di Costanza Miriano
Ho una figlia che ogni tanto proclama cosa farà da grande, e i suoi programmi cambiano con cadenza quasi quotidiana. Giardiniera, “cuciniera”, quella che toglie i pidocchi (che sarebbe la mamma), maestra, dottoressa degli animali, dottoressa delle pance (ginecologa), violinista. In merito all’ultima carriera avrei da puntualizzare che la vedo un po’ dura, fino a che continuerà a esercitarsi col suo violino un massimo di venti secondi a settimana. In fondo ha sei anni, e confido che un po’ di serietà possa anche impararla. Ogni tanto le ricordo i suoi doveri musicali, ma senza esagerare: vista la giovane età, credo che ci siano ampi margini di miglioramento, quanto a disciplina e forza di volontà.
D’altra parte c’è un tempo, è fisiologico, in cui si ha l’illusione di avere tutte le possibilità esistenziali a portata di mano. Sembra che si possa davvero decidere cosa, chi, come essere senza che la realtà imponga nessun limite. L’adolescenza è il trionfo di questo stato d’animo: anche se la mia, di adolescenza, è preistorica, questo non mi impedisce di ricordare la sensazione di angoscia al pensiero di dover rinunciare a qualcosa, di non poter essere su uno spazio più grande di quello coperto dai miei due piedi (per quanto numero 42), di dover alla fine scegliere una sola strada, e abbandonare per sempre tutte le altre.
Comincio invece a preoccuparmi quando a voler fare il violinista esercitandosi venti secondi alla settimana è un quarantenne o anche uno più grande, eppure ne conosco diversi. Anzi, in parte un violinista velleitario e fannullone forse c’è in ognuno di noi, o quasi. A chi non capita di pensare di poter fare tutto, di riuscire a tenere insieme tutti i pezzi senza rinunciare a nulla, assemblando sintesi un po’ sgangherate ma tutto sommato funzionanti, almeno fino a che non arriva una grossa prova? Chi è che non pensa, ogni tanto, di poter sfuggire alla fatica della scelta, o magari, se l’ha scelta l’ha fatta, di deporne il fardello per qualche momento? Capita di avere gli occhi così appannati dalla stanchezza da non vedere più la bellezza del quotidiano, di non trovare più così avvincente quel piccolo pezzo di strada che facciamo, sempre la stessa, da quindici anni, di desiderare una novità, un regalo, una sorpresa, tanto da dimenticare i regali che uno ha già.
E va bene, a volte capita a tutti, ma come è potuto succedere che oggi ci sia una tale quantità di immaturi in giro, di eterni ragazzini indecisi sulla strada da imboccare, sempre pronti a voltarsi indietro? Io, contrariamente a quanto sento dire ogni tanto, non penso che prima la gente fosse migliore: semplicemente le possibilità di scelta erano di meno. Non ci si chiedeva “come mi realizzo oggi, come posso esprimere il mio talento?”. Il pensiero era piuttosto il sostentamento, o il raggiungimento di un minimo livello di benessere. Da un certo punto in poi il sostentamento e il benessere diffuso sono stati dati per scontati, e l’obiettivo è diventata la libera espressione di sé. Negli anni passati è stato così (chissà che la crisi non offra anche un’opportunità di crescita, in questo senso): i ragazzi cercando la loro strada aspiravano a guadagnarsi da vivere esprimendo se stessi. È stata la conseguenza del benessere diffuso. Ci ritroviamo così circondati da gente che vuole trovare se stessa (che poi, io dico, in certi casi se uno non si trova non è che perde un gran che, a dire la verità…). Cerca te stesso qua, cerca te stesso là, si finisce per non fermarsi da nessuna parte, per non mettere nessuna radice, per non portare nessun frutto.
E questo anche nella vista sentimentale, complice un’idea strampalata dell’amore che si è affermata in occidente: un amore sentimentale e romantico, molto fondato sulle emozioni, poco sulla scelta matura e consapevole.
Così è finita che da una parte c’è il mondo che ti dice di esprimerti, affermarti, liberarti, mentre dall’altra parte è rimasta solo la Chiesa ad annunciare la bellezza dell’impegno per sempre. Un impegno che viene sempre percepito come un peso, un intralcio, un fardello.
La sfida dei cristiani di oggi è quella di far passare l’idea che invece scegliere, una strada, una vocazione, un posto in cui portare frutto è l’unico modo per essere felici. È un privilegio enorme che abbiamo, un regalo di Dio che decide di fidarsi di noi al punto da rispettare la nostra libertà sopra ogni cosa, anche quando va contro il nostro interesse. Scegliere è la cosa più bella che possiamo fare. Scegliere l’impegno, qualcosa su cui investire davvero, rischiando tutto, abbracciare una vocazione, una sola, è quello che ci fa fiorire, ci fa portare frutto. Noi pensiamo di riempire quell’impronta di vuoto da cui siamo tutti segnati facendo le cose di testa nostra, ma invece l’unica cosa che sazia, veramente, che manda via la fame, è perdere la vita per qualcuno, di gran lunga la cosa più bella che possiamo fare.
Il problema è che spesso questa bellezza non siamo capaci di farla vedere al mondo: perché per esempio i giornali o le televisioni quando parlano di impegno ingenerano nel lettore o ascoltatore il desiderio di scappare a gambe levate più presto e più lontano possibile? Insomma, perché sembra che cantiamo, come dice un amico sacerdote, “venite al Signore con canti di noia”?
Il fatto è che Dio non ha bisogno di noi, non ci vuole fregare né togliere niente, perché non gli serve niente (starebbe messo davvero male, come Dio, se avesse bisogno di qualcosa di nostro, queste erano le divinità pagane, a immagine di uomo!), e quello che la Chiesa dice all’uomo è solo un disegno di felicità per lui e per i suoi fratelli.
A insegnare questo è essenziale il lavoro del padre, però. È il padre che rappresenta il senso della realtà, il limite, la necessità di posticipare la gratificazione. È il padre che insegna al bambino, prima, e poi al giovane uomo, il fatto che non è lui, il bambino, a essere arbitro della realtà, non è lui a sapere da solo quale sia il bene e quale il male. Questo processo di apprendimento può essere doloroso, anzi, lo è necessariamente, perché qualche rametto all’albero va potato. Il padre ha il coraggio di dare questi piccoli dispiaceri al figlio, perché ha uno sguardo che vede più alto e più lontano. A questo punto anche io, che pure sono stata più volte tacciata di misoginia, devo dire che in questo caso sono gli uomini a doversi rimboccare le maniche per primi, per diventare padri coraggiosi, padri che sanno da che parte vanno loro e i loro figli, padri capaci di accompagnare la fatica dei figli. Insomma, non violinisti da venti secondi a settimana.
fonte> IL TIMONE
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Disegno di Lorenzo Zapp (Lorenzo lo trovi anche su facebook)
Chi di voi (noi) ha lasciato qualche frutto (a parte i figlioli)?
io però potrei sostentarmi facendo, chessò, la traduttrice (visto che parlo molte lingue), e di fatto a tempo perso lo faccio, per guadagnare qualcosa ora che ho finito il dottorato. Però il mio sogno è insegnare all’Università, e ci sono riuscita, anche se devo emigrare per questo.
Io credo che sia importante non cadere nel tranello “trovo me stesso” alla hippie; però sì è importante che, nei limiti del possibile, i giovani siano spinti a perseguire i loro sogni e a sviluppare i loro talenti (dei quali, poi, verrà chiesto conto). Anche “difficili” (fare il violista, fare la carriera accademica, fare l’attore…).
Oggi io credo che i giovani cattolici dovrebbero – se ne sentono l’inclinazione – cercare di perseguire la carriera accademica, artistica, musicale; di insegnare a scuola, di entrare in politica. Insomma, di entrare nel circuito delle idee, di stare lì dove le idee si fanno.
S. Escriva, al fondare l’Opus Dei, diceva che gli intellettuali sono come la neve sulle montagne: si scioglie e irriga tutta la pianura.
Certo, è necessario impegno; e, soprattutto, è necessario a volte capire che tutto non si può avere e raggiungere. A mio cugino, per esempio, fare l’assicuratore non piace e avrebbe voluto aprire un ristorante, ma siccome deve lavorare per sostentare tre figli e una moglie e non ha al momento i soldi per un investimento nel ristorante, alla fine è contento così (e suo figlio si iscriverà alla scuola per chef, ora 🙂 ).
” Escriva, al fondare l’Opus Dei, diceva che gli intellettuali sono come la neve sulle montagne: si scioglie e irriga tutta la pianura.”
Che poeta…
Costanza sono in disaccordo solo su una cosa: perchè dici che Dio non ha bisogno di noi? Ora io non sono esperta di teologia ma mi pare che Dio voglia che noi lo amiamo. Certo vuole che lo amiamo veramente e quindi non ce lo impone ma ci lascia liberi di decidere.
Per quanto riguarda il resto sono daccordo con Lidia. Non è giusto rinunciare per forza alla espressione di se. Io faccio un lavoro che non mi piace molto e per il quale non sono molto brava e lo faccio pure all’estero. Ho un po la tendenza a dire “ora cerco di tirare avanti perchè é una cosa momentanea e almeno guadagno bene. Ma vedo che questo atteggiamento non mi soddisfa: è come se non mi aspettassi neanche un po che dal lavoro mi possa venire un po di soddisfazione!
Il difetto di tutti gli intellettuali (cosiddetti): essere futili.
Ma cosa vuole dire precisamente “portare frutto”?
Qualcheduno che ha fatto polizze vita per tutta la vita, e poi ha sgranato rosari a ripetizione,ha portato frutto?
O un altro che ha preteso di parlare alle genti nel segno della politica?
O un dentista? O un veterinario? Un medico? Un insegnante? Un atleta? Un artista? Un babbeo?
mah, futili non direi proprio! Calcola quanti danni ha fatto il futile Lenin…(era un intellettuale). Per non parlare del futile Marx, del futile Engels….e dove mettiamo il futile Vaclav Havel? Io ‘sta futilità non la vedo.
OT: piena solidarietà ad admin, anche io ieri sera ero davvero mogia.
A proposito di ieri: quante crocifissioni a Parigi?
E’ stata crocifissa la ragione con l’approvazione della legge.
Il lavoro non è altro che il servizio che ci facciamo reciprocamente, perchè nessuno di noi camperebbe un giorno senza il lavoro degli altri. Però non siamo capaci di offrircelo spotaneamente quindi siamo “condannati “a farlo per procurarci un reddito. Se fossimo tutti miliardari, non potremmo vivere da miliardari perchè non potremmo comprare il lavoro di nessuno…nessuno lavorerebbe per costruirci la ferrari (e nemmeno la panda), nessuno ci servirebbe in un albergo, nessuno ci curerebbe in un ospedale. Tutto il mondo e tutta la nostra vita quotidiana dipendono da lavori che quasi nessuno “sogna” di fare e quasi tutti finiranno per fare. Tra l’altro, io penso che, indipendentemente dall’economia, dalla politica e dalle epoche, i lavori più comuni procurano redditi molto bassi ( in certi periodi sono sotto la soglia della decenza), perchè molto bassa è la considerazione che abbiamo di loro. Come dimostra il bisognoso che spesso nutre astio, se non odio, nei confronti del suo benefattore, così noi tutti svalutiamo proprio tutte quelle realtà (e cose e persone) che più ci sono vicine e indispensabili. A partire da Dio.
OT: sono vicino al dolore provato ieri dall’admin quando ho visto un’aquila biancazzurra volare sul Roma.
grazie ma non ho visto nessun pennuto: la tv era spenta un attimo prima del fischio finale
Cara Costanza, mi hai proprio letto nel pensiero! Proprio in questi giorni mi è tornata in mente una lezione di religione di quando andavo alle superiori. Si era scatenata una rissa in classe perchè il don aveva detto che vivere per realizzare i propri sogni è assurdo, che non dà la felicità. Tutti i miei compagni erano indignati: ma come, togliere i sogni a una persona? che crudeltà! la società di oggi ci ha illuso che se inseguiamo i nostri sogni saremo felici, anche se sono assurdi, anche se sono staccati dalla realtà. Ma se uno sogna di diventare portiere della nazionale e poi non ce la fa? Cosa fa, si spara? la vera crudeltà è crescere un bambino dicendo che deve inseguire i sogni. Gesù Cristo non ci ha detto che entrerà nel regno dei cieli chi realizzerà i suoi sogni, ma chi prenderà la sua croce e lo seguirà!
@Laura non credo che il male stia nell’avere “un sogno”, o se vuoi un desideri, un’aspirazione…
Il male sta nel fare di questo un idolo, qualcosa a cui ogni altra cosa può essere “sacrificata” (essendo un idolo…) e non solo le cose, ma anche le persone, i sentimenti e, non certo ultimo, il proprio rapporto con Dio. Il sogno che irrealizzato, diviene una chimera e un’alienazione, togliendoti dalla percezione della realtà delle cose e di te stesso.
Un sogno credo si possa coltivarlo, ma anche questo, come tutte le nostre umane cose, sottoporlo e “presentarlo” a Dio, per comprendere (fare discernimento) se è a Lui gradito, se è nella Sua Volontà nel Suo progetto di Amore per noi… può darsi che lo vedremo esaudito, come può essere che sapendovi rinunciare, ne vedremo realizzato uno ancora più grande, che Dio aveva in serbo per noi.
Perché Dio ci ama e ci vuole felici!.
La croce la incontreremo certamente e comunque, il Signore ce lo ha detto e sappiamo quanto sia un’esperienza fondamentale… ma certo ad un ragazzo non dirò: “Non avere sogni, preparati alla croce… punto!” o altro che “canti di noia”… “canti di terrore all’intorno” 🙁
a alvise:
le tue domande, invece ,che “frutto” portano?
…nessuno, ovviamente!
trovo che la “Scelta” (con la maiuscola…) sia, attualmente, la cosa più importante… di fronte ad i numerosi bivi che la vita ci propone, di fronte alle numerose promesse di alternative felicità, credo che il problema sia proprio quello di saper restare lì fermi, e con discernimento valutare ciò che ci viene proposto. O, con discernimento, valutare ciò che abbiamo già. E, a quel punto, magari, realizzare che la vita del cristiano (e se qualcuno si sente offeso, ve ne prego, perdonatemi…) non è quello scialbo grigiore che agli occhi di un estraneo potrebbero apparire tante nostre assemblee ecclesiali. “Venite al Signore con canti di noia”? Forse quell’estraneo tante volte avrebbe ragione, sta a noi, a me, dare una ragione, evidente e perfino gioiosa, della nostra fede. Grazie, Costanza. Mi permetto di nuovo: a quando a Trieste?
“Venite al Signore con canti di noia….” 🙁 🙂 bellissima questa!
Bel articolo, detto da uno che ancora non ha esattamente deciso “cosa farà da grande”!
Battute a parte, riguardo i Padri, che l’esser padre mi riguarda, dato che a questo Dio mi ha chiamato, direi anche, insegnare ai figli a cercare la Volontà di Dio nella loro vita, anche nelle scelte concrete che sono chiamati a fare (e noi genitori) con loro). Sapendo che questa non è detto collimi (sempre ed esattamente) con la loro o con la nostra, ma insieme camminare (in senso biblico e spirituale) perché abbiano un discernimento e trovata la “strada”, la percorrano con fiducia e decisione.
Belle parole (forse), ma fatica e “combattimento” pressoché quotidiano. 😉
Bellissimo! L’ho giá letto 3 volte, nonché inviato a diverse amiche e amici!!! Da aspirante sposa sottomessa peró mi sorge un dubbio: come confrontarsi con uomini che non si decidono a scegliere il matrimonio e che continuano a vederlo “come un peso, un intralcio, un fardello”? Proprio oggi Papa Francesco nella sua omelia parlava del nostro attaccamento al “provvisorio”, trattandolo alla stregua di quelle ricchezze di cui dobbiamo liberarci per poter seguire Gesú. Ma quando quest’attaccamento al provvisorio, questa incapacitá di scegliere, é nell’altro, in colui che amiamo, cosa possiamo fare noi? Piú esplicitamente: come fa una aspirante sposa sottomessa a farsi sposare? So che messa in questi termini é veramente brutta, ma da ragazza di 28 anni devo constatare che pochissimi degli uomini che conosco, sotto i 40, non ancora sposati, intendono decidersi a farlo!
Cambia fidanzato 😉
Ancora? 🙁 Ne ho cambiati 3 negli ultimi 10 anni…ma la solfa non cambia…Ed è veramente frustrante. Io a 18 anni non avevo ancora incontrato Dio ma nel mio cuore lo sapevo già a quale vocazione mi avrebbe chiamata 🙂 Che poi tutta sta paura di mettere radici piuttosto comune tra gli uomini chissà da dove deriva..Di certo comunque se non si decide a breve dovrò seguire il tuo consiglio, ahimè
… prima di scegliere il quarto, chiedi seriamente a Dio di fartelo incontrare, sarà quello che ti sposa 🙂
“Il fatto è che Dio non ha bisogno di noi”, mi piacerebbe sapere cosa ne sai tu Costanza di cosa ha bisogno Dio, insomma, mi sembra un’affermazione un po’ presuntuosa.
Credo di aver afferrato dove vuoi arrivare con l’articolo, ma ritengo tu abbia finito per dare l’idea di far di tutta l’erba un fascio.
Il cambiamento è positivo, il reinventarsi è un bene. Mi è chiaro come tu ti riferisca ai “grandi temi” e non al vestito da mettersi la mattina o a come impiegare le sere libere, ma proprio per questo, se i cambiamenti importanti avvengono sulla base di scelte ponderate, profonde, e soprattutto sincere (verso se stessi) allora questi diventano motore di una crescita interiore che onora la vita.
Carissima Costanza, mai un post capitò così a fagiolo per la mia situazione attuale! Mi sento un po’ come tua figlia ma so che non posso altalenare con i progetti futuri… ho superato l’età del “cosa farò da grande?”… Sono già grande. Epure la vita non smette mai di farci prendere decisioni importanti. Chiamiamola vita ma non è solo lei, o perlomeno c’è una Mano che la guida. Allora la domanda è oggettivamente la stessa: “Cosa farò da (più) grande?”. In fondo con il Signore siamo sempre bambini, no? Anzi, è Lui che ci ha detto di tornare bambini. E, ancora in fondo, siamo pellegrini su questa Terra e sempre con la valigia pronta per andare dove possiamo realizzare quello che Dio ha pensato per noi.
Da una parte c’è la paura di crescere, di prendersi delle responsabilità… e questo va “messo in riga”, ma c’è e ci deve essere anche un’apertura totale ad ogni possibilità, sempre pronti a rimettersi in gioco, anche se può significare abbandonare tante sicurezze materiali e non. Credo che nessuna delle due posizioni sia indolore: ci serve crescere, a qualsiasi età. Dobbiamo tornare come i bambini ma crescere dentro di noi nel cammino di fede, nella carità, nell’amore gli uni per gli altri.
Dio non ha bisogno di nulla “ad extra”, altrimenti non sarebbe Dio. Per piacere, prima di parlare a sproposito di presunzione, sarebbe bene avere almeno un’idea di quello di cui si sta parlando. Se Dio avesse bisogno di qualcosa al di fuori di Se Stesso, non sarebbe più Dio.
Ma preferisco rivolgermi a Lucia, va’ che è meglio… altrimenti finisco per essere caustico come il mio solito…
Tu invece, Lucia, hai colto, senza accorgertene senz’altro, la risposta alla tua stessa domanda: Dio in un certo qual modo vuole avere bisogno di noi, ma non ha bisogno di noi. Ti sembra la stessa cosa? Ma hai tracciato una differenza che è un abisso, sai?
Che Dio non abbia bisogno di nulla al di fuori di Lui che E’, è un’evidenza. Dio possiede tutto l’essere, perciò non c’è nulla di cui possa aver bisogno. Il mistero della Trinità ce lo garantisce anche rispetto all’amore che richiede, per essere espresso, un’altra Persona.
Eppure, Dio che potrebbe essere tutto da Sé non solo ci ha creati, ma vuole associarci alla Sua opera. Ecco perché potremmo anche dire che Dio vuole avere bisogno di noi. E in che modo inaudito lo vuole!
Non solo desidera associarci nel completare la creazione, che sarebbe già cosa straordinaria. Egli vuole associarci nell’opera della redenzione.
Se per caso conosci un po’ i frequentatori abituali di questo blog, questo concetto è di fatto ciò che scandalizza a morte Alvise e tanti come lui.
Se infatti Dio può fare tutto da solo, l’idea che attenda le nostre preghiere e le nostre opere e addirittura da queste faccia dipendere non solo la sorte terrena ma anche quella eterna di altre creature umane, che voglia usare degli strumenti così imperfetti quali noi siamo per qualcosa di così importante, appare una follia intollerabile, una ingiustizia inconcepibile, una discriminazione blasfema, e soprattutto in quanto può restare tale in eterno.
Così come diviene una intollerabile presunzione (superbia, direbbe Alvise) ritenere di essere fatti parte di una tale Opera.
E’ lo scandalo del tempo e dell’eterno che si congiungono nell’Incarnazione, e l’incapacità di comprenderlo e accettarlo apre la strada a una mentalità protestante e a seguire inevitabilmente: deista, agnostica e poi atea. Inoltre, porta a un precipizio spirituale che si alimenta continuamente in una spirale discendente senza fondo. “Sempre più in basso”, ne diventa il motto esemplare.
La radice di questo errore sta nel non saper più distinguere la Giustizia dalla Misericordia. Ma questo è un discorso che porterebbe lontani…
Per tornare alla questione: è un po’ come la parabola dei lavoratori nella vigna; ricordi, no? Ma come, questi ultimi arrivati ricevono la nostra stessa paga?
Bella e terribile la risposta del Padrone della vigna. Amico [solo io in questa pagina trovo piena di struggimento questa parola, “amico”?], io non ti faccio un torto… prendi il tuo e vattene.
In quel “e vattene” terribile come un colpo di gong ci ho visto spesso anche questo: vattene perché non hai compreso nulla. Nulla hai compreso della semplice realtà che di nessuno di voi lavoratori Io avevo il benché minimo bisogno, né di quelli dell’ultima ora né di te che ti sei affaticato tutto il giorno. Sei stato con Me per tutto il giorno senza neppure capire questo? Allora, prendi il tuo e vattene. Non hai compreso quale dono hai ricevuto nell’aver potuto lavorare per un tale Padrone tutto il giorno? Allora, prendi il tuo e vattene. Non hai compreso neppure che, tutti quanti e tutti voi, siete solo servi inutili? Allora, prendi il tuo e vattene. Mi hai servito tutto il giorno, eppure per te il giorno è passato invano.
Quale libertà invece, sapere proprio che Dio non ha bisogno di noi! In qualunque altro amore c’è sempre anche il bisogno, se ci fai caso. Forse questo a me è più chiaro che ad altri perché fin da piccoletto ho sempre percepito moltissimo l’esigenza che l’amore “pretendesse” un ritorno equivalente, una restituzione che… giustificasse il privilegio di essere amati. Una gran faticaccia, insomma.
Ora, se Dio avesse bisogno di noi, oh accidenti!… non ne saremmo forse annichiliti? Quali.. aspettative può avere Dio rispetto al mio misero cuore? Solo le aspettative di Dio.
Ma Lui, troppo grande! E io, troppo piccolo…
Ricordo bene le angosce che mi prendevano spesso nel contemplare, anni e anni fa, questa realtà nuova e ignota che mi si apriva sotto i piedi. Come potevo… non dico stare alla pari ma anche solo avvicinarmi alla aspettative di un Dio?
E infatti ricordo bene, quello che provai quando mi imbattei nella semplice risposta: Dio non ha nessunissimo bisogno di me. Io non stavo lì per soddisfare neppure il più piccolo dei Suoi bisogni, dato che Lui non ne ha. Ricordo ancora adesso che sollievo folle che provai: no, Dio non aveva e non ha bisogno di me. Per la miseria: meno male…
Proprio per questo il Suo amore è perfettamente gratuito.
Perciò potevo veramente, volendolo, essere libero di farmi servire da Lui, e magari perfino osare servirLo a mia volta.
Straordinario Roberto, come sempre!
Bravissimo Roberto!!!
Grazie 😉
Roberto, visto che hai snobbato il mio commento con un “va’ che è meglio” e che non ho alcuna paura del tuo essere “caustico”, ribatto nuovamente, ancora più convinto di quanto ho scritto.
Non è presunzione pensare che Dio ha bisogno di noi, è umano. Non esiste amore al di fuori dello scambio, tra uomo e donna (lo dico da Marito), tra padre e figlio (lo dico da padre), tra Dio e l’uomo (lo dico da Cristiano Cattolico).
Le tue parole ricordano quel canto che recita “che cosa resta [dell’uomo, n.d.r.] perché te ne curi”: è insopportabile questo volersi sminuire al cospetto di Dio. La vedo come una semplice pulizia della propria coscienza, necessaria a giustificare la presunzione verso gli altri (che non sono Dio) propria di quelli come te, i quali per esprimere un concetto hanno bisogno di mille righe.
non mi sembra che ti volesse snobbare, comunque non è questione di “pulizia della propria coscienza” come dici tu, ma di presa di coscienza di ciò che siamo, creature del Padre, con cui certamente vuole instaurare un rapporto di amore, ma in cui solo Lui da, e io ricevo gratuitamente, non do nulla a Dio. Santa Caterina o non mi ricordo più bene chi diceva:”Sono nulla, più il peccato”. Ribadisco, e aggiungo “affidiamo i nostri peccati a Dio, e desideriamo veramente non peccare più tramite la Sua grazia”.