di Sergio Sessa
Se si dovesse, per assurdo, introdurre nelle competizioni olimpioniche la disciplina del giudizio o della mormorazione verso il prossimo, penso che rischieremmo tutti seriamente di finire sul podio; certo dovrebbero organizzarsi nel dotare la manifestazione di uno scranno di dimensioni adeguate, ma, in ogni caso, per la gloria che genera una/ogni premiazione saremmo disposti a stringerci..
C’è infatti un’arte, un’attitudine nella quale tutti noi, chi più chi meno, siamo come naturalmente predisposti e ci sentiamo a nostro agio. Quante volte mi è capitato di veder stringere alleanze, creare comunione e sentirsi come tra fratelli, quando si condivide il gustoso e gratificante cibo del giudizio verso qualcuno, specie quando questo qualcuno, stranamente, siamo convinti di conoscerlo fin troppo bene. Perché questo è lo sport che sentiamo per noi il più affine e il più naturale? Lo chiedo a me stesso prima di tutto.
Una risposta che mi do è la fragilità mia, e della natura umana in genere; ossia quando io punto il dito contro il comportamento o l’estetica di una persona, per evidenziarne gli aspetti che ritengo inaccettabili, risibili o da stigmatizzare, automaticamente distolgo i miei occhi da ciò che in me o di me potrebbe essere altrettanto biasimevole o non adeguato agli standard del pensiero comune. E questo rassicura, fa sentire giusti, fa sentire a posto. Ora e solo ora ho/abbiamo qualche motivo o chance in più per essere sicuri di essere accettati dai più, dal gruppo, dalla società; e questo dà sicurezza, dà carburante per affrontare nuove situazioni, nuovi rapporti, per essere parte e non spettatore della società, delle persone che contano, di chi ha voce in capitolo nelle discussioni, nei salotti, o solo anche in famiglia.
E, per spingersi un po’ oltre, direi che in questo atteggiamento, in fondo noi cerchiamo e chiediamo, anzi supplichiamo la vita stessa; sì, la nostra vita, il diritto ad esserci, il diritto ad essere considerati; qualcuno che ci dica ogni giorno: tu esisti, tu sei vivo, ti vediamo, puoi parlare, puoi dire la tua..
Ma, è questo che dà davvero la vita? È questo continuo elemosinare l’ essere riconosciuti che davvero ci dona la serenità, la pace e la gioia di saperci vivi e pensanti? Ovviamente la domanda è retorica; ma la risposta no. Perché la risposta ha un nome e un volto, quello del Signore Gesù, che ha indicato e regalato le coordinate per ricevere l’acqua viva che sola può dissetare l’esigenza non tanto di saperci parte di un gruppo, di un club, dove poter ricevere gloria gli uni dagli altri, ma di poter, una volta per sempre dire: mi basta essere ri-conosciuto da te o Signore e questo mi è sufficiente, questo mi dà pace. In fondo c’è in realtà, sempre una voce che ci parla dentro (almeno per chi non ha messo definitivamente a tacere la propria coscienza, relegandola e segregandola a doppia mandata in una fredda e insonorizzata cella del cuore). È quel senso di malessere (più o meno leggero a seconda della santità di ognuno), quella patina di sudicio che, se presi in considerazione senza paura e onestamente, ci indicano che non è quella la strada giusta che dobbiamo percorrere per essere persone, o meglio figli, secondo il cuore di chi ci vuole come Lui.
Mannaggia se è vero!
E come mi ricordava una cara amica.. Nel gesto di puntare il dito indice verso qualcuno..altre tre dita sono rivolte verso di noi..