L’età ingrata

rembrandt
di Andrea Torquato Giovanoli

Se il mio primogenito fosse ancora vivo quest’anno compirebbe quattordici anni.
Sarebbe a pieno titolo un teenager, un adolescente, e chissà come me la caverei con lui. Chissà se sarebbe un ribelle, un contestatore, uno di quelli che per affermare se stesso scappa di casa, oppure se sarebbe un introverso, un dubbioso silente, uno di quelli che pur rimanendo in casa ti estromette dalla sua vita chiudendosi in un mondo tutto suo, ermetico, sigillato, genitore-repellente.

Proprio come nella parabola del figliol prodigo, quella dove il padre misericordioso si trova a dover gestire entrambi i figli desiderosi di autoaffermazione, quasi fosse nel bel mezzo di un paradigma della ribellione adolescenziale. Anche lì c’é un figlio che cerca la sua pur legittima individualizzazione lasciando la casa paterna, ossia cercando se stesso fuori dall’ambito famigliare, sperando forse di trovare nel contrasto tra ciò che gli è stato insegnato e ciò che si trova nel mondo il proprio giusto posto. Così parte, prende le distanze dal pianeta domestico, portandosi però dietro quella sua parte di eredità, quel bagaglio di educazione, esempio e valori che ha appreso fino a quel momento dai suoi genitori. Tuttavia nel frequentare il mondo egli disperde questo patrimonio, perdendo la sua identità, anziché trovarla com’era nelle sue speranze: così, invece che affermare se stesso, rimane schiacciato da una vita che era impreparato ad affrontare da solo. Tuttavia alla base di ciò che egli è, in fondo al suo cuore, è rimasto un seme buono, un fondamento proprio di quell’eredità paterna che gli è stata lasciata, e quando il tempo è maturo e le circostanze adatte, quel semino germoglia e lo riporta alle sue radici, che ora, dopo essersi messo duramente alla prova, finalmente riconosce come la vera realizzazione di sé. E così ritorna.

A casa, invece, è rimasto l’altro figlio, quello che anche lui sente il pur legittimo desiderio di affermare se stesso, ma che forse per un eccesso d’ingenuità, o per troppa timidezza, o magari per comodità, si attarda ad uscire dalla sicura struttura dell’infanzia, quella in cui basta rimanere nel solco tracciato da chi ti mantiene per evitare la fatica di scoprire i propri perché. Egli rimane nella casa paterna, rassicurato da un ambiente che comunque gli evita gli spigoli della vita, il salato corrispettivo richiesto dalla voglia di libertà fraintesa dal fratello, ma anch’egli è dilaniato dalla tensione interiore ad individualizzarsi e così subisce la propria situazione, anziché cercare di scrollarsela di dosso, non comprendendo che tutto ciò che gli si dice e si fa per lui è per il suo bene: in buona sostanza si rifiuta di appropriarsi della sua parte di eredità per paura di diventare uomo, così, ovviamente scontento, mugugna.

Entrambi i figli sono nella crisalide dell’adolescenza, non più bruchi, ma non ancora farfalle, mentre però il minore morde il freno ed esce prima che le sue ali possano sostenerlo in volo, il maggiore si trattiene nel bozzolo, come se dovesse restarvi per sempre, rischiando di rimanerne soffocato.

Ecco, a me capita sovente di essere chiamato a raccontare la mia paternità, mi è stata data anche l’opportunità di scriverne, salvo poi essere redarguito da qualche ascoltatore, che in maniera un po’ sorniona mi ricorda che non ho figli adolescenti, e ridacchiando sotto i baffi, mi aspetterà al varco quando anche il mio maggiore sarà un teenager.
E costui ha ragione.
Ma auguro a me stesso di giungere a quel giorno continuando a guardare a quel manuale di istruzioni per la vita in tutti i suoi aspetti che è la Parola di Dio.
Poiché allora avrò anch’io l’opportunità di attingere all’esemplare comportamento di quel padre buono d’evangelica memoria, il quale davanti alla ribellione adolescenziale sa fare un passo indietro, rimanendo però sempre presente al figlio che si è allontanato in cerca di se stesso, in paziente, ma anche fiduciosa attesa del suo ritorno, di quel momento in cui il seme buono del suo esempio e dell’educazione data germoglierà per essere finalmente riconosciuto e compreso, anche da chi, rapito dall’ormone impazzito della voglia di mondo, ottenebrato lo disprezzò, andando a saggiare di sua propria mano quanto la fiamma possa ustionare.
Davanti al legittimo desiderio di individualizzarsi dei miei futuri teenagers cercherò anch’io di ricalcare il comportamento di quel padre misericordioso della celeberrima parabola, nel saper anche spronare il bamboccione ad appropriarsi della sua maturità («Tutto ciò che è mio è tuo», Luca 15,31), aiutandolo a prendere coscienza di essere individuo capace di autonomia, pur nel riconoscimento di un’appartenenza che dev’essere intesa come fonte da cui attingere senza lasciarvisi imprigionare.

Questo l’auspicio per il me stesso di un domani: la pazienza amorosa di Colui che rispetta la libertà anche nel doloroso (e si spera momentaneo) abbandono, e l’amorevole distacco di Colui che sa allontanarsi (senza essere assente) per richiamare chi non è più bambino a riconoscersi uomo.
Rimanendo infine, come padre in attesa sulla soglia di casa, che passi, e passi presto, quell’età ingrata.

6 pensieri su “L’età ingrata

  1. Elena Maffei

    Soprattutto il Padre sta in vigile attesa…anche se a volte noi genitori di adolescenti, e anche noi insegnanti, abbiamo gli occhi velati dalle lacrime. Ma non molliamo, e continuiamo ad affidarli e affidarci al Padre di cui siamo tutti figli.

  2. Elena Maffei

    Ultima riflessione: forse nell’ “affare conigli” ci siamo comportati come i due figli… il papa ci considera così adulti da parlare molto liberamente perché “ciò che è mio è tuo”, cioe’ siamo nella libertà che Gesù ha pagato per tutti noi. Evitiamo di ascoltare le voci dei servi (repubblica e c.) e ascoltiamo piuttosto con le orecchie dell’amore!

  3. paolopugni

    Ad occhio vista l’età dei tuoi, aspettati almeno una ventina d’anni… d’età ingrata

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