L’obbedienza

geppetto

di Andrea Torquato Giovanoli 

Una delle circostanze più gustose della mia esperienza di genitore è sempre stato il momento in cui ho vestito ciascuno dei miei figli. Con ognuno di essi ho condiviso attimi di acuta intimità durante la vestizione in quel periodo della loro infanzia in cui già si reggono in piedi, ma ancora non sono autonomi per procedere senza aiuto nell’indossare i propri indumenti.

Attualmente ho il mezzanello in questa fase.

Ogni volta lo metto sul fasciatoio e ci troviamo l’uno di fronte all’altro, quindi con complicità giocosa, procediamo a ripetere quel breve rituale di gesti ben noti che condividiamo assaporandone ogni movenza fino a vestizione completa. Le prime volte, come naturale, il monello si divincolava ed opponeva una certa resistenza, ma col tempo ha compreso che aiutandomi a vestirlo non solo ci si sbriga più velocemente, ma si può trarre anche un certo gusto dal procedimento. Ora il meccanismo è ben collaudato: non appena lo tiro in piedi sul fasciatoio egli si appoggia a me e mi porge ad uno ad uno tutti gli arti, tanto che non sono più io a vestirlo e lui ad aiutarmi, ma mi pare quasi il contrario, lui si veste da solo ed io semplicemente gli do una mano. E tale risultato è dovuto esclusivamente alla docilità obbediente con cui egli si affida alla mia volontà di prendermene cura. Ogni volta però questa situazione mi richiama a quella volontà di bene che il Padre provvede per ogni suo figlio e che gli propone, sapendo che questa si attuerà comunque. Ai suoi figli egli chiede solo di abbandonarsi al Suo disegno con fiducia, chiamandoli a collaborare alla sua attuazione godendone già nell’immediato la grazia che ne scaturisce e che sarà massima al compimento. L’alternativa è un’inutile disobbedienza, un’opposizione sterilmente ribelle, cagione soltanto di malessere ed infelicità immantinente ed il rischio di un rifiuto imperituro.

Ciò mi dona ultimamente il senso di come l’uomo, nella sua figliolanza al Dio d’Amore, non venga vocato a far altro che ad obbedire a quella volontà d’amore che lo salva. Ed obbedendo a tale volontà d’amore la creatura realizza sé stessa: creata per amore, compie il proprio destino nell’amare dell’amore di cui è amata.

Poiché l’unico modo per l’uomo di esprimere il proprio amore a Dio, infatti, è quello di compiere, con un atto di volontà propria, la volontà del Padre: far sì che la propria volontà sia in comunione con quella di Dio, cosicché la volontà di Dio sia la propria. Questa è l’obbedienza che Dio vuole dalle sue creature: la disponibilità a servire i Suoi disegni come riconoscimento che la volontà Sua è buona e che è finalizzata sempre ad un destino di bene.

Conseguenza di ciò è il servire: ma anche in questo caso, siccome non è possibile all’uomo, in quanto creatura, avere l’iniziativa nel servire direttamente il Creatore, il quale non ha certo bisogno di essere servito, ecco che Dio concede alle sue creature di servirlo mediatamente nel servizio delle une alle altre, in obbedienza alla Sua volontà. Ed in questo si attua la carità verso il prossimo.

Ma l’amore di Dio per l’uomo è tale che comporta una grande responsabilità. Responsabilità che viene giocoforza tradita, vista la connaturale insufficienza umana, ma va bene lo stesso: al Signore basta la libera adesione della volontà, che ultimamente si traduce proprio nell’obbedienza, per il resto, quello che manca all’uomo ce lo mette Lui con la Sua Grazia, anzi, più l’uomo è debole, più Lui può agire con forza, più l’uomo cade, più Lui può chinarsi su di esso!

E l’obbedienza è il requisito basilare per essere discepolo di Colui che è incarnazione stessa dell’obbedienza alla Volontà del Padre. E proprio perché Dio è Padre, allora il suo Comandamento non è “ordine”, ma è in realtà “raccomandazione”: ecco che alla luce di ciò tutta la Legge, per quanto severa possa apparire, nella rivelazione di Cristo manifesta non un Dio che comanda, ma che raccomanda, appunto come un padre fa con i suoi figli.

Si comprende bene, perciò, come l’obbedienza alla volontà di un Dio così sia vita per l’uomo, servirlo sia vera libertà, osservarne i comandamenti, pur nella fatica, sia assicurazione di pace vera e felicità duratura. Poiché tutto l’avvenimento messianico, dall’Incarnazione alla Risurrezione, è riassunto in quest’unico atteggiamento di abbandono filiale all’Amore provvidente del Padre, anche quando questo appare nel suo aspetto più misterioso.

Tutta l’esistenza terrena di Gesù, infatti, sembra sostanzialmente mirata all’obbedienza alla volontà di Dio, volontà che consta, ultimamente, nella salvezza del genere umano. Il Figlio è dato al mondo dal Padre come esempio per l’uomo di ogni tempo e congiuntamente come promessa certa che l’imitazione della sua vita conduce al bene supremo per il singolo e la comunità: la salvezza eterna.

Ma come si può imitare un Dio? Chi può mai avvicinarsi alla santità, alla carità immensa ed alla sapienza infinita del Cristo?

Nessuno, ovviamente, ed è per questo che Dio ha mostrato in Gesù un metodo semplice quanto infallibile per ottenere la vita eterna: l’obbedienza. Questo è il cardine su cui ruota tutta la missione del Cristo: sfrangiata dai miracoli, la messianicità di Gesù si può sintetizzare nella sua obbedienza perseverante alla volontà divina. Nulla di particolarmente eroico, si potrebbe pensare, ma è proprio questo il bello: il Dio incarnato non chiede nulla di sovrumano in cambio della salvezza eterna, solo l’obbedienza a Lui, e per dimostrare all’uomo che la Sua volontà è una volontà d’amore e di bene per l’uomo stesso è disposto a sacrificarsi fino alle estreme conseguenze.

Al di là della natura divina del suo ministero, infatti, Gesù non ha fatto altro che perseverare nell’obbedienza al volere del Padre, e questo è possibile ad ogni uomo di buona volontà. Per raggiungere il Cielo all’uomo non vengono chieste gesta eroiche, né tantomeno miracoli, ma semplicemente di obbedire: obbedire alla volontà di Dio che si manifesta nelle piccole cose di ogni giorno, obbedire alla sua Parola, che è sempre e soltanto destino di bene per l’uomo. Questo ha fatto il Maestro, questo è richiesto al discepolo.

E se ci soffermiamo ad indagare un pochino, scopriamo che in effetti l’atto di obbedire implica necessariamente l’atto di fede: si obbedisce ad una persona poiché ci si fida di lei, e di conseguenza si è certi della validità dei suoi comandi. Ma non solo, l’obbedienza è anche pratica d’umiltà: quando si obbedisce ad una persona si riconosce implicitamente la propria subordinazione ad essa. Nell’obbedienza alla volontà di Dio, sommamente, lo si riconosce Creatore benevolo e soprattutto ci si riconosce creatura dipendente da Lui. In ultima istanza, poi, l’obbedienza è espressione della volontà: nel conformarsi alla volontà di qualcun altro si esercita il proprio libero arbitrio nella consapevole adesione al comando ricevuto. In massimo grado, nell’obbedire alla volontà di Dio, l’uomo esprime sé stesso nella sua libertà creaturale: egli si decide per Dio, e sappiamo come sia, in ultima analisi, la volontà dell’uomo esercitata nella sua libertà di scelta, a determinare il suo destino ultimo. Ecco perché ringrazio per l’opportunità che mi è stata data, come genitore, di sperimentare ad ogni vestizione dei miei pargoli quell’aspetto di comunione di volontà tra padre e figlio nell’obbedienza complice e devota, tanto da apprendere ogni volta io da essi come essere genitore, ma soprattutto come vivere più pienamente la mia figliolanza a Dio.

E non importa che presto il duenne saprà vestirsi da solo: tanto all’orizzonte ne ho ancora una con cui condividere tali momenti, e siccome è femmina, prevedo che i cambi d’abito saranno maggiori e più frequenti…

21 pensieri su “L’obbedienza

  1. Maria elena

    Ho fatto mio, essendo stata una ribelle con avversione alle imposizioni legalista, il motto”l’obbedienza già da sola ti salva” perchè è l’unico modo di far intervenire Dio pienamente e fargli provvedere con amore alla mia vita! Sembrerà strano, ma questi implica anche l’obbedienza alla chiesa. Una volta mi hanno chiesto, e se sbaglia? Dio puo provvedere nell’umiltà. I superbi li guarda da lontano.

  2. Giancarlo

    Obbedienza. Contiene un mondo questa parola. Implica la costituzione di un ordine, ma anche la relazione che si stabilisce tra Chi ordina e chi è ordinato. Chi obbedisce non chiede un confronto, un dialogo. Non fa opposizione chi obbedisce. La persona che obbedisce chiede di capire, perché capire è un bisogno insopprimibile; ma non pone la comprensione a condizione per l’obbedienza. L’obbedienza è la fede che nasce da un incontro, non cieca esecuzione della legge. Tuttavia la legge c’è e non può essere ignorata. Chi ignora la legge ne sarà schiacciato, chi invece la osserva, in obbedienza al Legislatore, sarà salvo. Perché la legge è a tutela degli obbedienti e a condanna dei disobbedienti.

    Ma cosa significa obbedire? Significa eseguire correttamente un ordine? No. Significa semplicemente riconoscere il naturale ordine costituito. Ciò che condanna non è l’incapacità ad eseguire un ordine, ma il rifiuto di eseguire un ordine, il rifiuto di riconoscere che non siamo tra pari ma che c’è una gerarchia costituita da Dio stesso. Come figli di Dio siamo tutti pari in dignità, ma non siamo pari in capacità, in responsabilità, in conoscenza, in fede, in volontà. Quando ci poniamo uno di fronte all’altro, mai saremo in un rapporto di parità assoluta; sempre saremo in un rapporto gerarchico. Così è nella chiesa per volontà di Dio.

    1. vale

      ammesso e non concesso che tale gerarchia, così come si è “inverata” nella storia, sia corrispondente alla voluntas Dei.
      o, piuttosto, sia permessa da Dio,come fu per giobbe,per esempio, – e quindi è opera del principe di questo mondo- per vagliare.
      a questo punto obbedire sarebbe compiere il volere del demonio e non di Dio. e non è sempre semplice distinguere, tra gerarchia e ordini , quale ne sia la provenienza.

    2. sweety

      la legge da sola non salva (non lo dico io ma San Paolo), e Gesù di comandamento ne ha dato solo uno (senza abrogare gli altri): ama il prossimo tuo come te stesso. Non voglio dire che allora mandiamo a puttane (scusate l’espressione) la gerarchia, i comandamenti ecc. ma dobbiamo sempre ricordarci che la legge del diavolo soddisfa i nostri piaceri, la legge di Dio aumenta l’amore.
      La legge senza amore è la garanzia perfetta per finire all’inferno per direttissima – anche se non si è mai mancati a una Messa domenicale; l’amore senza legge invece non esiste (se è senza legge, non è amore) – ergo l’amore vero salva sempre. Basta leggere il processo di Kafka per capirlo.
      Io direi che il Papa sta insegnandoci la legge dell’amore, obbediamogli nel senso di cercare di capire cosa vuole dirci (meno fiumi di inchiostro su presunte conclusioni di un Sinodo ancora non avvenuto, più fiumi di carità verso il prossimo e verso Dio), nel suo dialogare sincero, nella sua umile allegria, nel suo ricordare che Dio è Signore delle nostre vite nella misericordia e nel perdono, perdono che Dio ci concede di cuore, con tutto il cuori di chi ci guarda ed è felice che noi esistiamo.
      Il Papa ha lo stesso sguardo di Dio: ci guarda con occhi che ci dicono “è bello che tu esista”, malato, cieco, intelligente, gay, divorziato, buono, cattivo….”è bello che tu esista, e sarebbe ancora più bello se tu volessi ricambiare il mio amore”. Se solo noi riuscissimo a fare così…a guardare gli altri così…

  3. Rita

    Buongiorno a tutti, seguo sempre il blog ma è la prima volta che intervengo,
    e leggendo ATG non ne ho potuto fare a meno!!
    Grazie, carissimo, per la tua bella testimonianza, e grazie alla tua famiglia x il bellissimo esempio che siete x noi!
    Ho divorato il tuo libro…grazie di cuore…che Dio vi benedica!

  4. Carlo60

    VALE: allora non è così semplice come il racconto di Torquato Giovanoli; non sempre chi ti veste è il tuo papà! Allora la domanda si ripresenta: cosa vuol dire, nella vita quotidiana, fare la volontà di Dio?

  5. Caro Andrea, leggo con piacere queste righe perché mi trovo pienamente nella medesima fase: abbiamo una figlia di 3 anni e un pargoletto nato da 10 giorni. Appena il neonato crescerà, vedrò se confermare o meno l’ultima frase del post ( 😉 )

    Mi hai fatto riflettere su quanto la figura paterna possa influenzare la prole nel suo rapportarsi con Dio: spero vivamente di infondere fiducia nei miei figli affinché possano fidarsi un domani dell’Altissimo ed essergli obbedienti in modo filiale e non per timore o per mero senso del dovere (come mi fu inculcato in gioventù…), tenendo presente che la mia relazione con loro non sarà l’unico fattore decisivo in questo senso e che comunque la potenza di Dio può guarire le ferite di un rapporto umano fallace.

    La tua è vera “teologia on the road”, grazie! 🙂

  6. vale

    la risposta la trovi nella mia su alzare lo sguardo: a vancouver prima famiglia con bambino con tre genitori: 2 lesbiche ed il donatore. tutto nel certificato( se anche in canada si chiama così) di nascita.
    a quel bambino, chi lo veste?

    1. Giancarlo

      Vale, i figli sono uno splendido esempio di persone costitutivamente (per loro stessa natura) sottomesse ad altre persone (i genitori). Addirittura il quarto comandamento si occupa di mettere nero su bianco questa legge.

      Ma anche senza bisogno di ricorrere all’esempio della sottomissione filiale, si possono fare tantissimi esempi di gerarchia voluta da Dio.

      D’altronde è Dio stesso che, con i prime tre (dicasi: TRE!) comandamenti mette subito in chiaro Chi è Lui e chi siamo noi. Se non è gerarchia questa, dimmelo tu cos’è. Il quarto comandamento poi, non riguarda più Lui, ma serve a mettere in chiaro che alcune persone (i figli) DEBBONO essere sottomesse ad altri (i genitori), introducendo così la gerarchia non solo tra Dio e gli uomini, ma anche tra uomini e uomini. Onora il padre e la madre: cioè il comportamento dei figli deve essere talmente aderente alla volontà dei genitori, da far si che i genitori non debbano neanche parlare, perchè talmente corretto è il loro comportamento da mettere in evidenza la rettitudine degli insegnamenti dei genitori, al punto da rendere loro onore.

      Ragazzi, gerarchia non è una brutta parola, riappropriamocene. Anche perchè è costitutiva della chiesa. Gesù Cristo è venuto in terra per instaurare il regno di Dio, non la repubblica di Dio; e le cariche sono designate dall’Alto, non democraticamente.

      1. vale

        non entro nel merito del fatto che la chiesa non è una democrazia. mi pare ovvio. mi limitavo a considerare che, nella storia,ciò che si realizza non sembrerebbe sempre coincidere con l’ordine divino ma con uno molto più umano spacciato per l’altro. d’altronde l’anticristo non è forse la scimmia di Dio?

        Più che la vicenda immaginata da Solov’ëv – nella quale l’Anticristo prima viene eletto presidente degli Stati Uniti d’Europa, poi è acclamato imperatore romano, si impadronisce del mondo intero, e alla fine si impone anche alla vita e all’organizzazione delle Chiese – mette conto di richiamare le caratteristiche che sono qui attribuite a questo personaggio. Era – dice Solov’ëv – “un convinto spiritualista”. Credeva nel bene e perfino in Dio, “ma non amava che se stesso”. Era un asceta, uno studioso, un filantropo. Dava “altissime dimostrazioni di moderazione, di disinteresse e di attiva beneficenza”. Nella sua prima giovinezza si era segnalato come dotto e acuto esegeta: una sua voluminosa opera di critica biblica gli aveva propiziato una laurea ad honorem da parte dell’Università di Tubinga. Ma il libro che gli ha procurato fama e consenso universali porta il titolo: “La via aperta verso la pace e la prosperità universale”, dove “si uniscono il nobile rispetto per le tradizioni e i simboli antichi con un vasto e audace radicalismo di esigenze e direttive sociali e politiche, una sconfinata libertà di pensiero con la più profonda comprensione di tutto ciò che è mistico, l’assoluto individualismo con un’ardente dedizione al bene comune, il più elevato idealismo in fatto di principi direttivi con la precisione completa e la vitalità delle soluzioni pratiche”. E’ vero che alcuni uomini di fede si domandavano perché non vi fosse nominato nemmeno una volta il nome di Cristo; ma altri ribattevano: “Dal momento che il contenuto del libro è permeato dal vero spirito cristiano, dall’amore attivo e dalla benevolenza universale, che volete di più?”. D’altronde, egli “non aveva per Cristo un’ostilità di principio”. Anzi ne apprezzava la retta intenzione e l’altissimo insegnamento. Tre cose di Gesù, però, gli riuscivano inaccettabili. Prima di tutto le sue preoccupazioni morali. “Il Cristo – affermava – col suo moralismo ha diviso gli uomini secondo il bene e il male, mentre io li unirò coi benefici che sono ugualmente necessari ai buoni e ai cattivi”. Poi non gli andava “la sua assoluta unicità”. Egli è uno dei tanti; o meglio – diceva tra sé – è stato il mio precursore, perché il salvatore perfetto e definitivo sono io, che ho purificato il suo messaggio da ciò che è inaccettabile all’uomo di oggi. Soprattutto, non poteva sopportare il fatto che Cristo fosse vivo, tanto che istericamente si ripeteva: “Lui non è tra i vivi e non lo sarà mai. Non è risorto, non è risorto, non è risorto! È marcito, è marcito nel sepolcro…”.
        3. Ma dove l’esposizione di Solov’ëv si dimostra particolarmente originale e sorprendente – e merita la più approfondita riflessione – è nell’attribuzione all’Anticristo delle qualifiche di pacifista, di ecologista, di ecumenista.
        I. Già s’è visto che la pace e la prosperità sono gli argomenti del capolavoro letterario del nostro eroe. Ma sono idee che egli riuscirà anche ad attuare. Nel secondo anno di regno, come imperatore romano e universale, potrà emettere il proclama: “Popoli della terra! Io vi ho promesso la pace e io ve l’ho data”. E proprio a questo proposito matura in lui la coscienza della sua superiorità sul Figlio di Dio: “Il Cristo ha portato la spada, io porterò la pace”. A ben capire il pensiero di Solov’ëv su questo punto, gioverà citare quanto egli dice nel terzo dialogo per bocca del Signor Z., l’interlocutore che rappresenta l’autore: “Cristo è venuto a portare sulla terra la verità, ed essa, come il bene, innanzitutto divide”. “C’è dunque – dice Solov’ëv – la pace buona, la pace cristiana, basata su quella divisione che Cristo è venuto a portare sulla terra precisamente con la separazione tra il bene e il male, tra la verità e la menzogna; e c’è la pace cattiva, la pace del mondo, fondata sulla mescolanza o unione esteriore di ciò che interiormente è in guerra con se stesso”. Quanto al pensiero sulla guerra nel senso più comune e ovvio del termine, ricordiamo che il primo dei tre dialoghi solovëviani è tutto dedicato alla critica del pacifismo tolstojano e della dottrina della non-violenza. La guerra – vi si afferma – è certamente un male, ma bisogna riconoscere che, sia nella vita dei singoli sia in quella delle nazioni, si danno situazioni in cui alla violenza malvagia non basta rispondere con gli ammonimenti e le buone parole. Possiamo dire che, secondo Solov’ëv, mentre gli ideali di pace e di fraternità sono valori cristiani indiscutibili e vincolanti, tali non possono essere ritenuti il pacifismo e la teoria della non-violenza che finiscono col risolversi troppo spesso in una resa sociale alla prevaricazione e in un abbandono senza difesa dei piccoli e dei deboli alla mercé degli iniqui e dei prepotenti.

        tratto da :

        L’Anticristo secondo Soloviev 2-1-2014

        (fonte: http://holyqueen.altervista.org) Il Card. Biffi ci spiega, utilizzando la tesi formulata da Soloviev in un suo racconto, quale potrebbe essere il clima culturale in cui si afferma l’Anticristo: quello in cui il cristianesimo viene ridotto ad una serie di valori (pacifismo, ecologismo, ecumenismo, filantropismo…) negando però la persona divina di Gesù Cristo.
        http://www.conciliovaticanosecondo.it/documenti/lanticristo-secondo-soloviev/

        1. vale

          se proprio volessi aggiungere una cattiveriucola,farei notare che Kasper s’è laureato a tubinga…..( anche se meritevolmente, presumo, e non ad honorem come scritto da solov’ev)

  7. Velenia

    Preoccupiamoci innanzitutto di chi veste noi.Pinocchio lasciò il padre e trovò un padrone.A qualcosa o a qualcuno si finisce per obbedire sempre,la realtà ha il vizio di essere testarda.

  8. Sara

    Grazie per questo luminoso articolo, ATG! L’obbedienza a Dio è veramente liberante e salvifica!

    P. S.: Giancarlo, anch’io dico spesso che quello di Dio è un Regno e non una repubblica, tanto meno democratica! E anche questo è davvero liberante!

  9. 61Angeloextralarge

    Grazie Andrea! Mi hai fatto pensare a questi due testi di g. Thibon:

    “Non credete ai distruttori delle regole che parlano in nome dell’amore. Là dove la regola è frantumata, l’amore abortisce”..

    “Nulla ha contribuito a distruggere, nell’anima delle masse, la vera libertà e la vera saggezza più di un certo mito della libertà: il voler mettere la libertà dove essa non è, la distrugge anche dove Dio l’ha messa. L’uomo che non accetta di essere relativamente libero, sarà assolutamente schiavo”.

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