La versione di Noè

(OVVERO DELLA FEDE E DEL MATRIMONIO DOPO IL DILUVIO UNIVERSALE)

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«Salvare chi sta annegando è quindi un dovere per cui vale la pena morire,

ma non per cui vale la pena vivere».

(C. S. Lewis, L’Onere della Gloria)

di Matteo Donandoni 

La versione non ufficiale della storia narra che un giorno Noè, mentre lei  lo avvertiva che avevano l’acqua in casa, disse alla moglie: «Moglie, non mi importa dove va l’acqua, l’importante è che non vada a finire nel vino».

La figura del patriarca antidiluviano mi ha sempre affascinato sin da piccolo, non solo perché Noè, già vecchio, si mise a costruire una barca enorme in legno di cipresso – ovvero un’arca -, in mezzo alle montagne e ben lontano dalla costa, presumibilmente nel sarcastico dileggio dei conoscenti; o perché fu il primo uomo a piantare una vigna e ad ubriacarsi: «Avendo bevuto il vino, si ubriacò e giacque scoperto all’interno della sua tenda» (Genesi 9,21); ma soprattutto perché, grazie a lui, gli occhi innocenti di ogni bambino del mondo possono ammirare quello straordinario fenomeno di gascromatico luccichio che è l’arcobaleno, che prima non esisteva. Non solo. I piccoli lo ammirano ogni volta con lo stesso stupore e gioia con cui lo guarda il Padre: «L’arco sarà sulle nubi e io lo guarderò per ricordare l’alleanza eterna tra Dio e ogni essere che vive in ogni carne che è sulla terra». Disse Dio a Noè: «Questo è il segno dell’alleanza che io ho stabilito tra me e ogni carne che è sulla terra» (Genesi 9,16-17). Atteggiamento che dovremmo conservare.

La conversione al cristianesimo, e in particolare alla fede cattolica, infatti, non comporta uno stravolgimento delle nostre normali attività quotidiane, tanto meno comporta il fatto che dobbiamo dedicarci anima e corpo ad esse con serietà ed atteggiamento sussiegoso. La serietà non è una virtù. L’uomo è un animale politico dicono i filosofi, e la religione, o per meglio dire il culto, così come il matrimonio, non è una questione privata, nel senso di quella pudica intimità che la relegherebbe a fatto strettamente personale, ma è esattamente un fatto pubblico. Perciò come tale deve apparire ed essere professata. Tutti i doveri politici, fra cui è giusto annoverare quelli militari, sono di questo genere. Eppure non devono assorbirci completamente ed esaustivamente, come se fossero il fine, altrimenti rischiano di diventare per noi un idolo. Molte volte il lavoro assume le forme di un idolo, Mammona: un indiscutibile divoratore di tempo, valori ed affetti, giudice sommo del dire e del fare. Invece, «Invano vi alzate di buon mattino, tardi andate a riposare e mangiate pane di sudore: il Signore ne darà ai suoi amici nel sonno» (Salmo 127).

Certo, ciò che facciamo ci assorbe la vita, ma i cattolici sanno che ciò che fanno non è ciò che sono chiamati ad essere, non è la vita: potrebbe persino darsi il caso che un uomo venga chiamato a sacrificare la vita per il proprio paese, ma non per questo egli deve vivere per il proprio paese, nel senso esclusivo del termine. Perché come dice Clive Staple Lewis: «Colui che si arrende senza riserve alle pretese temporali di una nazione, di un partito o di una classe sta rendendo a Cesare, tra tutte le cose, ciò che appartiene più strettamente a Dio: se stesso» (C.S.Lewis, L’Onere della Gloria). Eppure, nemmeno la religione deve occupare la nostra esistenza in modo totalizzante, nel senso di escludere ogni nostra attività naturale, per quanto Dio in un certo senso occupi l’intera nostra vita.

Come Benedetto XVI, sulla scia di sant’Ignazio di Antiochia e sant’Ireneo, ha esposto nella catechesi del 9 gennaio 2013, con una riflessione sull’incarnatio e in particolare sull’espressione «Il Verbo si fece carne” (Gv 1,14): “Il fatto dell’Incarnazione, di Dio che si fa uomo come noi, ci mostra l’inaudito realismo dell’amore divino. L’agire di Dio, infatti, non si limita alle parole, anzi potremmo dire che Egli non si accontenta di parlare, ma si immerge nella nostra storia e assume su di sé la fatica e il peso della vita umana. […] Questo modo di agire di Dio è un forte stimolo ad interrogarci sul realismo della nostra fede, che non deve essere limitata alla sfera del sentimento, delle emozioni, ma deve entrare nel concreto della nostra esistenza, deve toccare cioè la nostra vita di ogni giorno e orientarla anche in modo pratico. […] Il Catechismo di san Pio X, che alcuni di noi hanno studiato da ragazzi, con la sua essenzialità, alla domanda: “Per vivere secondo Dio, che cosa dobbiamo fare?”, dà questa risposta: “Per vivere secondo Dio dobbiamo credere le verità rivelate da Lui e osservare i suoi comandamenti con l’aiuto della sua grazia, che si ottiene mediante i sacramenti e l’orazione”. La fede ha un aspetto fondamentale che interessa non solo la mente e il cuore, ma tutta la nostra vita».

Perciò «non si tratta di trovare un compromesso tra le pretese di Dio e le pretese della cultura, della politica o di qualsiasi altra cosa. La pretesa di Dio è infinita e inesorabile. La si può rifiutare o si può cominciare a cercare di soddisfarla. Non esistono vie di mezzo».

San Paolo dice di continuare a lavorare, anzi, dice «chi non vuol lavorare neppure mangi» (2Tessalonicesi 3,10), ma spesso dimentichiamo che non lo dice a degli sfaccendati, come un’esegesi egemonizzata dall’etica protestante del lavoro vorrebbe presentare, ma lo dice tenendo presente la comunità di Gerusalemme, impoveritasi per aver venduto i propri beni e donato tutto ai poveri e che vive in preghiera attendendo la venuta di Cristo sulle nubi del cielo (Mt 24,30).

Ma non solo lavoro anche feste: Gesù stesso invitato ad un banchetto nuziale cui partecipa con la Madre e gli amici, non si limita ad un pasteggiare stoico o ad un puritano quanto ipocrita “no, grazie/ l’alcol fa male/ sono astemio”.

Si legge infatti nel Vangelo di Giovanni: «Il terzo giorno vi fu una festa di nozze a Cana di Galilea e c’era la madre di Gesù. Fu invitato alle nozze anche Gesù con i suoi discepoli. Venuto a mancare il vino, la madre di Gesù gli disse: «Non hanno vino». E Gesù le rispose: «Donna, che vuoi da me? Non è ancora giunta la mia ora». Sua madre disse ai servitori: «Qualsiasi cosa vi dica, fatela». Vi erano là sei anfore di pietra per la purificazione rituale dei Giudei, contenenti ciascuna da ottanta a centoventi litri. E Gesù disse loro: «Riempite d’acqua le anfore»; e le riempirono fino all’orlo. Disse loro di nuovo: «Ora prendetene e portatene a colui che dirige il banchetto». Ed essi gliene portarono. Come ebbe assaggiato l’acqua diventata vino, colui che dirigeva il banchetto – il quale non sapeva da dove venisse, ma lo sapevano i servitori che avevano preso l’acqua – chiamò lo sposo e gli disse: «Tutti mettono in tavola il vino buono all’inizio e, quando si è già bevuto molto, quello meno buono. Tu invece hai tenuto da parte il vino buono finora» (Gv 2,1-10). Ha addirittura fornito Egli stesso del vino miracoloso, profezia di quel Vino della Vita – oggi così trascurato dalla Chiesa –, tanto più buono del normale da far meritare allo sposo i complimenti dei commensali. E, diciamo la verità, sei anfore da 100 litri sono davvero tanto vino. Perché: «Sia dunque che mangiate, sia che beviate, sia che facciate qualsiasi altra cosa fate tutto per la gloria di Dio» (I Cor 10,31).

Tutte le nostre attività umane, infatti, devono essere offerte a Dio, allora le nostre fatiche vengono avvalorate dalla loro utilità soprannaturale. A Dio non importa se abbiamo un master in management di qualsiasi inutile moderna attività lo richieda, se siamo dottori e scribi, lavapiatti o puri di cuore cercatori del Santo Graal (no, forse questo sì), anzi; tutte le attività anche se umili sono importanti, se offerte, mentre le più importanti e anche le più utili possono essere peccaminose o contrarie al progetto che il Padre ha su di noi, se tese alla distruzione dell’ordine naturale. Basti pensare alla quantità di medici spergiuri che interrompono ogni giorno la vita nascente. Il lavoro di un astrofisico o di una domestica sono uguali per la stessa ragione e, cioè, per il fatto di essere offerti a Dio. Ovviamente alcune attività sono di per sé immorali, quindi devono essere abbandonate, non è possibile praticarle per la gloria di Dio, perché in contrasto in quanto tali. Non esiste una sola via verso Dio, ma un umile desiderio ci spinge alla ricerca della verità con i mezzi che Dio stesso ci ha fornito. Inoltre, ciò non vuol dire che lo scienziato o il musicista e la domestica debbano essere scelti a caso, perché tutto viene svolto in ordine ai propri talenti: «una talpa deve scavare per la gloria di Dio e un gallo cantare»; o in risposta alle proprie vocazioni, come il sacerdozio o il matrimonio. San Tommaso ha dimostrato che la sessualità ci sarebbe stata anche senza la Caduta. Probabilmente anche il matrimonio, che è fecondità, delizia e croce per tutti, e l’offerta quotidiana della croce è per noi sposi reciproca via di santificazione. Non saremo profeti o taumaturghi magari, ma un matrimonio che dura solido e ingrigisce i capelli è esempio di una fede che va oltre la fatica e stimolo alla santità. Essere cristiani, dunque, vuol dire fare le stesse cose che si facevano prima, con uno spirito diverso. Essere cattolici è semplicemente essere umani e anche un po’ divini, nella feconda collaborazione maschio-femmina a Sua immagine (Gn 1,27), in attesa della nuova incorruttibile natura che Cristo ci ha promesso, che noi dobbiamo meritarci, che la Grazia misericordiosa del Padre non mancherà di donarci. Dunque, la laboriosità sia sempre legata alla preghiera, affinchè possiamo pensare al tramonto: «Va’, mangia con gioia il tuo pane, bevi il tuo vino con cuore lieto, perché Dio ha già gradito le tue opere» (Ecclesiaste 9,7).

21 pensieri su “La versione di Noè

  1. Interessante questo post con molti spunti di riflessione, complimenti all’autore. Suggerimento al grande admin, l’udienza del Papa del 7 febbraio merita anch’essa un post. Buona giornata e buon venerdì a tutti.

  2. Marina

    grazie per qs. modo di iniziare un qualunque venerdì!
    Disse un amico: ” Il rapporto con Cristo è la verità delle cose terrene, la fede non è un’altra cosa, è una modalità sovversiva e sorprendente delle solite cose”.

    1. Amedeo

      “Non c’è di meglio per l’uomo che mangiare e bere e godersi il frutto delle sue fatiche; mi sono accorto che anche questo viene dalle mani di Dio. Difatti, chi può mangiare o godere senza di lui?” (Qo 2,24-25)

      1. “E McGoldrick si spinge fino a parlare di «un fiume di denaro dal Vaticano» utilizzato dall’industria bellica statunitense «che sconfisse i nazisti e mise fine per sempre ai bestiali assassinii dell’Olocausto»”

        E’ un campo minato , per rimanere in tema bellico” l’articolo che lei ha citato e di cui ho riportato un stralcio. Se da un lato è vero che ha contribuito alla fine del reginme nazista dall’altra non posso non notare che l’industria bellica statunitense è la stessa che ha sganciato la bomba atomica. In ogni caso sono soldi sporchi di sangue. Forse avrebbe dovuto astenersi dal finanziare qualsivolgia industria bellica

        1. Berlicchianamente: è il Papa, quindi ipso facto sbaglia. Se ti dimostrano che non era filonazista, dì che ha consentio agli americani di buttare l’atomica.

          1. La mia era solo una riflessione. Non ce l’ho col Papa ne con nessun altro. IL papa come la Chiesa tutta ha fatto tanti errori ma altrettante cose buone. Forse più cose buone.
            La tua risposta mi sembra un ottimo modo per terminare qualsiasi tipo di dibattito.
            Buon weekend.

    1. GIUSEPPE

      ok admin contento: festeggia pure! Ma torna a lavorare ora: ‘sti link sulla guerra civile americana li vuoi mettere?

  3. maria elena

    noè mi piace perché è l’esempio di chi segue Dio con fede, senza vergognarsi, né scendere a compromessi. Un “talebano” dell’amore e misercordia divina.

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