Contemplando un pezzetto di cielo

di Mario Barbieri

Ieri ho avuto l’occasione di visitare un malato, una persona malata e allo stadio “terminale” a meno di un miracolo… ma non una persona, un malato qualunque (anche se un malato non è mai “qualunque”), bensì il padre di un amico fraterno, certamente un Fratello nella Fede, che conosco da più di trent’anni.

Non posso dire di conoscere bene quest’uomo fino a poco tempo fa pieno di energie, ma conosco l’amore, il rispetto, l’ammirazione del figlio e non posso fare a meno di sentirmi toccato profondamente da ciò che lui e la sua famiglia stanno attraversando.
Non posso non “com-patire”, essendo anch’io passato per la prova di vedere un proprio caro avvicinarsi al suo definitivo saluto da questa vita, per entrare nella Misericordia di Dio.

Così ho sentito naturale, doveroso, passare per un saluto e una preghiera, pensando di trovare assieme padre e figlio e qualche altro componente della famiglia in ospedale, ma così non è stato.
Mi sono trovato solo, davanti al letto di quest’uomo, avendo anticipato di molto l’orario di visita.

In quel momento, ho provato imbarazzo, l’imbarazzo che si prova quando si entra, senza volere, inaspettatamente, nell’intimità della vita di una persona… perché sì, la malattia, la sofferenza di un uomo, è qualcosa di molto intimo, lo mostra nella sua infinita debolezza, in una nudità che va oltre quella fisica.
E’ quindi giusto e comprensibile che i familiari di un malato lo circondino di attenzione, ma anche di protezione, di pudore… è giusto così.
Sia come sia, così è stato senza alcuna malizia da parte mia, questo il Signore ha permesso.

Non ci sia abitua mai alla vista di una persona morente, non ci si abitua a vedere questo volto, questo corpo, trasfigurato dalla sofferenza anche se talvolta alleviata o neppure più percepita, quando l’Ora si fa prossima.
Non ci si abitua a vedere tanti tubi e tubicini, sonde e apparecchiature, così estranee a quel Corpo, che certo sono lì per aiuto al malato (anche se arriva il momento di domandarsi per quale aiuto?), ma che sembrano invece trafiggerlo e inchiodarlo al suo letto.
Non ci si abitua perché se non è per professione, non è visone di tutti i giorni, ma anche se fossero state tante le occasioni al capezzale di un morente… non ci si abitua.

E’ qualcosa che ti smuove, che ti arriva nel profondo delle viscere stringendole in una morsa.
Perché non c’è nulla da fare, la malattia, quella seria pesante, quella che stravolge anche nella fisionomia, chi la porta infissa nella carne, come la morte ci suona stridente e straniante, assurda e ingiusta. Cozza violentemente, con il nostro profondo anelito di vita. Profondo, profondissimo, perché “Dio ha creato l’uomo per l’immortalità”.

Così non c’è da meravigliarsi se taluni sfuggono da questo momento, questa vicinanza, questo confronto, sia che siano solo spettatori , sia che siano coinvolti da legami e da forti sentimenti, questo può non aiutare, anzi… Ma il più delle volte l’amore che proviamo per questi fratelli sofferenti, morenti, grazie a Dio, ci spinge a superare quest’ostacolo, questo rifiuto.
Talvolta siamo lì, presenti con il corpo, ma il rifiuto, la ribellione rimane, ci pervade tutti, non possiamo dominarli.

Eppure, tutto il nostro rifiuto, la nostra ribellione, nulla vale. Nulla vale al sofferente, nulla vale a che qualcosa di simile non si ripresenti per qualcuno che amiamo come per noi stessi.

Così non rimane che “contemplare” questo mistero, questo mistero di sofferenza.
Con templare viene dal latino cum-templum, “attraverso uno spazio di cielo”… già, uno “spazio di Cielo”.
Sembra un contro senso, uno spazio di cielo, per una cosa tanto tragica, tanto terrena, tanto materiale, tanto inevitabile, eppure, contemplandola arrendendoci allo scandalo, alla sofferenza che sofferenza a sua volta procura, guardando a questi Fratelli e Sorelle come si guarda a Cristo Crocefisso, questo Cielo si apre, una speranza sale dal profondo, grida: “No! Non può essere tutto qui, non è tutto qui…”.

Così dal cuore sale una preghiera, semplice umile, che sia quella del credente che le preghiere conosce o quella di chi preghiere non conosce e forse non crede. E’ una preghiera di intercessione, di affidamento, è forse l’ultimo, unico atto di amore, affetto e vicinanza che possiamo ancora compiere in quei momenti.

E’ una preghiera “sacerdotale”: «Padre, perdonalo. Padre, accoglilo. Guarda a tutto il bene fatto e di cui anch’io sono testimone e abbi misericordia di tutti i limiti, gli errori, i peccati. Mostra a lui il Tuo Volto, che possa riconoscerti anche non ti avesse mai conosciuto prima. Guarda al Sangue che Tuo figlio Gesù Cristo ha sparso anche per lui sulla croce.»
Questo un bene che infondo, torna anche a nostro vantaggio, che il Signore apprezza e saprà ripagare “ero malato mi avete visitato”… un altro pezzo di Cielo che si apre al nostro sguardo.

Così ho pregato e mi sono allontanato, in realtà continuando a pregare, commosso e quasi desiderando restare, per non lasciarlo solo, anche se la mia vicinanza fisica a poco poteva servire e probabilmente era anche inopportuna, fuori orario e non “parente stretto”.
Sia come sia, ho ringraziato Dio per questa opportunità, per questo “pezzetto di Cielo”, che anche per me si è aperto, nel ricordarmi da dove veniamo e dove andiamo, nel ricordarmi l’importanza di chiedere a Dio un Tempo propizio per la mia morte, nel ricordarmi i momenti tragici ma illuminati dalla Grazia in cui mi sono trovato accanto ad un caro morente, prima fra tutti Colei che fu mia Sposa.

Un “pezzetto di Cielo” è anche l’amore per i Fratelli quelli che “tornano al Padre e quelli che restano, che talvolta è fatto di gesti concretissimi e tangibili, altre dell’essere in preghiera per un amico, per un Fratello, sapendo delle sue sofferenze, della sua Croce, del suo combattimento.
Anche questa comunione, silenziosa, personale, talvolta taciuta, ma mai sterile o inutile è Grazia ricevuta, per chi ne è oggetto, ma anche per chi alla preghiera affida e si affida.

5 pensieri su “Contemplando un pezzetto di cielo

  1. Luigi

    Hai scritto bene, Mario. Bravo.

    La visione della morte riconcilia con il senso ultimo della vita.
    Solo una società che odia la vita può pretendere che nostra sorella morte corporale debba nascondersi alla vista.

    Ciao.
    Luigi

  2. Jenas

    ….perché “Dio ha creato l’uomo per l’immortalità”.

    E’ piu’ che vero: siamo su questa terra col solo scopo di addomesticarci alla vita celeste, sosteneva S. Ireneo, grande patriarca della Chiesa e, non tutti hanno la buona sorte di spegnersi dolcemente : nella maggior parte dei casi il trapasso , come nel caso in esame, e’ assai doloroso non solo per colui che lo vive ma anche per i congiunti che, il piu’ delle volte impreparati, non sanno bene come approcciarsi al morente. Non si sa cosa fare, o meglio, comportarsi nel migliore dei modi che dovrebbe consistere in un “savoir-faire” improntato ad infondere pur nei limiti contingenti della situazione oggettiva, amore incondizionato al morente, fatto di gesti materiali e morali. Tutto questo non si improvvisa: occorre una seria preparazione che puo’ essere solo acquisita in tempi di “vacche grasse”, quando le ore ultime se non l’ultima non e’ visibile all’orizzonte; quando passando per le corsie di un ospedale ci sembra che tutta quella sofferenza non ci riguardi piu’ di tanto perche’ mica puo’ capitare a noi. Si muore quasi tutti in ospedale e non tra le mura domestiche, perche’ il contatto con la sofferenza indispone e urta la sensibilita’ degli adulti e ancor piu’ dei bambini che devono vivere sereni loro, mentre un giusto approccio con la sofferenza e la morte del proprio caro, potrebbe essere un imprinting salutare utile nella necessita’ che arrivera’.

    1. Quando possibile, dove possibile, è sempre augurabile poter morire nel “proprio letto”, nella propria casa, tra i propri cari.

      I problema è che molto spesso, se si è “ospedalizzati” e la situazione si aggrava velocemente, tutto diventa un rincorrere di urgenze e complicanze.

      Bisognerebbe avere il tempo e il modo di poter scegliere o da parte del paziente – che può sempre decidere di essere dimesso – o da parte dei famigliari, certamente dopo un confronto aperto e trasparente con i medici.
      Ma molto spesso si arriva a farmaci o strumenti di supporto, sospendendo i quali, la morte del paziente e quasi certezza e sopraggiunge in brevissimo tempo.

      Per questo, anche avere la possibilità di essere nel proprio letto e soli con i propri cari e anch’esso un dono e se questo si desidera, per sé o per i propri cari si può chiederlo a Dio che tutto dispone, anche ciò che a noi sembra apparentemente casuale… e il Signore ascolta.

      Io posso confermarlo per esperienza.

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