilità. E va soggetta, onde scongiurarne il collasso, a regolare e periodica manutenzione.
Responsabilità e “rischio d’impresa”
Responsabilità e impegno. Vi sono parole più aliene alle orecchie del neo-barbaro contemporaneo?
Il senso etimologico come sempre è chiarificatore. Una possibile etimologia della parola “responsabilità” fa riferimento all’idea di impegno e promessa contenuta nel verbo latino spondeo, da cui re-spondeo. Spondeo compariva nella formula degli sponsalia – la promessa matrimoniale che nella Roma antica precedeva le nozze – con cui il padre si impegnava con lo sposo (sponsus) dandogli in sposa la figlia (sponsa). Lo sponsus, a sua volta, rispondeva (respondeo) all’impegno paterno con una promessa solenne (sponsum).
Non si dà quindi responsabilità senza amore. Essere responsabili è sapersi vincolati alle cose della vita da legami analoghi a quelli che stringono lo sposo alla sposa. Tanto che “impegnato” si dice di chi, disposto a “mettere in pegno se stesso”, sa farsi testimonio e offrirsi come “cauzione” per la persona amata.
Amare, quindi, comporta il rischiare. Del resto, come sa bene ciascun costruttore, ogni “impresa” ha un rischio. Chi vorrà amare dovrà sottoscrivere la rinuncia a comode assicurazioni sulla vita affettiva, dovrà esporsi al rovinoso rischio della ferita. All’amante è preclusa l’invulnerabilità. In questo mondo, ha scritto C. S. Lewis, «non esiste investimento sicuro: amare significa, in ogni caso, essere vulnerabili». Il “signorino soddisfatto” è irresponsabile verso la civiltà perché, di fatto, ignora le implicazioni di un amore fattivo e reale, il solo in grado di generare prima e di conservare poi.
Idolatria della tecnica e consumo irresponsabile: la lega anti-persona
Le società umane si sviluppano intorno a un intreccio di cultura, civiltà e tecnica. La cultura di un’epoca è rappresentata dal suo patrimonio morale e spirituale. La civiltà è, viceversa, il progresso materiale di una società: la traduzione visibile, tangibile, del proprio capitale di valori immateriali. In questo senso, come avanzamento nei valori solo materiali, non si distingue molto dalla tecnica, intesa quest’ultima come insieme di regole per organizzare in maniera più efficiente il progredire della potenza “produttiva” della civiltà.
Il neo-barbaro è indifferente alle sorti della società che lo ospita perché nessuno gli ha insegnato ad amare la cultura, la forma spirituale, il principio ispiratore che l’ha generata. Scartata la cultura, la sua attenzione si volge allora alla civiltà sotto forma di tecnica. E il motivo di questo interesse non è difficile da comprendere. Essere responsabili significa, come si è detto, essere disposti a pagare in prima persona, ad assumere su di sé, per amore, le conseguenze dei propri atti. La deresponsabilizzazione porta, all’opposto, alla pretesa di agire senza “ricadute”, estrema dissociazione tra pensiero e realtà. Per questo la tecnica assume le vesti di deus ex machina. Fruendone si pensa, illudendosi, di poter eliminare le conseguenze – forse indesiderate, ma non per questo meno reali – dei propri atti.
Si capisce agevolmente perché questo tipo umano sia tra i più accaniti sostenitori del “diritto d’aborto”. Da abitante di un artificioso mondo di fantasia che non conosce doveri, obblighi e responsabilità, rivendica con arroganza il consumo immediato delle proprie pulsioni.
Inutile dire che, qualora dovesse malauguratamente fallire la tecnica contraccettiva, per le “conseguenze” è pronta e a portata di mano un’altra soluzione “tecnica”. Non ci sono inappellabili realtà né date irrevocabili nel mondo di sogno dell’eterno adolescente. La palude dell’irrealtà, nella quale ogni termine è sempre il penultimo, non conosce scadenze rigide che possano inderogabilmente mettere di fronte alle proprie responsabilità. In linea teorica ogni linea o scadenza va considerata come infinitamente modulabile. Ogni chiamata può essere spostata in avanti, purché ciò sia tecnicamente possibile, verso un indefinito futuro privo di “sol dell’avvenire”.
Ecco allora entrare in gioco l’opzione dell’aborto – altra tecnica medica graziosamente concessa in guisa di salvacondotto dal premuroso stato-mamma ai capricci dell’”erede” – che contribuisce a dilazionare ulteriormente i termini del “pagamento di pegno”.
L’irrealismo mostra così il suo volto antiumano. Il “principio-persona”, infatti, è strettamente ancorato al principio di realtà. Si diviene persona non in virtù di un processo, ma in forza di un evento o di un atto immediato (1). La persona non è astrazione né prodotto di fantasia. La persona c’è o non c’è. È semmai la personalità ad essere acquisita in modo processuale, attraverso l’agire umano e l’esperienza. Aver legato il principio-persona al principio di piacere, perno di ogni “dittatura del desiderio”, ha consegnato anche la vita umana ai processi consumistici e ai capricci sempre mutevoli dell’apparenza.
L’abisso della spersonalizzazione
Succube dell’opinione à la page, incapace di pensiero autonomo, marchio di una personalità adulta, questo eterno immaturo che è l’uomo-massa si rivela incapace di resistere alla forza dei grandi poteri collettivi. Da qui consegue, insiste Ortega, «che mai come nel nostro tempo queste vite senza peso e senza radici – déracinées dal loro destino – si lasciano travolgere dalla più lieve corrente. La nostra è l’epoca delle “correnti”, del “lasciarsi trascinare”».
L’uomo-massa è così attaccato alle mammelle dello Stato-Provvidenza perché «costui vede lo Stato, lo ammira, sa che c’è, perché gli assicura la vita; ma non ha coscienza che è una creazione umana, sostenuta da determinate virtù, da determinati presupposti che ieri vissero nel cuore degli uomini e che domani potrebbero svanire. D’altra parte l’uomo-massa vede nello Stato un potere anonimo, e sente anche se stesso come anonimo – volgo -, e crede che lo Stato gli appartenga. Immaginiamo che nella vita pubblica di un paese qualsiasi nasca una difficoltà, un conflitto o un problema: l’uomo-massa pretenderà che immediatamente se lo assuma lo Stato, che s’incarichi di risolverlo coi suoi giganteschi e invincibili mezzi. Questo è il maggior pericolo che oggi minaccia la civiltà: la statificazione della vita, l’interventismo dello Stato, il suo assorbimento di ogni spontaneità sociale, ossia l’assorbimento della spontaneità storica che, in definitiva, sostiene, nutre, vivifica il destino degli uomini».
Il neo-barbaro non solo è facile preda degli slogan di quelle “macchine per produrre un pensiero collettivo” che sono le ideologie ma, con altrettanta facilità, è incorporato nei meccanismi delle “macchine sociali”: organismi collettivi, macrorganismi artificiali d’ogni risma e specie (stato, organismi sovranazionali, anonime concentrazioni di potere, potentati economico-finanziari, e via dicendo) in seno ai quali funge alla stregua di semplice ingranaggio del “dispositivo sociale”.
Il “principio pazienza”, ovvero come sopportare per supportare la vita
Arginare la marea montante della “schiavitù senza padroni” è possibile solo a patto di lasciarsi alle spalle l’homo eroticus per ridare spazio all’homo patiens.
La pazienza, ha scritto quel grande educatore di generazioni che è stato Romano Guardini, è una virtù poco allettante, noiosa e faticosa. Eppure essa è essenziale, liberante, essendo quella «che rende possibile un agire effettuale». La pazienza nulla ha della mollezza come la moderazione niente deve alla mediocrità. Reclama anzi forza, molta forza. Senza la forza, la pazienza si riduce a pura passività, a servile subordinazione, a routine “reificata”.
Ma perché si dia autentica pazienza occorre, prima di tutto, amore per la vita. L’homo patiens, in senso etimologico “colui che sopporta”, è un vero supporter “pro-life”. Poiché il ritmo di crescita della vita umana è l’esito di un lento e graduale processo gli uomini, come gli organismi viventi, crescono e maturano adagio, con lentezza. Le cose della vita perciò, dice Guardini, necessitano di fiducia per poter maturare.
L’homo patiens è un custode della vita che diviene. È colui che per amare e proteggere la vita crescente deve dotarsi della forza necessaria a reggere il páthos. Aver pazienza è prendersi cura del divenire alla maniera del contadino sollecito per il germoglio. È voler reggere la tensione tanto misteriosa quanto delicata tra l’atto e la potenza, tra ciò che l’uomo attualmente è e ciò che potrebbe essere, tra ciò che riesce a fare e quel che vorrebbe fare.
Deve, l’homo patiens, farsi imitatore del padrone del campo descritto nella parabola evangelica (Mt 13, 24 ss.) e sapere all’occorrenza respingere la tentazione di sradicare prima del tempo la gramigna che ha proliferato ovunque. Perché il Dio biblico non è solo creatore ma è anche reggente che tiene il mondo e lo porta senza disfarsene, pur non avendone necessità. «La pazienza – scrive a giusto titolo Guardini – è la condizione della crescita del grano» giacché «la materia della realtà non cede né all’entusiasmo, né all’eroismo, ma solo allo sforzo perseverante, continuo e sempre rinnovato della pazienza».
La via patientiae è stata di recente additata, con la consueta potenza evocativa, anche da papa Francesco. Solo il principio pazienza può far «maturare la nostra vita», ha detto il pontefice, a sua volta attento a ricordare come pazienza e prudenza non vadano scambiate per rassegnazione o, peggio, confuse con l’ignavia.
Il capriccio e la fretta di avere tutto subito sono le tentazioni di un’anima che vuol scimmiottare l’onnipotenza divina. Ai farisei che chiedevano prodigi e segni immediati Cristo risponde infatti da “adulto”, con la “pazienza di Dio”. Fedele all’esempio del proprio Maestro, la Chiesa ha sempre diffidato degli eccessi dell’estremismo parolaio, ha costantemente condannato il falso martirio predicato – e praticato – da conventicole di esaltati e provocatori.
Non va dato credito ai banditori dell’impazienza, del capriccio e dell’onnipotenza. Coloro che vogliono fare della persona umana niente altro che un homo zoologicus, un fascio d’istinti agito da pulsioni frenetiche, sono solo le avanguardie di una nuova tirannia.
(1) Su questo aspetto è sempre preziosa la lezione di Vittorio Possenti, Il nuovo principio persona, Armando, Roma 2013.
(parte 1)
Pingback: Il principio pazienza – parte 1 | Il blog di Costanza Miriano
L’ha ribloggato su Luca Zacchi, energie rinnovate e rinnovabili.
Che dire? Un grande affresco. Una bella e condivisibile riflessione sulla nostra civiltà in piena decadenza. Gli spunti sono tanti. A me ha colpito, in particolar modo, il riferimento al “reale”, cioè alla realtà oggettiva delle cose, base e fondamento di ogni norma.
Il neo-barbaro fugge la fatica, l’impegno, la responsabilità. Di conseguenza non ama la società che lo ospita, a cui guarda come ad un mondo incomprensibile; né conosce “la cultura, la forma spirituale, il principio ispiratore che l’ha generata”. L’unico suo criterio per muoversi nella società è l’istinto, accompagnato dal furioso rifiuto a guardare al senso delle cose, alla ragionevolezza della realtà, al significato della vita. Unica sua preoccupazione è il soddisfacimento delle pulsioni a tutti i costi. Unica sua norma il piacere.
Non sarà facile uscire da questo pantano. O forse si. Forse basterà aspettare che i neo-barbari si estinguano. E a noi non resterà che porre le basi per una nuova, grandiosa civiltà: la civiltà dell’amore. Civiltà che dovrà necessariamente poggiare sulle virtù tipicamente paterne che oggi si vuole negare a tutti i costi negare: la ragione, capace di scorgere il senso e la verità delle cose; e la forza, cioè una volontà capace di sostenere la ragione.
La realtà è la grande assente, l’oste senza il quale fanno i conti tante brave persone ideologizzate fino alle doppie punte dei capelli.
Stamattina per esempio leggevo che una signora della CGIL Basilicata avversa una proposta regionale di provare a dare, tramite i CAV, un sussidio a donne che pensano all’aborto per difficoltà economiche.
La signora è contraria perché «Del supporto alle donne in difficoltà, del Welfare sempre più carente, del sostegno reale alle famiglie e ai bambini dovrebbero farsi carico le istituzioni, non i centri religiosi».
(http://www.tempi.it/la-basilicata-vuole-aiutare-le-donne-che-rinunciano-all-aborto-la-cgil-vergognoso-attacco-alla-194)
E io pensavo: se per esempio quella signora si trovasse in un pericolo grave e immediato (auto che sta per cadere nel fiume, sentiero di montagna che sta per franare a valle, valanga in arrivo) e la sola persona a portata di mano per tirarnela fuori fosse un prete (una suora, un bonzo, un pastore, un rabbino o un ulema), che farebbe la signora? Afferrerebbe la mano protesa o chiederebbe l’intervento immediato dei VV.FF.?
Ma no Viviana, suvvia… aspetterebbe un sindacalista!! 😀 😀
ah aha ah (sganascamento…)
A questo proposito posto questo video…
http://youtu.be/Xwt7l0i4MFQ
Spero Andreas non me ne voglia, inserito tra i commenti di un tal articolo… (le persone intelligenti hanno sempre anche il giusto – e necessario – “sense of humor”) 😉
Ci mancherebbe, sull’humor con me sfondi una porta aperta… 😉
😉 😀
Trovo l’intero intervento di Andreas davvero splendido! Sottoscriverei tutto anche come insegnante, dal momento che anche a scuola, nei ragazzi e nell’atteggiamento dei loro genitori vedo quotidianamente in atto le dinamiche descritte da Andreas. E sempre trovo conferma, nella riconoscenza affettuosa dei ragazzi, del fatto che laddove essi trovino un adulto che con autorevolezza, pazienza, fiducia in loro e severità, indichi loro la via alta del sacrificio, della fatica e della responsabilità, sono pronti a rispondere con entusiasmo: i nostri figli sono capaci di misure alte, sta a noi aiutarli a raggiungerle, sostenendoli contro la barbarie moderna.
Grazie anche a Sara, Giancarlo, Viviana e, di nuovo, Bariom. Sono pienamente d’accordo con Sara: i giovani hanno una sete ardente di adulti disposti a dare loro una fiducia carica di esigenze. Mi viene in mente un passo del mio amato Thibon che descrive molto bene l’atteggiamento che permette di forgiare in modo sano anime e caratteri: http://filiaecclesiae.wordpress.com/2012/03/10/come-si-foggiano-le-anime/
Grazie a te, Andreas, che Thibon me lo hai fatto scoprire 😀
Andreas e Viviana: viva la thibonite! 😉
Sono sempre di corsa in questi giorni ma sono riuscita a leggere e rileggere entrambi questi post. Ne valeva la pena e ancora li rileggerò, Anche io son d’accordo con Sara. Aggiungo che molte volte siamo noi adulti a mancare gravemente nei confronti dei giovani, etichettandoli e tagliando loro le gambe, mancando di fiduia, sì, ma anche con esempi di vita pratica e quotidiana che non li stimolano a vivere da figli di Dio. Se non hanno un punto di riferimento al quale suggerirsi, difficilmente saranno capaci di vedere Dio come Padre.
Applausi a scena aperta per Andreas, come sempre. Sopportare la ferita con la forza che deriva dalla responsabilità: qui c’è tutto.