(ovvero il senso della vita e le sue conseguenze spiegato ai miei figli)
«…un vago chiarore entrò nel barile, e alzando gli occhi io vidi che la lunasi era levata e stava inargentando la cima dell’albero di mezzana e illuminando il biancore della vela prodiera. Quasi nel medesimo istante la voce della vedetta gridò: “Terra!”».
(R. L. Stevenson, L’isola del tesoro)
di Matteo Donadoni
Al quarto “perché?” consecutivo rivoltomi da mio figlio Giorgio durante una partita a scacchi, il mio amico Francesco lì presente, guardandomi con aria compassionevole, dice: “Io non ce la farei. Già al secondo “perché?” avrei fatto una sclerata”.
Nonostante nessuna delle quattro domande riguardasse la partita, si può facilmente evincere che non ha ancora generato figli, il mio amico. Ma qui non si tratta di fare una riflessione sulle modalità più adatte per affrontare quella che gli esperti definiscono “fase dei perché” dei bambini (in genere, se sto scrivendo o leggendo, io, alzato l’indice, intimo: “alt! Conta fino a 10, in greco, poi ti ascolto”. In genere funziona).
Ma – che Platone mi perdoni per quanto sto per scrivere! –, si tratta proprio del significato di quella domanda. Ovviamente è difficile conferire chiarezza espositiva alle risposte a certe domande, perché tutta la verità intera sarà a noi nota solo al termine del grande viaggio, troppo tardi: «Uomo morto non morde, soleva dire [Billy Bones], bè lui stesso è morto, ora; e conosce il poco e il molto, ora».
In genere i bambini, prima del compimento dell’ottavo anno d’età, si pongono tutte le domande metafisiche di base, perché l’essere umano è spirituale, perché nel suo cuore sa di non essersi generato da solo, perché nella sete di sapere trova inconsciamente la via che lo condurrà all’amore che lo fa esistere. Tuttavia la domanda più importante e che primariamente dovremmo porci, prima di studiare la matematica, prima di sapere cosa sia la letteratura, prima di sapere se per navigare serva un sestante, un giunto cardanico o un giroscopio, infatti è: la vita ha un senso? Sì o no? La domanda metafisica fondamentale consiste nel chiedersi se l’esistenza (singolare ed universale) abbia senso o meno. Senza aver previamente risposto a questa fatale questione, tutto il nostro affannarci in mille quotidiane, faticose attività è solo un modo di stordirci per non pensare che un giorno, anche noi, come tutti i nati di donna, moriremo. E la seconda questione fondamentale conseguentemente dipendente dalla prima è: e qual è il senso della vita? Ovvero, quale il suo scopo? Pertanto, altrettanto conseguentemente, senza un’adeguata riflessione sul tema, e, soprattutto, se non riusciamo formulare una risposta esaustiva, corriamo il rischio di ridurre l’intera nostra esistenza ad un monotono beccheggio o, se va bene, ad un sogno malinconico di ciò che avrebbe potuto essere, intravisto nel fumo di una pipa. Perciò, potete pure posare il libro e la cazzuola e versarvi un rum – un grog per i minori.
Tutto il nostro esistere, le nostre scelte, la nostra felicità (o infelicità), dipendono inesorabilmente dalla risposta a queste banali ed immense domande, le domande grandi dei bambini: estremamente serie per i piccoli, estremamente sciocche per gli sciocchi. Perché spesso dietro ad apparenti bazzecole, come dice chi se ne intende (vero Teggi?), si cela sorprendente una “verità tremendamente gigante”. «Io ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, che hai nascosto queste cose ai dotti e ai sapienti e le hai rivelate ai piccoli» (Lc 10,21).
Queste risposte, se sono frutto d’onestà intellettuale e d’ispirazione divina, sono la verità (disponibile), com’è scritto: «Le cose che occhio non vide, e che orecchio non udì, e che mai salirono nel cuore dell’uomo, sono quelle che Dio ha preparate per coloro che lo amano. A noi Dio le ha rivelate per mezzo dello Spirito, perché lo Spirito scruta ogni cosa, anche le profondità di Dio» (ICorinti 9-10). Questa verità è accessibile a tutti senza distinzione e (meglio tramite un’allegra semplicità ed la preghiera costante) a volte la possiamo udire infondo a un barile (quasi vuoto) di mele, come accadde sull’Hispaniola nel vago chiarore della luna, al giovane Jim Hawkins; o la sentiamo nelle narici e nel cuore in un tino di mosto, come un aroma dolce e pungente, come accadde al sottoscritto; oppure semplicemente la scopriamo (o meglio essa si rivela a noi) guardando da una finestra, mentre un’accozzaglia di nani canori ci insozzano la sala da pranzo, come capitò invece allo zio Bilbo – simbolo letterario di quanto di genuino, o di hobbit, è rimasto in ciascuno di noi. Accade così, come una rivelazione, con la spontanea semplicità d’un moto dell’anima: ad un tratto tutto appare chiaro, tutto riflette un disegno, tutto è gioia.
I grandi scrittori ne hanno conosciuto bene l’effetto, e lo hanno voluto comunicare a chi sa cosa leggere, gratuitamente, come un dono natalizio, una sorpresa per un figlio. Ed il dono che qui condivido è da parte di J. R. R. Tolkien, per mezzo di uno stratosferico Edoardo Rialti, che scrive così: “Lo Hobbit inizia con un piccolo uomo soddisfatto della rotonda comodità della sua piccola vita, finché degli stranieri misteriosi, nani bizzarri come pirati di terre lontane, si mettono a cantare il loro esilio e «mentre cantavano lo hobbit sentì vibrare in sé… il desiderio dei cuori dei nani. Allora qualcosa che veniva dai Tuc si risvegliò in lui, e desiderò di andare a vedere le grandi montagne, udire i pini e le cascate, esplorare le grotte e impugnare la spada al posto del bastone da passeggio»”; e poi accadde, sintetizzato in una di quelle frasi semplici che mostrano tutta la potenza della prosa di Tolkien: «Guardò fuori dalla finestra» – così Bilbo Baggins meditava la verità in cuor suo. Come avevano già capito gli antichi Greci, con il loro immortale cantore, l’aedo Omero, la vita è un’Odissea, un nostos, un grande viaggio, e un ritorno a casa: in compagnia di una ciurma di pirati o di un manipolo di eroi, essa è un’avventura straordinaria in cui un piccolo uomo si scopre capace di osare, si scopre innamorato di cose grandi.
Osare, sospirare ed incamminarsi, giocare la vita per grandi ideali. Perché, tornando a Stevenson, «se un ragazzo non è in grado di imparare qualcosa dalla strada, non è in grado di imparare nulla» (La filosofia dell’ombrello). Ma il grande menestrello di Bloemfontein e dell’intero modo contemporaneo ha saputo esplicitare ed argomentare con cattolica sapienza la convinzione, che fu già di G. K. Chesterton, per il quale il dovere primario della vita è la gratitudine per il fatto di esserci, rispondendo alla lettera di una ragazza che gli aveva chiesto aiuto per svolgere un compito in classe (dal titolo proprio Quale è lo scopo della vita?): «lo scopo principale della nostra vita, per ciascuno di noi, è quello di aumentare, in base alla nostra capacità, la nostra conoscenza di Dio con tutti i mezzi che abbiamo a disposizione e grazie a questa conoscenza esprimere lodi e ringraziamenti. Fare come diciamo nel Gloria in Excelsis: Laudamus te, benedicimus te, adoramus te, glorificamus te, gratias agimus tibi propter magnam gloriam tuam». In fondo, è la trasposizione in forma letteraria del passo del Catechismo di san Pio X: «Dio ci ha creati per conoscerlo, amarlo e servirlo in questa vita, e per goderlo poi nell’altra, in paradiso». In questo modo saremo felici. E «non c’è dovere che sottovalutiamo di più al mondo del dovere di essere felici» (R. L. Stevenson, La filosofia dell’ombrello).
Non voglio dire che sarà facile, né che non sarà doloroso, ma, come disse una volta il saggio Gandalf: «Non vi dirò non piangete, perché non tutte le lacrime sono un male». Vi dirò, però, rigettate il nichilismo con il suo puzzo, l’insopportabile peso e la desolante vacuità, e anche se doveste imbattervi in una tale burrasca da veder cavalloni sfoltire gli scogli, o il vento pungente strigliare tutti i cavalli di Rohan, bene, intraprendete il vostro viaggio! come Ulisse ed Enea, come il giovane Jim Hawkins, come Bilbo Baggins e suo nipote Frodo, e Samwise Gamgee che origliò, e tutti gli altri: farlo comporta coraggio e fede, fede nel ritorno, fiducia nella vita, fede nell’Altissimo, speranza e gioia piena, e ricompensa eterna. Forse non scaverete con una vanga per il tesoro del Capitano J. Flint, e nemmeno sfiderete lo sguardo terribile del drago Smaug, ma cercate il vostro tesoro, in un forziere o «in vasi di creta, perché appaia che questa potenza straordinaria viene da Dio e non da noi» (2Corinzi 4:7), portate a termine il compito affidatovi e riposto da Dio stesso là dove il palpito del vostro cuore trae la propria forza vitale. Perché vale sempre la pena di prendere il mare su un bastimento o di partire di corsa su un pony piccolo piccolo, fiduciosi come bambini, anche senza portarsi il fazzoletto, anche se, infine, nove o dieci pollici di un pugnale lordo di sangue costituissero la vostra ultima esperienza da questo lato dell’eternità.
L’ha ribloggato su Luca Zacchi, energie rinnovate e rinnovabilie ha commentato:
Anche Sara è nella fase dei perchè, dall’alto dei suoi otto anni e quasi cinque mesi…
Sono fantastici! Giorgio ne ha 7 e mezzo
balsamo per il cuore -però il romanzo è “L’isola del tesoro” 😉
uh! che stordito che sono… urge correggere, admin.. grazie!
Eccomi qua… sono proprio quel Francesco… quello che “avrebbe fatto una sclerata al secondo “perchè?” di Giorgio. Leggo spesso in anteprima gli articoli del mio amico Matteo e, questa volta, sappiate che l’ho ripreso!!! doveva proprio metterci la “sclerata”??! Beh si, effettivamente ho proprio detto così… però avrebbe potuto sostituirlo con un termine un pò più elegante, seppur, in fin dei conti, sono rimasto lusingato dalla citazione!
Questo è il genere di riflessioni che mi porta in paradiso. E che mi riempiono il cuore di coraggio per andare avanti. Perché si, io ho intrapreso il mio viaggio un giorno, senza sapere se sarei riuscito ad attraversare il mare. Del resto neanche oggi so se prima o poi riuscirò a fare ritorno a Casa mia, ma spero. E’ la speranza che spinge un uomo a partire. Senza la speranza si muore dove si è nati. Ma se uno accoglie la speranza, presto si gonfiano le vele e con coraggio misto a gioia si affronta il mare della vita. E’ vero, ci vuole coraggio per partire, “come Ulisse ed Enea, come il giovane Jim Hawkins, come Bilbo Baggins e suo nipote Frodo, e Samwise Gamgee che origliò, e tutti gli altri”: come loro, anch’io ho osato, anch’io sono partito un giorno e sono in alto mare ora. Ma felice di una gioia fatta di grandi attese e di promesse antiche mai scordate.
Come il giorno in cui son partito, incredibilmente, ancora oggi il mio cuore è colmo di speranza; e scopro un coraggio che sarebbe follia, ed un desiderio “di andare a vedere le grandi montagne, udire i pini e le cascate, esplorare le grotte e impugnare la spada al posto del bastone da passeggio”. Oh si! Questa è la vita come la intendo io: scorgere, tra un giro al supermercato ed il rientro a casa, dopo un turno di servizio, grandi montagne e fragorose cascate e l’odore dei pini e… un bastone che diventa una spada.
Quant’è bella la vita.
E’ effettivamente come anche tu ben descrivi Giancarlo… un fantastico viaggio! FANTASTICO!! 😉
S’intende, non fantastico perché “di fantasia” o “fantasioso”… puntualizzazione pro Alvise 😉
Giancarlo 😀 😀 😀
Se la vita ci abbia un senso (per voi senso unico!) o no, è una domanda priva di senso!
Fermo restando che ognuno può inventarsi il senso che vole.
I bambini piccini già capiscono questo, quando chiedono, per esempio, ai babbi premurosi, e prima di Dio? E prima di prima? La materia? E prima della materia?
Prima di Dio c’era sempre Dio e questo lo può capire pure una capra. I bambini sono sbandati adesso non quando gli si parlava di Dio.
Mai chiesto questo i miei (furono) bambini piccini…
La vita (per noi, ma ahimé per tutti) non è “a senso unico”… esiste un bivio e ognuno è chiamato a scegliere 😉
Do you want a navigator?
Carissimo, in genere i bambini sono molto soddisfatti della risposta cristiana, dovresti provare.
ti faccio una domanda: hai mai visto dei bambini non credenti? i bambini credono tutti in Dio, naturaliter, perchè è ovvio che c’è! poi qualcuno gli spiega che non è vero e così vanno in crisi…ma successivamente
Vedi Alvise, sono queste le cose che mi indignano in un ateo: la mancanza di stupore, il cinismo stanco, l’indifferenza, la noia in fondo. C’è qualcosa di perverso nelle tue parole, un rifiuto, una chiusura. Mi fai tornare in mente un episodio che suscitò, in me, bambino di sette o otto anni, un sentimento che si è letteralmente impresso nella mia memoria: il rimpianto.
Un giorno, dopo pranzo, la mamma mi dice, con un sorriso raggiante: “Vai a veder in sala, credo che ci sia una sorpresa per te.” Era una giornata uggiosa e, come si dice da queste parti, non avevo voglia. Mi alzai senza entusiasmo ed andai a vedere. Appena la vidi rimasi senza fiato: sul tavolo c’era una splendida chioma di penne, di quelle come erano soliti usare gli indiani del nord America. Tenete presente che era esattamente quello che avevo chiesto con insistenza ai miei genitori per potermi travestire da indiano ad una festa di carnevale. La guardai con desiderio. Non so cosa avvenne d’un tratto, o forse si. Sta di fatto che all’improvviso mi balenò nella testa che avrei dovuto ringraziare i miei genitori e, in particolare, la mamma che era stata quella che, certamente, aveva fatto pressione sul babbo perché fossi accontentato. Quest’idea, di dover ringraziare, suscitò in me come una specie di ribellione. Come, può un bambino di sette otto anni, indurirsi fino al punto di rifiutare un gesto di affetto e di ringraziamento alla mamma? Non lo so. Guardai di nuovo quella splendida chioma che non aspettava altro che essere indossata. Poi abbassai lo sguardo e, incupito, tornai in cucina. La mamma mi guardò stralunata e mi chiese: “Giancarlo, ma non hai visto cosa c’è?”. “No.”, risposi asciutto. “Ma vai a vedere, sciocco, che c’è una sorpresa per te sul tavolo!”, rispose mia madre, che stava cominciando ad inquietarsi. “No.” insistetti io “… non ne ho voglia.”. “Come non ne hai voglia?” Chiese mia madre, a metà tra l’offesa ed il dispiacere. “Ho detto che non ho voglia … e basta!”, dissi con un sottile e perverso piacere. Nel frattempo, mio fratello, più piccolo di due anni, era andato a vedere cosa c’era in sala e, con un sorriso luminoso in faccia, era tornato in cucina indossando quella splendida chioma. Mia madre lo guardò, incerta tra la sorpresa e l’ira che stava montando verso di me. Poi, dopo avermi guardato, girò di nuovo gli occhi verso mio fratello e gli chiese: “Ti piace?”. A mio fratello brillavano gli occhi: “Si.”, rispose. “E’ tua!”, sentenziò mia madre. E tornò alle sue faccende.
Non so, Alvise, se riesci a capire quale splendida lezione mi dette mia madre quel giorno. Probabilmente, quel giorno, ho imparato a dire grazie.
Giancarlo…grazie.
Ti ho capito perfettamente, ci sono passato anche io…
Direi dunque che ci sta bene un ‘grazie’ per averci raccontato questo episodio, Giancarlo.
Ci sta un grazie anche da me, Giancarlo… perché anch’io l’ho fatto.
[…] banali ed immense domande, le domande grandi dei bambini: estremamente serie per i piccoli, estremamente sciocche per gli sciocchi […]
Citazione “ad hunc”. 🙂
Magari rimanessimo tutti all’età dei “perché”… Quanti “perché” noi adulti dovremmo ancora chiedere… Credo che il problema non sia la parola in sé, anche se in effetti sentirsela dire spesso e rimanere sereni non è per tutti. Il problema, seondo me, è quando non la si dice più.
61Angelaextralarge:
…proprio così!!!
N.B.: ovviamente a questi “perché” è necessario dare una risposta. O la troviamo da soli o la trova qualcuno per noi… Poi, seconda cosa necessaria è cercare di vivere la risposta del “perchè”.
… e grazie a Matteo Donadoni per primo per questo bel pezzo!
OT: una ragazza ha deciso di abortire. Mettiamoci sotto? Il Signore ha già fatto cambiare idea a più di una. Grazie!
Angela, comincio subito.
Lalla: grazie!
Un po’ in ritardo ma vado subito.
…una sola?
Alvise: putroppo di più… ma ho scritto “una” per non mettere il nome, che so ma per discrezione e privacy tengo per me.
…lo so, mi tocca dire una stupidaggine (un’altra!) ma non potreste pregare per tutti e festa finita?
(non volevo certo sapere il nome)
Alvise: so che sei una persona istruita ed intelligente… quindi di sicuro sai cosa significa pregare, perché lo si fa, come lo si fa… quindi sai già la risposta. 😉
Non farmi fare un trattato sulla preghiera di intercessione… 😉