di Salvatrice Mancuso
Non mi improvviso esegeta dei brani del Vangelo, non ne avrei né i titoli, né gli strumenti, ma mi sento destinataria della Parola di Dio. E quindi? Quindi capita che alcune pagine, alcune frasi delle Sacre Scritture o di opere di Santi, ti prendono di mira con più insistenza, colpiscono perfettamente il bersaglio, e tu ne rimani “vittima”, in balia del loro suono. Fanno eco dentro di te, ti accompagnano nella vita ordinaria, le ripensi, le rileggi e cerchi di capire cosa vogliono. Queste parole ti chiedono di essere “animate”, di viverti accanto, mentre lavori o cammini per strada, quando stai per addormentarti o ti svegli. Una volta che ti sono entrate in circolo, improvvisandoti artista, hai la tentazione di farne la “cover”, come di un vecchio successo musicale. Il racconto in questione è una parabola riportata due volte nel Vangelo, “in stereofonia”, da Matteo (18,12-14) e da Luca (15,4-7).: la parabola della pecorella smarrita, la pecorella numero cento, secondo la rivisitazione che ho immaginato. Sono dei passi brevi, con lievi o forse sostanziali differenze nel messaggio finale delle due versioni, ma che mi colpiscono per una bellezza che ti lascia quasi in apnea. Bellezza e tenerezza senza uguali, per cui una mamma potrebbe adottare questa pagina come racconto della buona notte. I protagonisti sono il pastore, novantanove pecore + la centesima pecora. Ma gli obiettivi sono puntati su loro due: il pastore e la pecorella, il cui ruolo è quello di smarrirsi e di fare decadere, da sola, la rotondità aritmetica del gregge. Questo binomio, pastore e pecora, ha un potenziale simbolico elevatissimo e riporta allegoricamente ai tanti items della fede cristiana. E’ all’origine anche di un termine – pastorale – oggi così trendy, quasi nazional-popolare, attorno al quale si svolge una brulicante attività. I fotogrammi del racconto si susseguono formidabili, e lasciano il lettore/ascoltatore/spettatore rapito. L’azione si svolge in luogo difficile, il deserto (Luca) o, alternativamente, sui monti (Matteo) . Saremo alla fine della giornata lavorativa o di notte, e ci aspettiamo un’escursione termica. Il coraggio e la determinazione del pastore sono pari solo alla piccolezza di questa misera creaturina che è una pecora, e in più smarrita. Si sarà per un attimo estraniata perdendo, di conseguenza, il contatto con il gregge di riferimento con cui è abituata a spostarsi, avrà subito un disorientamento spaziale e forse anche temporale..il racconto non sembra attribuirle particolari responsabilità. La pecora non viene descritta come in preda a ribellioni o a deliri di onnipotenza: è insomma caduta in disgrazia e il suo destino fuori dal gregge sembra segnato. Ma altrove c’è un ovile ben protetto, dove un folto gruppo di pecore rimane in sicurezza, al calore, e nessuna delle novantanove soffre di solitudine. Il contrapporsi di queste due immagini, la pecora da sola nel deserto, e le compagne insieme “a casa” al sicuro, è struggente, e sembra avere ispirato Dickens a descrivere le dolorose sere di Natale di chi rimane senza cenone, mentre le case si illuminano e si riempiono di famiglie al completo. Il pastore, tenace e speranzoso, trova la sua pecora e, con modi dolcissimi e delicatissimi, la stringe a se e, per metterla definitivamente al sicuro, la conduce in spalla, come tanti papà fanno con i loro figli, quando li portano a cavalcioni per non farli scorazzare, divertendoli nello stesso tempo.
La narrazione termina con le conclusioni che Gesù specifica con nettezza: in Luca, c’è la festa in cielo celebrata per il recupero di un’anima smarrita dal peccato, l’happy-end del cristiano che ha abbracciato la Croce e seguito Cristo, in Matteo prevale una considerazione che forse punta più sulla vita ecclesiale:…”così è la volontà del Padre vostro che è nei cieli, che neanche uno di questi piccoli si perda”
E su questo secondo aspetto che la parabola mi sollecita considerazioni e ancora emozioni: il Buon Pastore è anche la Chiesa che cura ogni sua pecora. La sua logica sovverte la matematica: 1 pecora non è < 99 pecore, ma è = o (forse) > 99. Perché quella pecora è “smarrita” e in quanto tale, contro ogni principio di economia, per Cristo acquisisce un plusvalore che la rende preziosa agli occhi del pastore. Non so a quanti sia capitato, ma fare l’esperienza da”pecorella smarrita” è un po’ il ground zero dell’esistenza: disconnettersi in maniera improvvisa e traumatica da tutto ciò che è proprio e a cui si appartiene, come il gregge (la famiglia, la comunità) spinge verso il crinale della completa rovina. E qui bisogna credere e sperare di intercettare un “pastore” , qualcuno che, ricordandosi della parabola e in nome del Buon Pastore, riceva un input dal suo cuore e lasci da parte l’aritmetica. Perché ai nostri tempi – tempi di numeri, sondaggi, telecrazia, televoto- novantanove pecore contano di più, e su di loro si potrebbero allocare più risorse. E allora, la pecorella della parabola cessa di essere smarrita e poi ritrovata, ma è semplicemente la numero 100. I poli si invertono: è lei che cerca il pastore, e in un attimo di ripristino del suo equilibrio e del suo orientamento, recupera la strada di ritorno, per poi, magari, non trovare nessuno che l’aspetti o che l’accolga e che l’aiuti a transitare il gate, per rientrare nei confini della vita.
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E se la pecora smarrita in realtà fosse semplicemente quella che si è allontanata per brucare l’erba laddove nessuna l’aveva calpestata? E, conseguentemente, la più preziosa: perchè quella con gli occhi più aperti?
Cosa vedrebbe oggi, la pecora dal di fuori del recinto del Vaticano? Dove avrebbe trovata l’erba non calpestata?
Se pensi di trovare erba buona allontanandoti dal pastore e fuoriuscendo dal recinto della chiesa (non del vaticano, che c’entra?), stai fresco.