Generata dal connubio tra l’amore e la moralità, la cortesia si trova alla confluenza tra esteriorità (buone maniere, comportamenti garbati, gentilezza) e interiorità (considerazione per i desideri e i sentimenti altrui). Val poco infatti far mostra di avere ottime maniere se non si possiede anche un animo cortese, carico di giovialità e buonumore, mosso dalla pronta sollecitudine con cui ci si prende cura dell’altro. Fatalmente la sola forma, priva di slancio interiore, degenera in vacua e artificiosa formalità codificata, talvolta perfino fredda e ostile. La “base morale” dello spirito cortese sta invece nel desiderio di farsi prossimo, di farsi incontro ai propri “compagni in umanità” con la volontà di creare uno spazio di vita accogliente.
Ha scritto la psicologa Giovanna Axia che «la cortesia non è certo uno di quei fenomeni che scuotono le radici dei destini umani. No, la cortesia è un fenomeno semplice, inventato dall’umana saggezza per alleggerire la strada che si percorre in compagnia. Si potrebbe vivere senza la musica di Vivaldi, ma si vivrebbe peggio». (G. Axia, Elogio della cortesia, il Mulino, Bologna 2003, pp. 11-12). È virtù semplice e spicciola, la cortesia: alla maniera di una benefica “polvere sottile”, presenza infinitesimale del bene allo stato puro, impregna i rapporti umani del suo aroma quasi impercettibile per offrire un indispensabile contributo all’innalzamento della “temperatura umana”. Anche Dio non disdegna talora di manifestarsi attraverso il delicato sussurro di una brezza (Cfr. 1 Re 19,12). Perché dunque non vedere nella cortesia uno di quei microsegni – uno sguardo, un sorriso, una parola – apparentati al «vento leggero» della Scrittura?
Si è già detto che come forma delle relazioni umane, non solo tra uomo e donna, il nucleo centrale della cortesia poggia sul desiderio di conferire alla bellezza il posto d’onore nell’esistenza, per renderla così più conforme al pregio e alla dignità della persona. «La cortesia è bella – ci dice ancora Guardini – e rende la via bella. Essa è «forma»: atteggiamento, gesto, azione, le quali cose non soltanto tendono a dei fini, ma esprimono un significato che è per se stesso pregevole, quello appunto della dignità umana» (R. Guardini, Cortesia, in Virtù, Temi e prospettive della vita morale, Morcelliana, Brescia 2008 (5a ed.), p. 149).
Ci si può chiedere a questo proposito quale sia l’utilità della cortesia. A che “serve” essere cortesi? Questa domanda però contiene già in sé un’indicazione ingannevole, perché della cortesia si può dire che abbia un senso e un significato più che uno scopo o una funzionalità pratica. La sua essenza – e ciò la accomuna all’arte e alla liturgia – sta proprio nell’appartenenza al campo del superfluo, del non utile per definizione. E se la bellezza è il fulgore della forma, splendore trionfante della forma sulla materia debitamente proporzionata, di quali meraviglie si screzia la cortesia, questo stile di vita “liturgico” improntato all’eleganza cerimoniale? Vi rifulge qualcosa di quello «splendore gratuito, spreco delicato, più necessario dell’utile» attribuito da Cristina Campo alla liturgia.
Ecco perché la cortesia non serve a qualcosa ma piuttosto serve qualcuno. Implicito omaggio consacrato all’infinita dignità della persona, testimonia che ogni essere umano – immagine del Dio vivente e perciò da onorare come un erede al trono, non da consumare come un bene fungibile – è un “articolo” unico e insostituibile. La vita come “liturgia cortese” è un’esistenza affrancata dalla tirannia dell’avere, emancipata dalla sete di dominio e possesso sostituitasi nel nostro mondo all’istinto di comunione profonda. Questa può essere assicurata solo da legami interiori, vivificati da quella scintilla di curiosa benevolenza che sta al fondamento della cortesia.
Non a caso, osserva nuovamente Guardini, cortesia e comprensione sono assenti nel mondo animale. La brulicante, frenetica attività di un formicaio non ne ha alcuna necessità: la convivenza delle formiche è assicurata dall’istinto, lo stesso per cui ciascuna di esse svolge il compito dettatole dalla necessità naturale. Nell’uomo invece vive lo spirito, dunque la libertà. Perciò la convivenza sociale nel suo caso non è un frutto elargito spontaneamente dalla natura ma l’esito, sovente tormentato e mai pienamente realizzato, di un lungo e paziente processo che l’uomo «realizza anche per mezzo delle forme spicciole di educazione, cioè con la cortesia» (Ibid., p. 146).
L’invasione della scortesia è quindi il marchio di un’umanità assimilata a falansterio, termitaio o alveare, dominata da relazioni quantitative, spinta all’azione da un febbrile istinto di accumulazione di beni terreni. Come se la quantità dell’avere potesse determinare la qualità dell’essere…
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Va bene tutto… ma così ci perdaimo la politic correct! Siamo sicuri che possiamo affrontare tale perdita?
Andreas! Ieri hai citato il mio abate, la cortesia che nasce in ambito monastico e poi dilaga nella società, la forza che si trattiene per servire, oggi paragoni la cortesia a una liturgia e citi Cristina Campo “più necessario dell’utile”… questo dittico è un gioiello, davvero.
Aggiungo alcune immagini, alle tante che hai evocato, tratte dal mio personale immaginario cortese.
Anche per me la cortesia è prima di tutto monastica: re Totila che rende omaggio a san Benedetto, il soldato romano Martino che offre il proprio mantello… l’intero mondo barbarico che si inginocchia a ondate e si converte a Cristo.
Diviene poi il capolavoro imprevisto della poesia provenzale, della musica trobadorica, un’apertura improvvisa sulla bellezza, incomprensibile senza la regalità di Cristo, senza una dolcezza del vivere difesa da una forza e da un confine (ancora confini, sì).
Passa infine per un’autrice che ho molto amato, di tutt’altra epoca, Jane Austen, nelle cui opere la cortesia e la finezza di modi, dettate da una genuina attenzione al prossimo, confliggono continuamente con due opposti: la volgarità (presente in ogni classe sociale) che ferisce e umilia e la formalità, che allontana e svuota. Quest’autrice così attenta alle dinamiche di relazione attira la nostra attenzione sul difficile equilibrio di vera umanità richiesta dalla cortesia.
Se mi guardo attorno, devo dire che la situazione, anche in questo ambito, sembra drammatica: spontaneismo di superficie, misto a ogni forma disinteresse e disprezzo profondo, un mondo in cui i cani valgono più degli essere umani, in cui non c’è alcuna gerarchia di bene o di “meglio” che ci possa indicare un’ascesa spirituale. L’unico meglio che il nostro mondo conosce è legato al “regno della quantità”: più ricco, più magro, più famoso…
@Daniela: anch’io adoro Jane Austen!
Quello che, in modo totalmente incompleto, ho cercato di dire ieri, e’ che a volte la forma può cambiare anche la sostanza.
Ad esempio, se non mi scaglio contro mio marito quando fa qualcosa che mi indispettisce, li’ per li’ può essere “solo” per le buone maniere, ma alla lunga il nostro rapporto e’ decisamente influenzato, in positivo, dalla mancata abitudine di scagliarsi addosso a vicenda.
Mi fa sorridere vedere alcune donne che trattano i mariti come pezze da piedi, dicendo “ma in fondo sa che lo amo”.
Anche il vero amore ha bisogno della sua “liturgia”, secondo me.
Diciamo che, in tutti i paesi in cui ho vissuto, Italia ed estero, ho sempre trovato, nella gente comune, tanta generosità…amici russi e bielorussi che dormivano per terra per ospitarmi, conducenti di bus che cambiano percorso per aiutarmi, perfetti sconosciuti che si offrono di aiutarmi a portare le valigie (in Italia, questo lo fanno quasi solo gli immigrati: bangladeshesi, africani spesso chiedono gentilmente se serva aiuto), etc. etc. etc. Peròsulla cortesia ci sono varie cose da dire.
Nei paesi dell’area ex-sovietica impera la nota “grubost'”, cioè la scortesia (per es. i conducenti di bus sempre scontrosi), retaggio dell’era comunista, quando la gente era così demotivata da non aver bisogno di nessuna cortesia.
In Germania al contrario la cortesia è ovunque: per strada, in famiglia…sempre. però al contempo ogni tanto questa cortesia sembra celare, compensare, una mancanza di vita spirituale, di carità. è un discorso lungo, che ho fatto spesso con i miei amici tedeschi quando vivevo lì. Però indubbiamente la cortesia tedesca mi manca, quando invece in Italia a volte ti apostrofano, negli uffici o in strada, con decisa malagrazia. anche lì: noi siamo più “spontanei”, loro più formali. C’è da criticare e questo e quello. Preferisco trovare il buono: in Germania la pratica della forma della carità è molto sviluppata: mentre in Italia, a volte almeno, la sostanza della carità viene praticata.
Ciononostante è interessante il discorso “cortesia come compensazione della carità cristiana”. Io l’ho vissuto così, almeno.
Purtroppo anche in ambito monastico sono cambiate le cose. Ho una fotocopia del ormai raro “Galateo monastico” delle Benedettine di Viboldone ma dall’Abbazia fan sapere che non hanno nè una copia del libro, né intenzione di ristamparlo ed è un vero peccato. Spero che trovo qualcuno che lo farà. E con la sparizione di quel Galateo monastico è scomparso anche la cortesia, e chiamarli costa un profondo respiro e prepararsi alla scortesia. Triste.
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Chissà perché quando penso alla cortesia mi vengono in mente i sorrisi plurimi e ripetuti delle commesse nei negozi, dei funzionari di banca, dei premier politici… La chiamerei “cortesia studiata”.
Da contrapporre a quella “libera” che non ubbidisce a nessuna regola e, a volte, sembra confinare con la follia in quanto non risponde alle modalità attualmente in voga. Il discorso sarebbe lungo…
Non so, Lidia.
E’ vero che noi italiani, a volte, dietro una maschera di malagrazia, o addirittura di volgarità, celiamo un cuore generoso.
Ma, a parte che secondo me questo è sempre meno vero, sono abbastanza convinta che, a forza di comportarsi in modo sciatto e scortese, questo modo di fare venga assimilato nel profondo.
Non è questione di conoscere il galateo a menadito (tra le persone più cortesi che conosco ci sono i miei nonni, contadini senza istruzione), ma di praticare la delicatezza, che è in se stessa una forma di carità.
La forma e il formalismo sono per me due cose diverse.
Aggiungerei che una delle cose che trovo più sgradevoli, in Italia, è la spudorata differenza di trattamento che viene riservata a seconda della supposta “classe sociale” del prossimo.
A me, ad esempio, non passerebbe mai per la testa di rivolgermi a un anziano ambulante africano con il “tu”, come non lo faccio con nessuna persona più anziana di me, perché così mi è stato insegnato da bambina.
Ma anche questa non è solo “buona educazione” : si traduce, credo, in un senso profondo di rispetto, di considerazione, di attenzione.Non è questa la cortesia?
Erika, ma nel Piceno la cultura tradizionale non prevedeva il “tu per tutti”, in stile antico romano? (del genere “Dottore, lo gradisci un goccetto di mistrà?” della moglie del malato al medico, o “Che ti serve, signora?” del bottegaio alla cliente) 🙂
@media-e-media: hai ragione sul “tu” ascolano, ma io purtroppo ho vissuto pochi anni ad Ascoli Piceno, poi siamo andati a Roma. Però le mie vacanze ascolane dai nonni sono strepitose!!
Mi piaci tantissimo soprattutto bere l’aperitivo in Piazza del Popolo al mitico Caffè Meletti….una goduria!
La città delle cento torri ha proprio la piazza più bella del mondo…
🙂
Mmmm. La più bella delle Marche. 😀
Scopro solo ora che qui ci sono due illustrissime mie concittadine!!! Media e midia sbilanciamoci un po’: Erika ha detto “del mondo”, ogni altra puntualizzazione è superflua!!! E poi te ne rendi conto quando non ci vivi ma ci torni soltanto di tanto in tanto… ha assolutamente ragione Erika!!! 😀 “Ce vedem annascule!” giuro che non è una parolaccia!
Domine non sum digna del titolo di concittadina (al massimo potrei essere stata con-liceale).
Quanto alla piazza, ve la concederei a occhi chiusi se non ci fosse per quella citata in Purgatorio XI, 134.
Siccome però c’è 🙂 … contentatevi di quello che dice Cesare Brandi:
«Sicuramente Ascoli, non se ne dolga Urbino, è la più bella città delle Marche, una delle più belle d’Italia. Urbino è splendida, ma è un palazzo, non una città. Ascoli non ha un palazzo, ma cento palazzi d’un livello, d’una qualità, d’una signorilità indubitabile; però non ha un palazzo come quello di Urbino. A ognuno il suo, e ad Ascoli la sua stupenda piazza del Popolo.»
Ho cliccato sul tuo nome ed è venuto fuori l’inimmaginabile su Ascoli e sul suo patrono! Complimenti! Approfondirò!
Se vai dai Cappuccini di Ascoli troverai pane per i tuoi denti (non so se conosci p. Renato)… per il resto non lo so; da questo blog, dopo aver scoperto di aver fatto il liceo con scriteriato (per sua sfortuna!), mi aspetto di tutto!
Padre Renato mi pare di averlo visto giorni fa all’Archivio di Stato…Il mondo è MOLTO piccolo 😉
fra Filippo Maria: non dimenticarti che abiti ancora nella “mia città”… Ascoli una volta ogni tanto va benissimo.. ma non t’allargare! 😉
media-e-midia: mi piace la distinzione c he hai fatto tra Urbino ed Ascoli. La condivido: Urbino è una realtà bellissima (la parte storica) ma in effetti è più un castello, invece Ascoli è una città vera e propria. Smack! 😀
Sono felice che ti piaccia ma il merito è di più alta autorità 🙂
http://www.cesarebrandi.org/brandi_chi.htm
sì, non dico di no, infatti c’è molto da criticare sul modello italiano.
Quello tedesco, che a prima vista può sembrare formale, è però anche indubbiamente una buona preparazione alla delicatezza. Lo noto soprattutto nelle famiglie: i miei amici tedeschi sono sempre molto cortesi anche in famiglia, non parliamo poi sul bus, al supermercato….soprattutto c’è una notevole attenzione all’altro: per es. in Italia le commesse a volte ti chiedono – sinceramente interessate – cosa fai, come va, ti dicono se il vestito o il rossetto ti sta bene, più di quanto non farebbe una commessa in germania. però allo stesso tempo a me è capitato di aspettare in fila mentre le commesse chiaccheravano fra loro: questo in germania non sarebbe successo. o almeno succede di rado. In geenrale in Italia va tutto a ondate: mi stai simpatico, o sono buono io, e allora ti faccio favori, accetto documenti oltre le scadenze, ecc. (e non è sempre un male, ammetto che a volte m,i è stato utile, anche se poi vedimao che fine abbiamo fatto con tutte queste deroghe); in Germania invece la cortesia esige anche un rispetto delle regole.
Però una certa sensazione che l’estrema cortesia sia una “forma” data perché si è persa la “sostanza” a me rimane. Come cortesia assurta a sistema sociale, tipo in Giappone. Non so se si capisce….è un po’ lo stesso discorso dei paesi scandinavi, che hanno standard di vita altissimi, ma qualcosa manca. E non è una critica ai paesi scandinavi: a quelli che ogni tre per due dicono “eh ma lì la gente si suicida” direi che, invece di gongolare dei suicidi, pensassimo come trasformare l’Italia in una cortese Danimarca, senza per questo perdere la vita spirituale.
Anche io agli ambulanti dò del lei, tranne quando mi pare che dare del tu sia un farli sentire più a loro agio, magari abituati allo “you” inglese non capiscono il lei.
“pensassimo come trasformare l’Italia in una cortese Danimarca, senza per questo perdere la vita spirituale.”
… direbbe Alessandro: “Dimostrami che in Danimarca non c’è vita spirituale”.
Cattolicesimo, Alvise! Noi vogliamo il cattolicesimo, l’hai capito o no? (in Danimarca l’1% circa sarà cattolico) 🙂
E dire che anche in Italia il cattolicesimo segna il passo. Uno striminzito 18, 5% va a messa la domenica. Per il 70% la religione è quasi irrilevante. E tra i giovanissimi il cattolicesimo sembra in via d’estinzione.
…abbi pazienza, avevo capito “vita spirituale”.
A parte gli scherzi, l’interpretazione autentica delle parole di Lidia devi chiederla a Lidia. Il mio era uno sfogo personale a latere.
beh sicuramente in Danimarca, oltre al marcio, ci sarà sicuramente vita spirituale. diciamo che ho usato Danimarca come simbolo di una società in cui la gentilezza e la cortesia sono la sostanza e si è persa la carità spirituale (buddista, cattolica, protestante o indù che sia….per me, però, ovviamente la migliore è quella cristiana), non tanto nei singoli ma nella società nel complesso.
scusa ma sono stanca e non ce la fo ad argomentare meglio.
magari Alessandro fa un po’ di esegesi del mio pensiero per me? 🙂
C’è ben poco da argomentare….
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http://www.vatican.va/roman_curia/pontifical_councils/corunum/corunum_it/attivita/rc_pc_corunum_doc_20080303_Attivita_Incontri_Plenaria2008_Schallenberg_it.html
PONTIFICIO CONSIGLIO “COR UNUM”
per la promozione umana e cristiana
Osservazioni teologico-etiche
Mons. Prof. Dr. Peter Schallenberg
Facoltà di Teologia
Fulda / Germania
… omissis …
Adesso la misericordia non è più soltanto una virtù borghese o una cortesia civile, utile per una convivenza piacevole. No: la misericordia è adesso il nuovo nome dell’identità fra amore di Dio ed amore verso gli uomini, quell’unità di cui parla Gesù come il comandamento più importante. Dio stesso è diventato solidale con ogni uomo, specialmente con quello che vive nella povertà di corpo o di anima, con quello che vive nel peccato. Dio stesso, come risposta incarnata alla vecchia domanda di Caino, diventa il custode primordiale del uomo, come il buon pastore fino alla fine della sua morte. E la sua morte si mostra proprio come l’ultima dimostrazione di quella solidarietà di Dio con l’uomo. Sulla croce la misericordia riceve un nome nuovo e definitivo: rappresentanza! E ogni uomo è irrevocabilmente invitato ed esortato a questa nuova forma della misericordia, che non si chiude in un ghetto della contentezza, ma che vive la miseria del altro uomo e cerca di aiutarlo. Perché ogni uomo si vede se stesso davanti la pretesa divina di essere e di vivere in rappresentanza per ogni altro uomo e la sua dignità umana.
… omissis …
Altro bellissimo post che andrebbe esposto in tutte le scuole per insegnare ai nostri ragazzi la bellezza di essere cortesi.
Che bello sarebbe se un pizzico di questa cortesia fosse presente nei canali televisivi, magari quelli per i quali si paga il canone.
Pensate alla cortesia negli ambienti di lavoro, quanto meno stress.
Daniela ha citato puntualmente Jane Austen e a me viene in mente anche qualche romanzetto inglese di Oscar Wilde (L’importanza di chiamarsi Ernesto) dove lo humour e l’autoironia
si manifestano all’interno della cortesia e pure le rivalità assumono un carattere più leggero, meno proteso alla sfida.
Concludo dicendo che il solo leggere un post così educato arreca in me una piacevole armonia che mi sembra di saltellare nella tastiera mentre scrivo.
…e la piazza di Ortigia (Siracusa)(dove c’è il Duomo)?
Diglielo te, Velenia!!!
A ciascuno la piazza sua. Ma una sola “in forma di palma, come una mano che offre ciò che l’uomo, dopo la Grecia, ha fatto di più grande” (Albert Camus, Taccuini)
Quale?
Se ti dai la pena di googlare appena per un minuzzolino del tuo tempo, lo puoi scoprire da te stesso. Vedrai che sorpresa.
Ringrazio tutti per i commenti, in particolare Daniela-perfectioconversationis per le magnifiche immagini evocate. Credo che l’immagine completi l’idea (intesa come discorso razionale e logicamente strutturato). L’idea circoscrive, l’immagine evoca; l’idea rimanda alla limpidezza della verità, l’immagine rimanda all’oscurità del mistero. Sono due dimensioni che devono integrarsi in una sintesi, non contrapporsi in maniera radicale. Solo così è possibile, credo, sollecitarsi reciprocamente e spingere ognuno alla riflessione personale, come se un seme lievitasse interiormente in ciascuno di noi.
Cercando di cogliere le sollecitazioni della discussione che si è sviluppata, mi viene da dire che anche la cortesia, per questo suo posizionarsi all’intersezione tra interiorità ed esteriorità, possiede una natura “anifibia”. Si tratta, in fondo, dell’antico tema della maschera, al quale occorre accostarsi con grande circospezione. Io direi così: se è rara la virtù senza alcuna mescolanza con una certa dose di egoismo e di interesse personale è altrettanto rara la maschera pura, la pura simulazione. Ma non è indifferente la maschera che scegliamo di portare sul nostro volto. Questa dice già qualcosa di noi, di quel che vorremmo essere, delle nostre aspirazioni profonde: «Sotto la maschera della virtù vibra sempre, per debole che sia e soffocato dagli interessi non puri che vi dominano, un segreto compiacimento della virtù vera, una particella del volto genuino della morale. Nel comportamento altruistico più evidentemente artificioso (l’amabilità del commerciante, mettiamo) chi non indovina, fra gl’inchini ed i sorrisi, un tenue filo di spontaneità sincera, di cordialità disinteressata? Nel suo pessimismo, Nietzsche dimentica una grande ed umanissima verità: che noi imitiamo di preferenza le virtù di cui abbiamo dentro il germe. Spesso la maschera non fa che completare un volto già abbozzato. Codesto falso Ettore è un vero commediante, disse un tale una volta. Ma se quel falso Ettore e commediante vero – due epiteti assoluti che stonano con la realtà pratica – impersonava efficacemente il tipo di Ettore, vuol dire che nel suo intimo vibrava un po’ dell’anima di Ettore» (Gustave Thibon, Nietzsche o il declino dello spirito, Paoline, Alba 1964, pp. 210-211).
Andreas,
trovo che la somiglianza tra maschera e commediante, da te citata, sia molto interessante.
Che il legame tra forma e sostanza sia così forte da renderne difficile la distinzione?
Ho letto e riletto alcuni passi di Guitton sull’arte del pensiero, in cui afferma che non possiamo parlare chiaramente se non abbiamo chiaro cosa dire, tanto quanto non possiamo pensare bene se mancano nel nostro vocabolario le forme di espressione corrette per generare il pensiero. Ma mentre il primo concetto è comunemente accettato dalla maggioranza delle persone, il secondo incontra ancora la resistenza di molti, i quali sostengono che non sia necessario sapersi esprimere bene per saper pensare bene.
Si rifiuta, in sostanza, l’eventualità che conoscere il linguaggio significhi avere una marcia in più nel pensiero: ci si considera perenni sorgenti di autenticità, che generano roba di qualità nel momento stesso in cui essa è pensata, perchè “interiore” è “autentico” quindi “valido”.
Raramente ci si affida, invece, alla possibilità che la forma esteriore abbia lei qualcosa da dire a noi.
Se dovessimo scriverne il manifesto, suonerebbe come: “Se viene da dentro, va bene; se viene da fuori, è finto”.
Tu che ne pensi?
Hai qualche lettura da consigliarmi per approfondire l’argomento?
Grazie del post.
@ Francesca
Scusa se ti rispondo solo ora ma in questi giorni sono stato un po’ preso. Il tema mi interessa molto ma non ho ancora avuto modo di approfondirlo come vorrei e non ho presente un libro in particolare da indicare, cioè dedicato interamente a sviscerare il tema del rapporto tra volto e maschera, ma posso indicarti dove e da chi ho tratto le sollecitazioni fino ad ora più interessanti: in primo luogo il capitolo “Il volto e la maschera” del libro di Thibon da me citato (Nietzsche o il declino dello spirito, il tema della maschera è tipicamente nicciano).
Io penso che la forma sia sinonimo di “tensione ideale” e costituisca una “forza di attrazione” verso un “dover essere” (qualcosa di simile all’habitus della scolastica). Su questo scrive delle pagine interessantissime Ortega y Gasset nel La ribellione della masse. Le élites dei secoli passati, sostiene Ortega, davano una importanza decisiva alla forma perché ispirate da una tensione verso valori superiori alla propria esistenza, consapevoli che l’esistenza trova significato pieno se è riproduzione di un’essenza, di un modello superiore. Questo valeva in primo luogo per i vertici della società, sottoposti a obblighi più pesanti rispetto alle classi inferiori (noblesse oblige) per acquisire una forma interiore consona al proprio stato. La tensione ideale e il loro esempio trascinavano poi le classi inferiori nell’imitazione. Per secoli le classi emergenti hanno tentato di imitare nelle fogge e nei costumi quelle superiori mentre oggi, non casualmente, accade giusto il contrario. Oggi è l’aristocrazia sociale a vestire gli stessi jeans finto-poveri indossati dai propri dipendenti, capovolgendo la direzione dell’imitazione, e la sua ideologia è quella neoborghese dello “svakking”, del godimento edonista e senza responsabilità.
Anche la parola, soprattutto la parola, come insegna Florenskji, possiede una natura anfibia: è una sorta di “supporto connettivo” vocale capace di mettere in comunicazione il mondo interiore e quello esteriore. Ed è chiaro – sono perfettamente concorde con te e Guitton – che un linguaggio approssimativo rende oltremodo impervia la comunicazione delle nostre esperienze interiori. Perché non basta rendere partecipi del lato materiale di un fatto o di un’esperienza, occorre anche cercare di trasmettere il clima intimo e profondo che li ha avvolti mentre ci accadevano e li abbiamo vissuti.
E per fare questo – anche se certo è impossibile esaurire il mistero di un essere – è indispensabile l’acquisizione di una forma, presuppone un processo di formazione. E questi vale anche per i nostri “contenuti interiori”, che non sono immediatamente accessibili: «Essi si rivelano soltanto a poco a poco e nella misura in cui uno impara a rendere oggettivi i suoi interessi. Si deve imparare ad ascoltare la buona musica e a capirla, per poterne provare gioia; si deve imparare a leggere un testo con attenzione, a comprendere gli altri uomini, persino a distinguere l’uno dall’altro diversi vini, di cui un non conoscitore non può neppure farsi un’idea, presuppone un processo di formazione del gusto» (Robert Spaemann, Concetti morali fondamentali, Piemme, 1993, p. 47).
Andreas: degno seguito del post di ieri! Smack! 😀
La conclusione è la ciliegina sula torta.
L’essere scortesi può essere dato anche dall’essere convinti in qualche maniera di “possedere” anche l’altro, di averne sopra dei diritti… o no?
Andreas: la forma grammaticale non è il massimo… scusami!
Ma figurati, Angela! Sono il primo a seminare sintassi in giro per i commenti (anche nel post c’è un refuso, tanto per cambiare) …
Sì, se manca quella profonda attenzione benevolente per la persona del prossimo, che sta a fondamento della cortesia, ogni essere diventa un “bene fungibile” e “negoziabile” o l’”ingranaggio” di una “macchina sociale” (come in un termitaio, appunto). Per cui abbiamo quella che sempre Thibon ha chiamato la «promiscuità isolante» così tipica del mondo moderno dove «ci si incontra, ci si sovrappone, ci si accoppia più che mai, ma non si comunica», come fossimo semplici ingranaggi giustapposti, e dall’indifferenza si scivola velocemente alla scortesia e all’irritazione (in questo “regno della quantità” il nostro prossimo diventa facilmente un ostacolo sul nostro cammino, un “impedimento” al “funzionamento” del “meccanismo”, da qui il profondo fastidio nei suoi confronti).
Andreas: grazie pe questa risposta!
«ci si incontra, ci si sovrappone, ci si accoppia più che mai, ma non si comunica»: non posso non dar ragione a Thibon (anche a causa di un virus contagioso che gira in alcuni blog… ne sai qualcosa?), ma non posso non pensare: “CHE SQUALLORE!”. Senza giudicare le persone ma lo squallore stesso. 😉
Già, ricorda quel tale che finì per desiderare cibarsi di ghiande… Ma c’è da sperare che per molti l’esito sia lo stesso, dopo aver toccato il fondo: il ritorno tra le braccia di un Padre misericordioso.
😉 Sì, mi è giunta notizia della presenza di questo famigerato hacker-untore thiboniano… E dicono anche che ancora non sia stato messo a punto un antivirus efficace… 😀 Povero Alvise, toccherà thibonizzarsi anche a lui, prima o poi… 😀