di Luca Marcolivio per Zenit
Due fratelli di diciassette e diciannove anni, orfani di madre, nel fiore della loro gioventù. Si vogliono bene, condividono ogni cosa e il padre stravede per loro.
Un giorno, poi, improvvisamente, il più giovane decide di lasciare i suoi cari e, facendosi prestare il denaro necessario, si incammina verso una destinazione ignota, senza nessuna certezza sul ritorno.
Mentre il padre accetterà il fatto con stoica e malinconica rassegnazione, la reazione del fratello maggiore è incredula, rabbiosa, carica di risentimento.
Quella del Figliol Prodigo (o del Padre Misericordioso) è probabilmente la più celebre ed amata delle parabole evangeliche (Lc15,11-32), una storia ascoltata decine di volte nelle omelie domenicali, che, tuttavia, non smette mai di commuoverci e farci riflettere.
Identificarsi in uno dei tre personaggi – il padre o uno dei due figli – è facile e ognuno di essi, in misura diversa, incarna una parte della nostra personalità.
La parabola del Figliol Prodigo, in duemila anni, ha ispirato dipinti (Bosch, Rembrandt, De Chirico), opere liriche o balletti (Ponchielli, Prokofiev) e commedie (Voltaire) ma mai un romanzo. L’assassino di mio fratello (Giovane Holden Edizioni, 2013), opera prima di Gerardo Ferrara va a colmare questa lacuna.
Trentacinquenne romano di origine lucana, forte dei suoi studi sulle culture mediorientali, sulle religioni abramitiche e sulla filosofia semitica, Ferrara riesce nel suo intento di ricostruire lo sfondo storico e antropologico della Galilea immediatamente precristiana, con tutte le sue tradizioni, i suoi usi e costumi, senza lesinare particolari crudi e violenti, nello spirito di un certo filone veterotestamentario.
L’Autore assume il fratello maggiore come io narrante, optando quindi per una lettura complessa e “moderna” della vicenda. Nel protagonista Shimon è individuabile tutta la fragilità dell’uomo contemporaneo che vede miseramente franare ogni velleità di costruzione della sua personalità su valori “borghesi” e “di facciata”, sull’adesione ad una morale (nel caso specifico quella della legge mosaica, in particolare nel quarto Comandamento), sulla rispettabilità, sull’identificazione dell’uomo con il proprio “fare”, piuttosto che con il proprio “essere”.
Nel giovane e ingenuo David, invece, il lettore potrà scorgere l’umanità rigenerata dal dolore per il proprio peccato e riscattata dall’unico vero amore che non tradisce: quello del Padre che dolorosamente rispetta la libertà dei propri figli, anche nel loro errore, e che vibra di gioia incondizionata per la loro sola vicinanza.
Il ritorno di David, quindi, spiazzerà Shimon fino allo sgomento, infrangerà tutte le sue false certezze, lo getterà nell’abisso della disperazione e della crisi di identità, perché lo ha reso consapevole di non saper amare, fino a percepirsi, in qualche modo, come l’assassino morale di suo fratello.
Scritta in un singolare tempo presente, a metà strada il diario e un incedere cinematografico, la storia si caratterizza per una curiosa nemesi, per cui, in distinti momenti, sarà Shimon, a sua volta, a mettersi in viaggio e ad abbandonare la famiglia.
Rocambolesche avventure lo porteranno sulle tracce del fratello scomparso e Shimon, più volte, si metterà nei guai, arrivando a rischiare la vita e a commettere persino due orribili delitti. Sarà proprio questa immersione negli abissi del male e del peccato, a condurlo lungo strade mai immaginate prima e, alla fine, la redenzione si compirà, in maniera assai sorprendente, anche per il fratello maggiore.
Fedele e scrupoloso nella ricostruzione storica, L’assassino di mio fratello è articolato su un linguaggio agile e moderno. La narrazione è dinamica ma, al tempo stessa molto riflessiva ed introspettiva, richiamando in parte l’approccio dei grandi scrittori russi del XIX secolo, Dostoevskij in primis.
L’assassino di mio fratello è, in definitiva, un’opera che potrà risultare gradita a vari tipi di lettori: agli appassionati del romanzo storico, ai biblisti, agli amanti della fiction a sfondo religioso, come pure a chi è in cerca di stesso e – anche inconsapevolmente – anela al grande dono della Misericordia.
Interessante segnalazione.
La premessa riassuntiva della parabola non rende pienamente la realtà dei fatti che tutti conosciamo.
“…il più giovane decide di lasciare i suoi cari e, facendosi prestare il denaro necessario, si incammina verso…” sa un po’ di figlio sognatore o “alternativo” che vuole partire in cerca di fortuna, a cui il padre concede appunto un “prestito” (verosimilmente a fondo perduto), per non “tarpare le ali” ai sogni del figlio.
La parabola ci dice che il figlio minore chiede quello che gli spetta come “eredità”, chiede in sostanza in anticipo quello che gli sarebbe spettato alla morte del padre… a conti fatti, se non si resta alla superficie, decreta la morte anticipata del padre e nel contempo, di voler “appropriarsi della sua vita”, rompere ogni legame con la famiglia, con le sue origini, scrollarsi di dosso le responsabilità e i doveri, che questo legame comportava.
Questo maggiormente spiega la reazione del figlio maggiore al ritorno del minore e ancor più esalta l’amore del Padre Misericordioso.
O.T.
Ieri, ad Arezzo, le Sentinelle in piedi hanno vegliato per un’ora! Eravamo in tanti ed è stato bellissimo! Noi c’eravamo! Io leggevo il libro di Costanza:direi che per l’occasione era proprio l’ideale, anche perché per le sentinelle è “il silenzio il nostro inno”!
O.T. Importante! Forse ci sono buone notizie!
http://www.dagospia.com/rubrica-29/Cronache/meriam-vivr-non-grazie-all-italia-la-donna-sudanese-condannata-a-morte-perch-cristiana-78219.htm?utm_source=dlvr.it&utm_medium=facebook
Speriamo! Grazie, Giusi! Noi continuiamo a pregare!
Qui c’è il video della BBC
http://www.tempi.it/meriam-presto-libera-voci-su-una-sua-imminente-scarcerazione-ecco-il-video-della-bbc#.U4tmwHaJkTB
Tra poco, alle 21, a Radio Maria Francesco Agnoli in diretta con Costanza Miriano, Mario Adinolfi, padre Maurizio Botta e Marco Scicchitano.
Lc 15,11-32 è parabola che si legge spesso decontestualizzata.
Non parlo del contesto della disputa generale tra popolo eletto e genti.
Parlo delle dinamiche relazionali del testo, che si sottovalutano, spesso con effetto finale di “c’è-posta-per-te”.
In breve.
In 11 lo “stato iniziale”, l’unità relazionale di padre e figli.
In 12 lo strappo rivendicativo del figlio minore, l’uscita da sé (cioè da 11), la folle volontà di potere su di sé e per sé.
In 13-16 il fatale esplodere dell’illusorietà dell’auto-nomia e il fatale implodere del rango.
In 17-20a il rientro in sé (col riconoscere di aver disperso eredità, identità e rango) ed il conseguente cammino di rientro nella relazione col padre, con la presa d’atto (18-19 + 21) di non avere più diritto alcuno da rivendicare.
Di qui in poi, l’intervento del padre misericordioso.
In 20b reintegra CON ATTO DI GRAZIA (nulla gli si doveva, giuridicamente parlando) il figlio nella relazione,
In 22-23 reintegra SEMPRE CON ATTO DI GRAZIA il figlio nel suo rango.
E, da non trascurare (cosa che si fa quasi sempre), in 24 pronuncia il suo giudizio sulla vicenda (12-16 sono DISPERDIMENTO e MORTE, nulla di meno…), CHE NON REVOCHERÀ (32).
In 25-28a +29-30 il maggiore mostra di condividere (se non per il mutamento di segno…) col minore sia l’approccio rivendicativo nei confronti del Padre (29 vs. 12), sia la stessa visione meccanicamente retributiva della pena (30 vs. 19).
Infine, in 28b + 31-32 la correzione paterna del figlio maggiore, non priva di una sorta di investitura/investimento.
In 28b il padre scende ad incontrare ANCHE il figlio maggiore (ironica inversione di situazione: in 20b il minore non è poi così lontano, in 25 il maggiore non è poi così vicino).
Incontra, non certo disconferma (cosa che si tralascia quasi sempre).
Come in 22 il padre opera con ATTO DI GRAZIA il REINTEGRO SOLENNE del minore nell’identità e nel rango di figlio, in 31 opera la CONFERMA INTIMA del maggiore (tentato com’è – cfr. 29 -di cercare surrogati di conferma) nel suo “essere” e nel suo “essere/avere”.
È un’intima INVESTITURA, ma anche una sorta di intimo INVESTIMENTO.
Infatti, mentre ribadisce (a futura bimillenaria memoria) che 12-16 sono disperdimento e morte, il padre non rinnega 22, tutt’altro.
D’ora in avanti, “essere” ed “essere/avere” del figlio maggiore dovrà di necessità implicare lo “stare dentro” e il “comprendere” (ma anche l’esercitare in comunione col padre) quell’ ATTO SOLENNE DI GRAZIA.
Cosa che dovrà valere, a suo modo, anche per il minore.
Ecco, contestualizzata nella dinamica della relazione padre-figli, si torna ad assaporare la miracolosa fragranza della parabola, troppo spesso inquinata dalla melassa buonista.
L’ha ribloggato su Lacapannadellozioblog.