Arte dello sforzo ben diretto

Colin Firth e Geoffrey Rush in Il discorso del re

di Francesca Nardini

L’esercizio della volontà è accompagnato sempre da uno sforzo, o se vogliamo da un lavoro.  E, come insegna la fisica, il lavoro provoca lo spostamento dei corpi cui è applicato, oggetti, persone… in senso più ampio, anche circostanze: non c’è atto di volontà che non modifichi l’intorno del soggetto e che non abbia su di lui un effetto liberatorio, di compimento del proprio essere. Ma quando la volontà si esprime, assistiamo alla nascita di una serie di reazioni, a livello conscio o inconscio, che non permettono ai nostri atti di essere definitivamente liberi. La stessa paura di non vedere realizzata la propria volontà è una forza opposta contro la quale, anche involontariamente, combattiamo.

Guitton, con questa metafora presa dal mondo della fisica, vuole scandagliare il misterioso sistema di forze alla base dei nostri atti: sia che cominciamo a scrivere un libro (ambito di cui lui si occupa nello specifico), sia che desideriamo salire su di un cavallo e domarlo, la spirale di forze che ci coinvolge è più ampia di quanto non crediamo. Lui individua principalmente tre componenti:

–         lo sforzo del cosciente sul cosciente, ossia la nostra volontà;

–         lo sforzo dell’incosciente sul cosciente, ossia la paura che mina la volontà;

–         lo sforzo del cosciente sull’incosciente, ossia il surplus di volontà che siamo costretti ad applicare per vincere la paura.

Se la nostra occupazione quotidiana non è scrivere libri, e quindi non conosciamo l’ansia da vuoto di ispirazione, possiamo comunque seguire il filo logico di questa lezione sulla volontà riferendoci all’immagine di un balbuziente. Il balbuziente non pensa balbettando, egli pensa normalmente e formula le proprie idee allo stesso modo di chi poi le esprime anche fluentemente. Il balbettio, come disturbo, subentra solo successivamente al pensiero, in forma di effetto indesiderato che nulla toglie al nucleo chiaro e nitido delle idee. Questa buona radice interiore fa sì che anche il Giorgio VI di Colin Firth (vedi “Il discorso del Re”) ricominci a credere prima di tutto in se stesso, riconoscendosi non intaccato nel profondo da quel disturbo, bensì custode di una interiorità sana, ben riuscita. Quindi, inizia in lui il percorso di liberazione che potremmo leggere “alla Guitton” così:

– il desiderio di esprimersi a parole (sforzo del cosciente sul cosciente),

– il timore di non farcela (sforzo dell’incosciente sul cosciente),

– lo sforzo superiore per parlare (sforzo del cosciente sull’incosciente).

Re Giorgio vuole parlare, ma avendo assaggiato la sconfitta lo vuole molto, troppo e si svela  maggiormente vulnerabile poiché vittima di un blocco psicologico… e la sua volontà “sotto sforzo” resta sconfitta.

Cambiando contesto, una dinamica analoga si sviluppa anche nel lavoro quotidiano di un libero professionista o project manager. Queste due figure si confrontano ogni giorno con ostacoli e imprevisti di tipo temporale, logistico, finanziario, per non dire relazionale. Pertanto, usando lo stesso schema, il lavoratore è posto di fronte ad obiettivi predefiniti da soddisfare, consapevole di un rischio oggettivo e provato da tutti gli imprevisti fisiologici del lavoro che conferiscono alla data di consegna un’aura di ineludibilità. A differenza della balbuzie irrisolta, il fallimento degli obiettivi lavorativi non è inevitabile e tutto comunque può andare a buon fine, ma lo sforzo in più per mantenere il controllo della situazione non ha certo costo zero. Per inciso, subire questa pressione non significa essere professionisti mediocri, anzi è piuttosto umano.

Se pensiamo all’educazione dei figli, siamo ancora di fronte allo stesso copione in cui una madre, un padre, non affrontano solo ostacoli temporali, finanziari e relazionali, ma anche educativi. Si può convenire tutti che l’educazione è certamente molto più impegnativa della pura convivenza pacifica; come diceva Don Bosco, con parole abbastanza condivisibili da tutti, “l’educazione è cosa di cuore” e non richiede solo gesti di amore ma anche “che i giovani sappiano di essere amati”. E’ uno sport abbastanza estremo: come non provare paura di fallire, non irrigidirsi di fronte al desiderio di bene per un figlio, specie quando quel bene sembra allontanarsi anziché avvicinarsi?

Fin qui abbiamo semplicemente a che fare con una diagnosi molto, molto banale: i nostri atti di volontà hanno un limite, una finitezza intrinseca per il semplice fatto che siamo complicati interiormente. Basta una paura e tutto diviene più difficile, il traguardo più lontano, la forza apparentemente richiesta sempre maggiore… forse addirittura impossibile da sfoderare. C’è un principio in fisica secondo cui lo zero Kelvin non è soltanto difficile da raggiungere in laboratorio, ma più ci si avvicina e più lui si allontana. Eppure io allo zero Kelvin ci vorrei tanto arrivare, c’è un nucleo buono in me che desidera il bene, che vuole esplodere, illuminare tutto intorno, un nucleo fatto di desideri legittimi, sani, incorrotti.

Come realizzarli? Come sopravvivere alla balbuzie che sgretola le parole, alla scadenza temporale di una consegna di lavoro pianificata, al giusto desiderio di un bene non immediatamente realizzabile? Come raggiungere lo zero Kelvin che si allontana mentre arranchiamo verso di lui?  Dalla diagnosi non vengono risposte molto fantasiose: l’unica via di riuscita è sforzarsi di più e sperare che sia sufficiente. In termini Guittoniani, sarebbe a dire rispondere allo sforzo dell’inconsciente sul cosciente con uno sforzo cosciente maggiorato, inasprito, quasi incavolato contro quelle paure… che purtroppo, dice Coué, crescono “col quadrato” della volontà, proprio come lo zero Kelvin che accelera la sua fuga dalle mani dello scienziato. Vinca dunque il più forte?

C’è uno scrittore che, al proposito, si rifà all’esempio di un cavallo e di un uomo che vuole domarlo. L’uomo ha sostanzialmente due possibilità: o imporsi all’animale con la sua corporeità, con i suoi muscoli e con la sua mente, alla disperata ricerca di un equilibrio dettato da se stesso, oppure abbandonarsi ai movimenti dell’animale, quasi lasciandosi insegnare da lui come si fa e poi farlo come se avesse cavalcato da una vita. La chiave per entrare nella soluzione sarebbe proprio quel tipo di abbandono, che non nega la propria ragione e non mortifica il proprio impegno ma va ad illuminare sulla nostra scena una porzione di realtà che è vivibile anche se fuori dal nostro controllo. C’è una parte della nostra giornata che non ci fa stare tranquilli, che taglieremmo se dovessimo montare un film, eppure è bella e ha tanto da insegnarci: è la parte in cui non siamo maestri noi, in cui il maestro è qualcun altro (un fatto, una persona, una circostanza) e ci indica una strada diversa che può benissimo diventare la nostra, come se lo fosse sempre stata.guitton

Guitton chiama questo lavoro interiore arte dello sforzo ben diretto: si tratta sempre di uno sforzo, ma dello sforzo di non sforzarsi che richiede altrettanta volontà e regala all’uomo una vitalità inaspettata. Dice lui che non basta usare semplicemente la volontà ma bisogna “saper scegliere il momento giusto per esercitarla”, come dei buoni amministratori, sia di fronte ad un foglio bianco in preda ad un vuoto mentale, che nella sofferenza, nell’impotenza, nella stanchezza.

Jean Guitton ha scritto anche durante la malattia, per questo lo trovo credibile e tengo molto a diffondere il suo pensiero, benché rielaborato a modo mio. Certo, quando guardo il lavello strabordante di piatti, o meglio, quando il lavello strabordante di piatti mi guarda, credetemi, ho tanta, tanta paura. E ce l’ho, sotto sotto, l’istinto di applicare più metodo e più volontà, per una casa pulita e sotto controllo, proprio come di fronte a tutti gli scossoni, le incognite e le novità.

Eppure l’arte dell’abbandono mi attrae. Mi solletica la ragione. E mi riposa, specie quando leggo queste sue parole finali: “Certamente lo sforzo è lodevole, ma soltanto quando si dispiega in un’atmosfera che previene, accompagna e consuma: l’atmosfera che chiamiamo grazia, cioè il contrario dello sforzo.”

* J. Guitton “Il lavoro intellettuale”, par. ‘Lo sforzo senza sforzo’, 1986 Ed. Paoline per I PRISMI

3 pensieri su “Arte dello sforzo ben diretto

  1. L’arte dello “sforzo dell’abbandono” e della “volontà esercitata nel giusto momento”…
    Come Cristo, vero Uomo, nell’appressarsi dell’ora. Quella del Getsemani, quella della Croce.

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