di Giacomo Bertoni
Lo ammetto, non ho resistito: sono andato al cinema a vedere “Bridget Jones’s baby”. Parliamoci chiaro, in questi tempi di incertezza e spaesamento, l’immagine di noi soli su un divano, con la musica alta e una confezione di gelato (personalmente preferisco la pizza surgelata), è molto reale. Sì, siamo divisi fra scuola o università, lavoro, volontariato, sport… Ma il momento “chi sono?” “dove vado?” “cosa sto combinando?” è spesso presente, e il gelato è una compagnia ottima. Il terzo capitolo delle disavventure di Bridget Jones si apre con questa immagine storica, nella quale è facile identificarsi. Ma l’evoluzione (che, prometto, farò di tutto per non spoilerare) è un limpido specchio dei nostri tempi.
Tutto parte da un profondo senso di solitudine, misto al rimpianto di non aver avuto figli. Nonostante una carriera brillante, Bridget Jones sente che le manca qualcosa. E si sente profondamente sola. I suoi grandi amori sono irraggiungibili: uno si è sposato, l’altro è morto. Alcune amiche care hanno formato le loro famiglie (delle quali emerge un’immagine decisamente poco accattivante), mentre altre rincorrono il tempo che passa lanciandosi in divertimenti sfrenati (e non è retorica). Per un attimo, ci casca anche la nostra Bridget, ma basta una notte per cambiare definitivamente la sua vita.
Ho qui accanto un bigliettino con scritto “non spoilerare!”, quindi non entrerò nei dettagli della trama. Ma vorrei segnalarvi alcune cose, come l’idea di fondo: il desiderio di un figlio. Non visto come dono giunto al culmine di un progetto di vita, una vita costruita e adattata pensando ai diritti inalienabili del bambino, primo fra tutti quello di nascere e crescere in una famiglia che lo ha atteso, con un padre e una madre amorevoli. Ma raccontato come un desiderio da realizzare, quasi come fosse un obiettivo lavorativo o un nuovo acquisto importante per la casa. Ritorna spesso la frase “posso farcela anche da sola”: non ci sono dubbi che una donna possa cavarsela da sola. Ma il bambino non può farcela da solo. Attorno a questi desideri appaiono numerosi richiami alla maternità surrogata (ovviamente il termine “utero in affitto” è proibito), che mostrano tutta la loro ideologica persuasione.
“Magari potranno fare qualcosa i genitori di Bridget”, si augura a un certo punto lo spettatore confuso. Ma la speranza è la prima a morire. Il padre è totalmente privo di riferimenti morali, una banderuola sorridente che dovrebbe essere rassicurante ma in realtà è raggelante. La madre invece, candidata alle elezioni del consiglio parrocchiale, difende i diritti della famiglia, e per questo è presentata come una bigotta ignorante, anche parecchio kitsch. “Se non cambi idea perderai le elezioni”, le dirà a un certo punto Bridget, perché oggi difendere la famiglia è un ostacolo per raggiungere il potere. Tutto cambia insomma.
Cambia Bridget Jones, cambia Renée Zellweger (perché, perché?), cambia il mondo dell’informazione (questa sì, una vera analisi da salvare). Dopo questo film siamo ancora sul divano, con l’immancabile gelato. Forse non sappiamo ancora chi siamo, dove andiamo. Ma di sicuro non vogliamo andare dove porta il vento del pensiero unico.
Giacomo… Giacomo… Non so chi tu sia, lo ammetto con candida ignobile ignoranza, ma mi permetterò comunque di rivolgermi a te come a un amico maschio che si vorrebbe prendere a mestolate sul sedere. Quel biglietto con la scritta “non spoilerare” dovevi stamparlo in formato cartello autostradale-allaccia le cinture, perchè mi hai scaraventato nel baratro dell’ansia cosmica da “santo cielo devo capire che sta succedendo nel mondo irreale in cui m’ero costruita il seguito di Che pasticcio Bridjet Jones”. A) in che senso uno dei due amori di Bridjet è morto!?! B) in che senso l’altro grande amore s’è sposato?!?!
A questo punto, lo dico con la stessa franchezza di cui sopra, mi serve mezza secchiata di gelato preventiva per andarmi a vedere questo film che tu mi preannunci fosco non solo per la tematica genitorialità (già devastante a sufficienza il fatto che un figlio venga ridotto a merce di consumo dagli schizofrenici sceneggiatori holliwoodyani, ma questo era chiaro) ma pure per la malandatissima sorte di Bridjet, che se fino a ieri ci empatizzavo con allegria nei miei periodi discendenti, ora mi fa venire il magone solo l’idea.
Argh. Argh. Riargh.
Con affetto, Giacomo, non te la prendere.
La Hollywood degli anni 40/50 produceva films in cui l’Humprey Bogart malinconico fumava e beveva liquori per annegare il rimpianto della donna amata (ricordate ” Casablanca “). Il film in questione veicolava l’idea che sigarette e superalcolici fossero i migliori rimedi alla tristezza esistenziale.E le industrie di tabacco versavano dollari per questa pubblicità occulta.
Oggi lo schema sembra ripetersi nel film presentato dal signor Giacomo Bertoni, con la differenza che i messaggi subliminali inseriti sono diretti a pubblicizzare una soluzione come l’utero in affitto che io considero un vero crimine contro l’umanità.
Chi ci salverà dal pensiero unico progressista? I nostri giovani sono imbevuti di questa cultura per cui tutto è assolutamente normale e lecito, matrimoni gay,maternità surrogata,spinello libero,eutanasia e così via…. .
Guai a dissentire o almeno porre degli interrogativi legittimi: sei bollato come antiquato, fuori dal mondo, reazionario,superato, uno strano individuo. Poi se sei pure credente, e quindi preghi e vai in Chiesa, sei veramente un povero bigotto, un po’ ritardato ed ingenuotto. Non è così per grandi linee? Oppure è solo un affresco caricaturale!
Ditemi pure qualcosa.
Purtroppo la civiltà (?) moderna ha escluso il sacro dal pensiero comune creando il super-uomo di Nietzscheiana memoria, l’uomo e la donna autosufficienti, liberi di esplorare il cosmo e il microcosmo per affermare il loro “potere” sulle persone e sulle cose, dimentichi di Dio e delle sue leggi. Sembra il trionfo di satana,; quando avremo toccato il fondo dell’abiezione certamente Dio interverrà per ripristinare l’ordine sconvolto dal kaos. Questa è la nostra SPERANZA.