Costanza Miriano intervista Emanuele Fant – Credere
Quando ho letto il pezzo che un tal Emanuele, continuavo a dimenticarne il cognome, aveva mandato per il mio blog ne sono rimasta folgorata. Una scrittura intelligentissima, brillante e venata di ironia, e mi era anche venuta voglia di conoscerlo, ma il proposito è scivolato rapidamente al numero 423 delle cose da fare, essendo io una quadrimamma multilavoratrice. Dopo un po’ ho scoperto che avevamo un’amicizia importante in comune, un sacerdote cappuccino, un biblista profondo e innamorato, e la cosa è salita in graduatoria. Diciamo al numero 200.
Fino a quando quel cappuccino, fra Roberto Pasolini, ci ha trascinati, tutta la mia famiglia paninomunita, vicino Roma a vedere Ettore dei poveri, lo spettacolo di marionette di cui questo famoso Emanuele – che, poi mi sono ricordata, si chiamava Fant – era il regista. E così ho finalmente conosciuto questo giovane uomo affascinante e coraggioso, con una bellissima moglie ballerina, e i loro due bambini al seguito. Un uomo che aveva lasciato un lavoro vero, cioè proprio nel senso di pagato!, in teatro, per andare a fare il regista di una compagnia sgangherata, composta da gente che fratel Ettore aveva pescato tra i disperati della strada. Infine ho letto il suo libro, La mia prima fine del mondo, e ho deciso che deve vincere il Nobel per la letteratura, talmente è scritto bene. Un piccolo caso letterario, che tra i libri venduti online primeggia da tempo nel settore religione, perché il passaparola tra noi cristiani funziona bene. D’altra parte tutto è partito da quei dodici che hanno cominciato a passare la voce in giro. Perché La mia prima fine del mondo, e in fondo tutta la vita di Emanuele, racconta come lo Spirito Santo sappia fare meraviglie, tirando fuori il meglio da ognuno di noi. Senza mai tarpare le ali, senza togliere quello che ci fa veramente felici o appannare i nostri talenti. Perché lui ama la nostra unicità, ci vuole proprio così, e se uno è un po’ punk dentro, troverà una strada dentro il suo disegno anche per lui. Insomma, a questo punto devo sapere di più di questo tipo, mi sono detta.
Ci racconti le circostanze del tuo incontro con Fratel Ettore?
Io ero poco più che maggiorenne, avevo una punk band messa insieme coi compagni di liceo. Di quel periodo ricordo una cosa in particolare: non credevamo davvero in niente. Non è una frase fatta: un giorno la professoressa Caruso ci diede il tema “Quali sono i tuoi valori?”, ed io cambiai traccia, scegliendo quella (a prima vista più complessa) di letteratura. Non avevo idea di cosa scrivere e io, di solito, qualcosa da scrivere lo avevo sempre. Dopo una vita spesa ad essere educato (asilo, scuole elementari, scuole medie, catechismo, scoutismo), sembra incredibile, ma io sentivo di non avere imparato nulla di fondamentale.
Sono entrato quasi per caso in collisione con il mondo di fratel Ettore, un religioso settantenne che si occupava di poveri, una vera leggenda a Milano, ed ho subito sentito che poteva mostrarmi qualcosa di speciale e, soprattutto, qualcosa di fatto su misura per me. Così mi sono organizzato con qualche amico per spendere nella sua comunità alcuni sabati di volontariato, più che altro per curiosare.
Mi sono chiesto, di recente, ma perché mai noi giovani alternativi siamo andati a cercarci proprio lui, un frate burbero e nemmeno un minimo progressista? Perché avevamo bisogno di cose forti, di cose poetiche e di cose autentiche. E fratel Ettore rispondeva a tutte queste necessità.
Il mio primo vero approccio da vicino è stato nella sua automobile, quando mi ha chiesto come mi chiamavo e poi è partito sgommando sulla superstrada Milano-Meda, costringendomi a fare il mio primo atto di affidamento alla Madonna, vista la guida.
Cosa ha provocato questo incontro nella tua vita e cosa continua a provocare?
I primi tempi mi pareva non stesse provocando granché. Quando facevo i miei pomeriggi di volontariato mi sentivo buono, poi tornavo a casa dove mi aspettavano le stesse abitudini e gli stessi problemi. Se dicessi che quell’incontro ha provocato una immediata conversione, mentirei. Non ho gettato gli abiti in piazza, né mi sono rasato il capo (ho continuato a sfoggiare la mia cresta, poi una imponente cotonatura). Però, nella mia interiorità, nella mia immaginazione, ho iniziato a far posto a fratel Ettore, una creatura originale di cui avere stima, con una sfacciata croce rossa sul davanti della tonaca. Mi rendo conto adesso che nemmeno fratel Ettore era il vero incontro fondamentale, ma un cavallo di Troia che ha iniziato a germogliarmi dentro, per anni, molti anni.
Cosa ti ha colpito in lui all’inizio? E poi, piano piano, conoscendolo hai trovato in lui qualcosa che magari non mostrava a tutti?
Il primo innamoramento è stato, come spesso accade, provocato dall’estetica, da quello che ho visto, e che mi affascinava. Ho trovato geniale la sua automobile con la statua della Madonna montata sul portapacchi, che lui guidava con noncuranza, come fosse normale. Mi hanno affascinato le processioni di poveri e sciancati che si trascinava per le strade di Milano costringendo tutti a sgranare rosari. Mi piaceva che sotto alla tonaca spesso dimenticasse il pigiama, che avesse i capelli bianchi sempre alla rinfusa, che scrivesse i suoi appunti sulla carta della pizza che poi perdeva. Noi aspiravamo ad essere strani e provocatori, e pure a cambiarci poco. Chi, più di lui, poteva diventare il nostro santo protettore?
Restava solo il fatto della religione, che era una cosa per noi incomprensibile e che ci separava. Ecco, la parte migliore di fratel Ettore, quella che ho imparato a scoprire con gli anni, la più preziosa, è proprio il suo nucleo di fede incrollabile, una capacità di lettura dei fatti sempre con uno sguardo diverso, profetico, che poi si traduceva in azioni che spiazzavano tutti. Questo nocciolo privato e, al contrario di quanto si pensa, per niente esibito, è l’unica parte davvero immortale di fratel Ettore, e resta tutt’oggi la più segreta.
Potresti provare a descriverlo a chi non ne ha sentito mai parlare?
Fratel Ettore era un religioso camilliano molto fiero della sua veste nera con la croce rossa sul petto. Amava la Vergine Maria a tal punto da portarsene sempre una statua, piccola o grande, dietro. A cinquant’anni, dopo una vita in corsia a curare i bambini, è stato trasferito a Milano. Lì ha scoperto che la capitale economica d’Italia aveva un lato oscuro, popolato di disperati, la maggior parte dei quali si andava a nascondere nei cunicoli sotterranei della Stazione Centrale. Per loro ha creato un primo rifugio sotto a due archi dei ponti della ferrovia, poi diversi altri in Italia. Dal 1979 ha inaugurato un modo nuovo e originale di intendere l’assistenza ai bisognosi, sostenendo che le offerte di cibo e di denaro servono a poco, proponendo un percorso di vita insieme, per sollevarsi dalla miseria materiale e morale, accettando la povertà come una benedizione.
Cosa fai nella vita, oggi, dopo questo incontro?
Ho raccontato dei miei primi approcci con fratel Ettore, ma le vere cose incredibili sono avvenute dopo: d’improvviso ho smesso di frequentare le sue case, ho studiato teatro all’università e ho iniziato a farlo di mestiere, dietro le quinte. Per molti anni l’unico filo che mi ha legato a fratel Ettore è stato qualche furtivo pensiero serale, simile a una preghiera. Poi c’è stato il suo funerale, al quale ho partecipato. Finché, un giorno, mi ha telefonato sorella Teresa, l’erede di fratel Ettore, che non sapeva nemmeno bene chi fossi. Mi ha detto: “Ho saputo che fai teatro, anche io voglio farlo, qui, con i poveri”. Mi ha invitato a Casa Betania di Seveso, ed è iniziata l’avventura del Teatro della Misericordia, un laboratorio permanente nel quale da cinque anni creiamo spettacoli con gli ex alcoolisti, i malati psichiatrici, i clandestini ospiti dell’Opera Fratel Ettore. Il cammino teatrale coi poveri è avanzato parallelo a una vera scuola di fede, che mi ha portato a fare delle scelte che altrimenti nemmeno avrei considerato. Ogni volta che ci ripenso mi vengono i brividi, a pensare come una vita ideale si è composta da sé, recuperando tutte le mie abilità e inclinazioni, per metterle al servizio del Senso.
Come cerchi di educare i tuoi figli?
Prima di conoscere Gesù di persona, non mi sfiorava l’idea che potessi nemmeno generarli. Solo la fede mi ha autorizzato a sentirmi responsabile di altre piccole creature, perché mi ha fornito un quadro di riferimento, e tutte le risposte possibili per superare con dignità pure l’età dei perché (vedremo come andrà con l’adolescenza…). Mi sono accorto che i bambini costruiscono un vero puzzle con le risposte che gli diamo e, a differenza di noi, poi si ricordano forma e dimensione di ogni tessera, e ci fanno notare quando non si incastrano. Se io non avessi ricevuto il dono del sistema più perfetto di comprensione di ogni cosa, farei davvero dei pasticci.
Poi, soprattutto, ho questa convinzione: il compito più grande di un genitore è saper spiegare a un figlio cosa è la morte, e come la si affronta, e questa risposta la si conosce solo se si ha una vera fede. E’ il fulcro della nostra esistenza, eppure è un argomento ancora così tanto taboo, pure in famiglia. Io credo che se un padre è in grado di testimoniare (non di dire a parole, ma di testimoniare) come si esce di scena, e quanto è giusto, sensato e, perché no, pure entusiasmante farlo, regala al figlio una serenità inattaccabile, una piccola epifania da tirare fuori nei momenti di buio. Non vedo eredità migliore, e mi alleno per questo.
Infine, la letteratura. Hai un grande dono come scrittore. Perché scrivi? Cosa è per te la scrittura? Ci consigli qualche libro per le vacanZe?
Prima consideravo la scrittura una sfogo. Quando ero arrabbiato e non stavo bene, prendere una penna in mano significava vomitare le mie difficoltà, separarle da me, ovviamente facendo sempre molto caso alla forma. Se quello che ne usciva mi pareva meritasse di passare alla storia, allora ricevevo in dono dalla scrittura, oltre allo sfogo, anche il piacere dell’affermazione (che tira sempre su di morale).
Per molto tempo ho avuto paura che se avessi risolto i miei problemi, avrei perso pure il dono della creatività, che credevo alimentata dai fantasmi interiori.
Quando ho iniziato la mia nuova amicizia con il Padre, ho vissuto un lungo periodo in cui ho messo da parte ogni risorsa creativa, perché mi sembrava eccentrica, e quindi inadatta al mio nuovo cammino.
Poi la scrittura (così come il teatro) mi sono state ridate, finendo però nella giusta casella: non un fine, ma un mezzo. L’arte come scopo è un vero e proprio idolo, ed è pure poco fertile, oltre che distruttivo. “Scrivere o vivere, bisogna scegliere” si diceva in un bel testo teatrale di Eric-Emmanuel Schmitt. Ecco, io ho scelto di vivere e, nel tempo che resta, faccio qualche nota a margine scrivendo.
Ecco i libri che consiglio: “Stecchiti. Le vite curiose dei cadaveri” di Mary Roach, ed. Einaudi, godibilissimo, appassionante, non tratta il tema “morte” alla luce della fede, ma fornisce molta materia di riflessione; “Come voce di sottile silenzio” di Cesare Falletti, ed. Paoline, perché in vacanza può capitare di entrare in contatto con la quiete, e bisogna sapere che fare; “Il trattamento Ridarelli” di Roddy Doyle, ed. Salani, un cult personale.
fonte: Credere
L’ha ribloggato su Beppe Bortoloso.
Quello che mi è piaciuto di più:
“A cinquant’anni, dopo una vita in corsia a curare i bambini, è stato trasferito a Milano. Lì ha scoperto che la capitale economica d’Italia aveva un lato oscuro, popolato di disperati, la maggior parte dei quali si andava a nascondere nei cunicoli sotterranei della Stazione Centrale.”
….e di meno:
“…e mi era anche venuta voglia di conoscerlo, ma il proposito è scivolato rapidamente al numero 423 delle cose da fare, essendo io una quadrimamma multilavoratrice. Dopo un po’ ho scoperto che avevamo un’amicizia importante in comune, un sacerdote cappuccino, un biblista profondo e innamorato, e la cosa è salita in graduatoria. Diciamo al numero 200.”
Pingback: Fratel Ettore, il mio maestro punk | Infodirilievo
OT: un mio veloce passaggio per segnalare questo appuntamento:
Domenica 5 ottobre, ore 17: veglia delle Sentinelle in piedi ad Arezzo (in Piazza Risorgimento)
Qui il link: https://www.facebook.com/events/571655612939159/
Ciao a tutti!
P.S. : continuo a pregare per Roberta e le altre vostre intenzioni! E oggi ricordiamo in modo speciale i nostri amici più fidati, i Santi Angeli Custodi, chiedendo la loro intercessione: in particolare quelli di Roberta e del suo bambino!
Scusate, il sentinellaggio di domenica sarà svolto contemporaneamente in 100 piazze d’Italia: una ragione in più per esserci!
Il “sentinellaggio”…… BRRRRR come suona male 😉
” A che punto è la notte?”
Il solo dubbio è “che libro portare?”.
Questo è molto vero: “[…] il compito più grande di un genitore è saper spiegare a un figlio cosa è la morte, e come la si affronta, e questa risposta la si conosce solo se si ha una vera fede. E’ il fulcro della nostra esistenza, eppure è un argomento ancora così tanto taboo, pure in famiglia. Io credo che se un padre è in grado di testimoniare (non di dire a parole, ma di testimoniare) come si esce di scena, e quanto è giusto, sensato e, perché no, pure entusiasmante farlo, regala al figlio una serenità inattaccabile, una piccola epifania da tirare fuori nei momenti di buio”.
….morire il più coraggiosamente e, di conseguenza, più serenamente che sia possibile.
Quale testimonianza più nobile?