Per non finire in tragedia l’amore ha bisogno della compagnia di un adulto

romeo_and_juliet_movie_68di Renato Calvanese

Per non finire in tragedia l’amore ha bisogno della compagnia di un adulto Nel corso della vita e in special modo quando si tratta di faccende d’amore, può capitare di confondere le cose che sono con quelle che sembrano. E così Giulietta può sembrare morta quando in realtà è viva, e Romeo sulla base di quello che sembra può mandar giù una mistura velenosa preparata dalle mani di un esperto speziale e morire un istante dopo. Per squarciare il velo dell’apparenza e non perdersi nel caos delle forme c’è bisogno di qualcosa che ai due tristi amanti di Verona è mancato. C’è bisogno di qualcuno. C’è bisogno della presenza di un adulto.

Che cosa rende straordinari Romeo e Giulietta? Harold Bloom, famoso critico letterario, scrive che “secondo lui l’amore di Romeo e Giulietta è la passione più sana ed edificante che la letteratura occidentale ci abbia mai consegnato.” Può essere vero a patto di ammettere che ogni storia d’amore sarebbe sana ed edificante se divenisse oggetto letterario. Ogni storia d’amore che avesse in sé quella mite pazzia che porta a saltare il muro di un giardino perché “per amore non c’è ostacolo di pietra, e ciò che amore può fare, amore tenta”; ogni storia d’amore che fosse capace di ispirare poesie o sonetti, e che infondesse il coraggio di pronunciare promesse di eternità che si proiettano in un tempo che non è alla nostra portata. Ogni amore che fosse così sarebbe sano ed edificante. E ogni amore è stato così e se non lo è stato di certo lo avrebbe voluto essere.

Ad ogni generazione il mondo assiste allo spettacolo di due fanatici che si scambiano amore reciproco e votano la propria vita l’uno all’altro. Ad ogni generazione due ragazzi si innamorano e improvvisamente il mondo della prosa, della nostra vita quotidiana condita dalle scurrilità dei Mercuzio, dalle meschinità delle Nutrici, dai bulli alla Tebaldo, di conflitti tra famiglie, di calcoli e cinismo, si innalza e si fa poesia. Il mondo guarda, un po’ irride, un po’ invidia, un po’ aspetta al guado la fine di questa febbre, la normalizzazione delle cose, il ritorno alla prosa, la fine dell’incanto. Non è un caso che Romeo e Giulietta siano lirici, che parlino attraverso sonetti mentre il mondo che sta loro intorno è volgare e abietto. Ogni amore porta in sé la speranza di contestare il mondo per come è e di rifondarlo, di rifarlo ad immagine dell’amore. Ma come si fa a mantenersi sempre a questo livello? Come si fa a non disattendere questa promessa che l’amore porta con sè? Una promessa che non è un’illusione ma un segno che i due amanti dovrebbero essere invitati costantemente a seguire, a non perderne le tracce.

Che cosa fanno allora di straordinario Romeo e Giulietta? Nulla. Si innamorano di un “amore improvviso, inaspettato, rapido, troppo simile al lampo che finisce prima che sidica lampeggia”, e fanno tutto ciò che ci si aspetterebbe da due giovani amanti forsennati, animati da un furore quasi selvaggio. Alla fine muoiono ma non è la morte che desiderano. La loro morte non era scritta perché se lo fosse stata allora tutti gli amanti sarebbero condannati. Loro volevano vivere. La colpa della loro fine non ricade su di loro. Che colpa hanno due giovani se si amano senza misura, senza lasciare nulla per il dopo, come se tutto dovesse finire il giorno dopo? Che colpa hanno se si amano in quella forma di idolatria tipica della loro età e che fa dell’amato l’unica realtà veramente esistente, orizzonte totale di gesti e pensieri?

Il punto è che fin dall’inizio della tragedia la storia amorosa di questi ragazzi è lasciata a se stessa. I genitori sono impegnati a farsi la guerra, a stilare progetti, dediti ad altro e comunque incapaci di gettare uno sguardo d’amore sui loro figli. La Nutrice si rivela una “perfida tra i perfidi”, e pure frate Lorenzo, l’unico adulto che svolge un ruolo positivo nella faccenda, aiuta i ragazzi ma senza avere come unica mira il loro bene, bensì uno più grande, la pace tra le loro famiglie. Non c’è un adulto che li accompagni e sono lasciati soli a fare i grandi senza sapere come fare, scimmiottando quello che hanno visto o letto, con la testa zeppa di frasi poetiche e di pose cortesi. Manca davvero per loro la presenza buona di adulti che mostrino l’orizzonte dell’amore. La situazione che vivono è poi insostenibile. Hanno contro tutti: le famiglie, lo Stato, la natura, i capricci del tempo, e questa situazione ambientale di inimicizia li costringe ancor più a celarsi, a vivere il loro amore nel buio della notte quando dovrebbe essere vissuto sotto la luce del sole, davanti a tutti, sotto l’occhio amico di un adulto che possa aiutarli a realizzare quel Bene infinito che desiderano.

La preghiera da fare oggi, giorno di San Valentino, non è tanto che sorgano gli amanti, che continueranno a venir fuori senza che si faccia nulla, ma che sorgano degli adulti capaci di accompagnarli ad adempiere alle loro promesse, a realizzare le loro speranze. Davvero questo tempo ha bisogno di adulti che sappiamo raccontare ai ragazzi che non è vero che l’amore è destinato a morire, che non è vero che in fatto d’amore o muoiono gli amanti, come accade in Romeo e Giulietta, o muore l’amore, come accade tutti i giorni. Come scriveva Shakespeare nel sonetto 116, “l’amore non è soggetto al tempo, non muta in poche ore o settimane, ma impavido resiste al giorno estremo del giudizio.” Raccontare questa bellezza di un amore che “non muta quando scopre mutamenti” è il compito grandioso di un adulto.

fonte: sacrosanteletture

34 pensieri su “Per non finire in tragedia l’amore ha bisogno della compagnia di un adulto

  1. marco

    Bellissimo.
    quanto è vero, quanto meno male e quanto più bene uno si farebbe se incontrasse un adulto capace di guidarlo nell’impresa più bella e più alta, amare, amare veramente l’altro e la vita per l eternità

  2. salvatore scargiali

    Quando ho letto il titolo dell’articolo ho pensato, ho sperato, che l’ “adulto”, definito nel titolo, fosse Dio. Ciò che manca agli amanti disperati, agli amici bulli, alle famiglie interessate, è uno sguardo all’infinito, la convinzione che la vita ha valore sovrannaturale, questo livello più alto che permette di vivere con distacco ma con pieno godimento le cose della vita, tutte le cose della vita, liberi dalla paura di perdere ciò che si ha. Questa paura che accompagna tutti i protagonisti nella difesa della propria passione terrena. Invece, l’articolo cade, come spesso in questo blog, nella didattica. L’adulto è uno che dovrebbe insegnare l’amore, ma il testo “rimane qui sulla terra”, guarda in basso, è rivolto ai ragazzi. Voi direte, ma per aprire i cuori a Dio, ad una visione sovrannaturale della vita, qualcuno ce lo deve insegnare, è vero, ma l’articolo non lo dice. Io, se mi faccio ragazzo, prenderei questo articolo come un sermone, un ‘ennesima raccomandazione, non mi sentirei confortato, non avrei la sensazione di poter godere in pieno la mia passione, di avere la vita piena che l’amore mi da, e che Dio mi promette in eterno.

  3. …e invece l’amore succede tante volte che muore(come lo abbiamo potuto dolorosamente provare un po’ tutti).
    O allora vuole dire che non era “vero” amore?
    Il “vero” amore non muore mai? Ma cosa è “vero” amore? Lo sapete voi?

    1. marco

      Un punto di partenza sarebbe ricordarsi , quando diciamo “ti voglio bene”, che vogliamo il bene dell’altro, e per far questo bisognerebbe prima conoscere cosa è il nostro bene, cosa rende felici, e poi camminare insieme all’altro affinché lo sguardo di entrambi sia fisso su questo Bene, e non sul compagno di vita..Come i raggi della bici, che partono distanti ma guardando al centro alla fine si ritrovano vicini..
      .“Bestiali come sempre, carnali, egoisti come sempre, interessati e ottusi come sempre lo furono prima,/
      Eppure sempre in lotta, sempre a riaffermare, sempre a riprendere la loro marcia sulla via illuminata dalla luce;/
      Spesso sostando, perdendo tempo, sviandosi, attardandosi, tornando, eppure mai seguendo un’altra via” (T.S. Eliot, Cori da “La Rocca”, BUR, Milano 1994,p.99)

  4. paolopancio

    Se il Bardo di Stratford di savi adulti non ne ha inseriti, se la tragedia rimane tragedia, se secoli dopo Berstein in West Side Story con la medesima trama riesce ancora a commuovere forse la Guida avveduta di un adulto non era proprio necessaria, almeno artisticamente; ecco, la pedagogia cattolica o transgender, dovrebbe tenersi a debita distanza dalla Letteratura o dalla Musica se volesse evitare il ridicolo

      1. Quello sopra era un commento a Paolo Pancio. Al quale consiglierei di farsi un giro per l’esegesi shakespeariana. Pare che il Bardo non ritenesse la religione del tutto ininfluente, perfino artisticamente.

        1. Comunque, a titolo personale, la mia tragedia preferita di Shakespeare è e rimane “Otello”. Quella sì che è vita vera, nuda e cruda.
          Uno Shakespeare ormai maturo e che compie la scomoda operazione di mettersi dalla parte del carnefice invece che da quella (scontata) della vittima, affronta in un solo dramma un’infinità di temi, di un’attualità sconcertante: il desiderio di possesso della donna che si muta in uxoricidio (non dico “femminicidio” perché non mi piace), la xenofobia sottolineando che Otello è sempre e comunque il “moro” (l’ “arabo”), la manipolazione mentale che mette in atto un personaggio che sceglie consapevolmente il male come Yago, e soprattutto il circolo vizioso che spinge la pia Desdemona a stringere i nodi che la legano al marito, quanto più egli la calunnia e la maltratta.
          In più, “Otello” è secondo me il dramma che più ha reso nella trasposizione in opera lirica, nello specifico quella del grande Verdi con il libretto dello scapigliato Arrigo Boito. Vi propongo la splendida Ave Maria di Desdemona, la sua ultima Ave Maria, e forse lei lo sa già.

          1. anonimo69

            @ Mercuriade

            ti consiglio di vedere ed ascoltare anche l’Otello di ROSSINI che non è per niente inferiore a quello di verdi. Su Youtube ci sono varie pagine dell’opera rossiniana. A69

            1. L’ho vista e non sono d’accordo. Musicalmente parlando è uno stile completamente diverso e impossibile da paragonare, ma non regge il confronto con tutta la drammaticità e la ricchezza della versione verdiana, soprattutto per quanto riguarda la caratterizzazione dei personaggi (e i complimenti vanno anche al librettista, uno dei “poeti maledetti” nostrani”.

              1. anonimo69

                @ Mercuriade

                dal punto di vista della resa drammatica e della fedeltà al capolavoro scespiriano, hai senz’altro ragione, però da un punto di vista squisitamente musicale, essendo io un convinto rossiniano, preferisco l’opera del cigno di Pesaro. Figurati che la preferisco anche nell’assurda versione di Roma (quella con l’happy end!). Ma ognuno ha la sua opinione, ed è giusto che sia così. A69

  5. paolopancio

    Scioglingua non ha mai letto Bloom né Roth, Phil, entrambi circoncisi entrambi newyork(ark)esi: la religione ebraica e cristiana e a volte l’islam e l’ateismo sono uno dei temi fondamentali della Letteratura, sia per il Critico che per l’Autore, ma è proprio la Pedagogia quel che è insopportabile in Dante, più tollerabile in Willy perché praticamente assente e sopportabilissima in Phil perché inesistente; è lo scopo che affligge, perché l’appesantisce, l’Arte, in particolare se ha a che fare con la Scuola o il Consesso Civile o la Sinagoga o la Chiesa o la Moschea: per i messaggi, morali etici sociali storici e culturali, i telegrammi o i saggi son spesso più utili mentre l’Arte che la gente compra si occupa Bellezza o di Orrore o di Tutte e Due; che scioglilingua pensi all’Arte come all’Ancella della Morale non stupisce ma mi corre l’obbligo di ricordarLe che già Ariosto, 500 anni fa, sembrava più rilassato di lei sugli scopi etici della Poesia; però c’è sempre Tasso, per consolarLa.

    1. marco

      Scusi Paolo non la conosco e forse ho capito male..Ma a me è proprio la pedagogià di Dante che colpisce, e non solo a me. Forse a lei appesantisce ma non appesantisce in generale…allego quello che pensava il popolo di Firenze /
      La pubblica richiesta perché sia spiegato Dante ai cittadini di Firenze nell’anno 1373

      Venne scelto Boccaccio, nel 1373, per commentare pubblicamente la Divina Commedia – che allora veniva ancora chiamata El Dante -, in risposta alla pubblica richiesta che era giunta al Comune di Firenze in merito, richiesta che si è conservata nel Libro delle Provvisioni[1].
      Così recita la richiesta del popolo fiorentino:
      «A favore della maggior parte dei cittadini della città di Firenze che desiderano, tanto per se stessi quanto per altri cittadini che desiderano aspirare alle virtù, quanto anche per i loro posteri e discendenti, essere istruiti nel libro di Dante, dal quale tanto nella fuga dei vizi quanto nell’acquisizione delle virtù quanto nella bella eloquenza possono anche i non grammatici essere informati, con reverenza si supplica voi, signori Priori delle Arti e signor Vessillifero della Giustizia del Popolo e del Comune di Firenze, che vi preoccupiate di provvedere opportunamente e di fare solennemente approvare che voi, signori Priori delle Arti e Vessillifero della Giustizia, possiate scegliere un uomo valente e sapiente, bene dotto nella scienza di questo tipo di poesia, per il tempo che volete, non maggiore di un anno, perché legga il libro che volgarmente è chiamato El Dante, nella città di Firenze, per tutti coloro che vogliono ascoltare, per tutti i giorni non festivi e in un ciclo di lezioni continuo, come di solito avviene in simili affari; e con i modi, le forme, gli articoli e le clausole che a voi, signori Priori e Vessillifero, sembreranno opportune»[2].
      È evidente che tutti sapevano che quel libro parlava della vita ed insegnava a vivere bene.
      «Facto diligenti et secreto scruptineo», con 186 «fabas nigras pro Sic» nel Consiglio del capitano e del popolo, e 114 presso il Consiglio del podestà e del comune di Firenze – si votava allora con fagioli neri per esprimere il “sì” e bianchi per esprimere il “no”, nello stesso giorno la petizione venne approvata[3]. Ci furono anche 18 voti contrari, probabilmente di membri delle famiglie che Dante aveva criticato nella Commedia.
      L’incarico venne assegnato a Giovanni Boccaccio che aveva allora sessant’anni: egli tutti i giorni non festivi (eccetto la lezione inaugurale che si svolse di domenica) a partire dal 23 ottobre, nella chiesa di Santo Stefano di Badia, lesse i primi diciassette canti dell’Inferno, fermandosi attorno alla sessantesima lezione per motivi di salute.

  6. anonimo69

    Beh……l’arte per l’arte non è un principio tanto schizofrenico. Croce, a mio modesto avviso, aveva sostanzialmente ragione: soltanto considerando l’arte come una forma in cui un QUALSIASI contenuto si esprime, avremo una concezione aperta dell’arte.
    Solo in tal modo potremo avere una visione dell’arte che ci permetta di apprezzare qualunque opera geniale a prescindere dal contenuto di cui essa è portatrice.
    Se noi stabiliamo che, ad es. un lavoro, per avere valore artistico debba avere un contenuto edificante (e qui i marxisti, e NON SOLO LORO, hanno preso una cantonata pazzesca), ci mettiamo nell’impossibilità di apprezzare e di considerare “aritistico” un lavoro, magari originale e fantasioso, che, però, non abbia quel contenuto.
    Non è che il contenuto non conti niente, ma conta sotto il profilo culturale, storico, psicologico ecc., ma NON sotto quello artistico.
    Ad es. quando Giulietta dice: “La rosa con un altro nome lo stesso profumo avrebbe e se Romeo non si chiamasse Romeo, sarebbe la stessa splendida creatura che è. Perciò, getta via il tuo nome, Romeo, e prendi tutta me stessa!”.
    dice qualcosa di grande sotto l’aspetto artistico (in quanto forma) e, parimenti, qualcosa di grande sotto il profilo psicologico (in quanto contenuto). A69

  7. Forse, se proprio ci si vuole restringere a considerare edificante la Divina Commedia, più giusto usare, invece che “pedagogico”, il termine “didascalico”, che è uno dei modi possibili dell’interpretazione dell’opera, aldiqua della pura poesia.

  8. Vorrei fare anche un’altra osservazione, se mi si consente, e che non deriva da letteratura, ma da realtà, ovvero, da quello che della realtà è stato tramandato attraverso le memorie: per essere vero l’amore deve essere provato dal crogiuolo del dolore.
    Sono reduce dalla lettura di diversi “diari della Seconda Guerra Mondiale”, e sono stata veramente sorpresa di vedere quante storie d’amore fortissime sbocciarono in quel periodo di morte, la cui bellezza supera perfino quella degli amori letterari, perché non si esprime con parole altisonanti, ma con la vita stessa.
    Ad esempio, fidanzate o mogli pazze d’amore che hanno seguito di propria volontà i loro uomini nei vagoni di bestiame diretti ai campi di sterminio, accettando di morire insieme a loro; mariti che si sono fatti ammazzare pur di difendere le loro donne dagli invasori (che non disdegnavano affatto la violenza carnale) affrontando le mitragliatrici con nient’altro che un bastone in mano; innamorati dei quali magari uno era ebreo o partigiano e che hanno pagato tutto questo a carissimo prezzo (a volte anche con la vita), e altri che hanno sfidato peripezie da far girare la testa pur di ritrovarsi dopo essersi persi di vista in mezzo a tutto quello sfacelo.
    Non sono storie “di un altro pianeta”; potrebbero essere benissimo le storie dei nostri nonni.

  9. Mercuriade:

    “per essere vero l’amore deve essere provato dal crogiuolo del dolore”

    …stante il fatto che TUTTI lo siamo provati dal “crogiuolo (cosiddetto) del dolore”, di necessità viene che anche chi prova amore (per essere vero amore) sia provato da questo (cosiddetto) “crogiuolo” da cui tutti sono provati, in amore o che altro. Dimodoché è superfluo anche dirlo.

    Hai voglia trovarne “crogiuoli” di tutti generi!

    1. Sbagli Alvise a pensare sia superfluo dirlo…
      Vero è che tutti in qualche modo passano per un qualche “crogiuolo”, ma per taluni questo è motivo di inciampo, di scandalo e di rinuncia.
      Anche nell’amore, non solo nell’amore, come nella fede, non solo nella fede…

    1. Ecco questa è una domanda di senso compiuto (rispetto la precedente…).

      Chiarisci cosa intendi per “cosa gli è successo (a taluni)” e/o “solo i risultati”…

      1. Ok, allora ne approfitto per consigliare uno di questi diari, e insieme fare un esempio concreto: “Al di là delle frontiere”, autobiografia di Angela Giglino, ora non più tra noi.
        Una storia che ha davvero dell’incredibile: Angela, staffetta partigiana durante il periodo più terribile della Seconda Guerra Mondiale in Italia, quello dell’invasione tedesca successivamente all’8 settembre del 1943, s’innamora proprio dell’ufficiale tedesco dal quale stava per essere arrestata, il maggiore della Wermacht Hans Wiedermann, al punto di seguirlo mischiata alle truppe tedesche durante la ritirata, fino in prima linea, prendendosi addosso tutti i rischi che può prendersi un soldato!! Si può immaginare cosa avesse scatenato una storia simile: accuse di connivenza con il nemico, di essersi venduta ai Tedeschi, ecc. Hans, da parte sua, rischiò la corte marziale, e quella tedesca non perdonava, per aver portato con sé una donna (partigiana per giunta) nascosta tra i soldati.
        Angela Giglino ha sempre ribadito la sua convinzione che questo amore fosse voluto dalla Provvidenza, perché fu proprio lei a convincere il maggiore Wiedermann a sminare la zona della laguna veneta: dunque questo amore significò la salvezza per migliaia di persone; cosa che fu riconosciuta anche dal tribunale degli Alleati, che lo rilasciò proprio in considerazione del suo comportamento esemplare.
        Intanto, dal momento in cui Hans era stato catturato dagli Anglo-Americani, Angela lo aveva perso di vista; ma lei era una donna che più “tosta” non si può, e, appena ottenuto l’annullamento del precedente matrimonio (un disastro fin dall’inizio), partì alla sua ricerca non sapendo nemmeno lei dove andare, e fu solo grazie alla Provvidenza (cosa che dice lei stessa) seppe che era prigioniero, e, già che c’era, testimoniò in suo favore. Finalmente, nel 1946, poterono sposarsi e stabilirsi a Francoforte: un matrimonio che durò fin quando Hans non morì, nel 1964, in un incidente stradale.

  10. Bariom.

    …ma a voi, si capisce, quello che più vi sta a cuore sono i più deboli e cioè i bambini degli eventuali non passati per il crogiuolo del dolore con tutte le conseguenze di questi casi. O cosa vi sta a cuore, sennò?

    1. Boh… e io cosa ne so di cosa sta a cuore agli altri?
      Poi quella dei bambini poi proprio non l’ho capita… non mi pare si parlasse di bambini… ma forse mi sono perso io qualcosa 😐

  11. …chiarisco che gli pole essere successo a tal’altri che siano tutti passati per diversi crogiuoli di così tanti generi che nemmeno ci possiamo immaginare!.

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