Diciotto lettere scritte da un padre, per parlare di educazione a un figlio che sta per mettere su famiglia. Tutto vero: le lettere, il padre, il figlio. Anzi: i nove figli, che in queste pagine hanno messo la vita e anche la faccia, accettando di comparire in copertina. Nessuna teoria: soltanto realtà. Lettere a un figlio sull’educazione (Lindau 2015) è il libro di Giovanni Donna d’Oldenico di cui abbiamo pubblicato un estratto la scorsa settimana la prima parte della diciassettesima lettera e oggi pubblichiamo la seconda e ultima parte.
Tocca all’indice. Qui parliamo anche, ma non solo, di armi: di quelle che sono gli sposi a brandire, prima fra tutte la consapevolezza; e dell’armatura che Cristo offre.
Il punto è che, proprio a causa del nemico, quel non sono più io che ti amo ma Cristo che ti ama in me, viene pronunciato da cuori fragili: l’esperienza mostra che l’indivisibile unità che il Matrimonio forma tra gli sposi, pur essendo infrangibile, pare, talora, frantumarsi; a volte sotto il carico di sofferenze che si direbbero insopportabili, altre volte per colpevoli imprudenze, negligenze e imperizie; oppure per tante piccole trascuratezze che, una sull’altra, finiscono per diventare grandi fardelli.
Eppure, per quanto oneroso possa diventare il peso da reggere, con Dio il sollievo è a portata di mano. Lui raccomanda di prendere il Suo giogo, dichiarandolo leggero. In questo senso: hai presente due buoi aggiogati insieme? Siamo ciascuno di noi e Cristo: Lui, robusto com’è, quando si fa carico del nostro giogo, facendolo diventare Suo, lo alleggerisce e ce ne solleva. Così, qualsiasi giogo può diventare Suo: anche il peso della convivenza di una vita, quando diventasse gravosa. D’altronde, moglie e marito, nella celebrazione del Sacramento, hanno dichiarato pubblicamente di potersi aspettare salute o malattia: malattia è la varicella, ma lo sono anche la depressione, un tumore, l’alcolismo o una lunga disabilità sopraggiunta; essi hanno espressamente preso atto di poter incontrare gioia e dolore: la gioia che un coniuge è in grado di suscitare, sicuro; ma, ahimè, anche il dolore che da lei o da lui può dipendere; e qualunque dolore. E, davanti a testimoni, hanno confermato che, gioia o dolore, salute o malattia, insomma: buona o cattiva sorte, sempre, si ameranno e si onoreranno.
Come vedi, all’altare ci si scambia una promessa talmente grande che, se uno dei due la formulasse esclusivamente a partire da una sicurezza riposta in sé, sarebbe incosciente o bugiardo; darebbe segno di non rendersi conto di ciò che sta facendo: come se gli mancasse quella piena avvertenza che, invece, è richiesta perché il Sacramento sia davvero conferito. La qualità di questa consapevolezza merita un approfondimento. Ci arriviamo.
Intanto, è chiaro che, in verità, solo Cristo può affermare con certezza di essere sempre capace di un amore così, avendolo vissuto fino a morire. E a risorgere. Anche per questo, unicamente Cristo ha titolo per accogliere, ratificare e sostenere la libertà degli sposi quando, nel sacramento del Matrimonio, si spossessano di sé a vantaggio dell’altro e, insieme, a vantaggio di Cristo e della Chiesa. Dal canto loro, i coniugi possono aspirare a che il loro amore diventi atto di Cristo, solo a seguito di una decisione che presuppone una maturità umana raggiunta, della quale anche la coscienza della propria fallibilità è parte. Solo in questa luce un uomo e una donna possono promettersi l’uno all’altra, sapendo che nessuna umana disposizione potrà far venire meno l’effetto del Sacramento; ammettendo in partenza che, paradossalmente, anche se non avvertissero più il loro amore, persino se uno ricevesse dall’altro solo indifferenza e disprezzo, odio addirittura, la promessa e il vincolo che ne è scaturito, non potrebbero più essere revocati: l’amore di Cristo, continuerebbe a esserci, sempre pronto a sostenere e rivitalizzare anche il loro; solo che lo si voglia e Glielo si chieda, con la certezza che ciò che è umanamente impossibile, può diventare semplice, quando è donato da Dio.
Ma di sofferenza e dolore, ti ho già scritto altrove. Dolore: una parola che persino dentro un momento gioioso e festoso, com’è uno sposalizio, sapientemente la Chiesa ricorda e fa pronunciare. In modo che moglie e marito riconoscano, affermino e accettino che l’indissolubilità, la fedeltà e la fecondità che il loro cuore desidera, restano possibili, siccome donate più che conquistate, persino dentro le croci che sono la stoffa della vita; piccole, grandi o immense che siano. Anche l’amore di Cristo per la Chiesa, così intimamente legato al Matrimonio, non è sempre un’amena passeggiata, essendo scaturito dalla Croce: passione, morte e Risurrezione. Pure l’amore della Chiesa per Cristo non è indolore: è anche generatore di martiri, come di questi tempi, più che in altri, abbiamo davanti agli occhi. E senza andare a versare il sangue in territori ostili ai cristiani, pure un Matrimonio può diventare martirio.
Allora. Eucaristia: nessun ministro può sconsacrare un’ostia consacrata. Penitenza: nessun ministro può ricaricare sulle spalle di un penitente un peccato debitamente rimesso. Matrimonio: nessun ministro può slegare ciò che Dio ha congiunto. Eucaristia e Penitenza: nutrimento e farmaco di tutta la vita, anche della vita coniugale. Senza ricorrere a questi mezzi, non stupisce che la durezza dei giorni possa diventare sempre più obiezione. Eucaristia, Penitenza e preghiera: l’armatura di Cristo, indispensabile per mantenere viva e sana la grazia del Sacramento; senza di esse, va a ramengo il Matrimonio.
Che è una sorta di Sacramento continuo: per proseguire in un’analogia che pure ha i suoi limiti, come l’Eucaristia è Santissimo Sacramento ogni secondo di ogni giorno, fintanto che non viene consumata, così il Matrimonio è Sacramento che permane ogni secondo di ogni giorno, finché morte non separi, come si diceva una volta con pratica e popolare finezza teologica. Dunque i coniugi esprimono, abitano e celebrano una sacramentalità ininterrotta, che non si realizza certo soltanto quando esercitano gli atti propri ed esclusivi del Sacramento. Non solo il rapporto sessuale, per intenderci. Ogni loro quotidiano gesto, quando è espressione di quell’amore che è dare la vita l’uno per l’altro, viene assunto da Cristo e diventa segno e strumento del Suo reciproco amore con la Chiesa. Tutto quanto è buono e bello, giusto e vero; tutto quanto c’è di prova combattuta e di male redento; tutta la felicità domestica e la fatica; tutto entra nell’abbraccio del Sacramento. Tutto: anche il rifare i letti e il lavoro per il sostentamento, caricare i bagagli nel baule e preparare gli agnolotti, sorrisi e osservazioni, la peperonata, l’addormentarsi alla sera tenendosi per mano, pagare le bollette, ogni accudire e ogni attenzione, il silenzio, invitare amici a cena, ogni croce, lavoro e riposo, il perdono dato e il perdono ricevuto; evidentemente, e in modo del tutto particolare, anche il mettere al mondo e tirare su i figli, nel caso arrivino. Una benedetta quotidianità in cui ogni atto può diventare per Cristo, con Cristo e in Cristo. Se ti serve un modello, prova a figurarti la Santa Famiglia di Nazareth, anche se la moda attuale non se la fila più molto. Peccato. Per la moda.
La Santa Famiglia: Gesù, Maria e Giuseppe. Esempio e sostegno per ogni famiglia. Tre persone dalle quali imparare e impetrare anche le qualità che rendono maturi e liberi per poter celebrare con consapevolezza il Matrimonio. Una coscienza di importanza capitale; perché tutto quanto avviene in un Sacramento, per poter accadere davvero, ha bisogno che la materia sia adeguata: non si può amministrare validamente il battesimo con il caffè; dell’Eucaristia, materia sono il pane e il vino e tentare di consacrare una pasta di meliga e una spremuta di arance sarebbe vano, oltre che sacrilego.
Per il Matrimonio è lo stesso: quella materia che gli sposi mettono, deve avere le qualità appropriate, affinché succeda ciò che Cristo e la Chiesa intendono. Qualità talmente indispensabili che sono ricordate e riaffermate in modo solenne nel rito del Sacramento. Essere arrivati all’altare liberi, senza costrizione e pienamente consapevoli del significato della propria decisione: sì. Essere disposti ad amarsi e onorarsi l’un l’altro per tutta la vita: sì. Voler accogliere responsabilmente e con amore i figli che Dio vorrà donare e impegnarsi a educarli secondo la legge di Cristo e della Chiesa: sì.
La questione è: come fare ad affermare questi tre sì, con sufficiente affidabilità? Una domanda che ci introduce alle altre quattro che ti ho preannunciate.
Con esse siamo arrivati al pollice; e avremo modo di rendere di nuovo esplicito il tuo compito di educare un figlio.
Prima, però, torniamo alla birreria dov’eravamo. Mentre tu rincasi un po’ mogio, chiedendoti cosa ti sia saltato in mente di insistere in quelle richieste impertinenti, i due fidanzati, amici tuoi, tirano tardi, passeggiando per i fatti loro. Sono combattuti tra la voglia di mandarti al più presto a quel paese e il desiderio di ringraziarti. Perché la tua provocazione, buttata là tra il serio e il faceto, ha fatto emergere nel loro cuore un problema che non si erano ancora posti con la dovuta attenzione: quello della personale affidabilità, appunto. E dato che si amano per davvero, non se lo stanno proponendo in modo egocentrico, cioè così: che garanzia mi darai tu di essere credibile quando, tra qualche tempo, ti impegnerai in una promessa che può suonare azzardata? Ma si stanno interrogando in un modo altruista, questo: io, così come sono oggi, io che sento di amare più di me stesso te, con i tuoi pregi e i tuoi difetti odierni, come posso avere la sicurezza di non ingannarti, promettendoti, adesso, di amarti così come sarai domani, con pregi e difetti di domani, i tuoi e i miei, che io, ora, manco posso prevedere? L’ultima cosa che vorrei è prenderti in giro: su che base verifico se ho i numeri per riuscire a mantenere il mio impegno? Detto in altri termini: porto materia adeguata per unirti a me nel Sacramento?
Lasciamo che i tuoi due amici cerchino le risposte buone per loro. Qui te ne propongo alcune che valgono per me. Alcune soltanto: altre ne trovi fra quanto ti ho scritto nelle lettere precedenti; se ti serve, considerale anche da questo punto di vista.
Solo quattro punti, allora; quattro, come quando ti ho parlato del discernimento; ricordi? Quattro suggerimenti per aiutare tuo figlio, in caso questa sia la sua vocazione, a verificare se è in grado di assumere l’impegno con cui prometterà, per tutta la vita, sé alla persona che ama, senza timore di ingannarla.
Un avviso. Si può certamente celebrare un vero Matrimonio anche senza impegnarsi di proposito in questa valutazione di sé: uno può essere, di fatto, maturo al punto giusto, anche se non se lo è chiesto esplicitamente. Però una delle ragioni per le quali vedi intorno a te coppie che scoppiano, potrebbe essere proprio la leggerezza con cui i due hanno data per scontata una capacità che non possedevano, trasformando di fatto la promessa in scommessa: scommetto di esserti fedele sempre e di amarti e onorarti tutti i giorni della mia vita. Sai bene che, così facendo, il Matrimonio è ridotto a fatto di costume e non viene celebrato per davvero: i due, immersi in una sacra coreografia, recitano un copione che ha la parvenza di un Sacramento, il quale, invece, non sussiste, dato che la materia manca o è viziata; come se il vino, materia dell’Eucaristia, fosse diventato aceto: potrebbe servire alla perpetua per condire l’insalata, ma non diventerebbe il sangue di Cristo.
Nel caso del Matrimonio, questa corruzione della materia, che ne invalida la celebrazione, era forse meno comune in epoche in cui la vita di famiglia e la cultura contribuivano a sviluppare un’umanità più diffusamente virtuosa, coraggiosa e retta; gente capace di scelte definitive; quantomeno più naturalmente consapevole di ciò che mettere su famiglia implica. Ma quella sorta di guerra mondiale che, da tempo il nemico e i suoi alleati, seppure sconfitti in partenza, combattono contro Cristo e la Chiesa, cioè contro l’uomo e, in particolare, contro il Matrimonio, sovverte i cuori, negandone o riducendone le domande e i desideri. E le macerie che ogni battaglia si lascia dietro, sono donne e uomini instabili, destrutturati e senza nerbo; in cui, sovente, la superbia è pari solo alla fragilità e la violenza è direttamente proporzionale alla paura; persone la cui incapacità di realizzazioni durature genera una frustrazione e una disistima di sé che, per quanto si cerchino di rintuzzare, prima o poi vengono a galla.
E guarda che è un rischio che corriamo tutti. Nessun giudizio quindi: tocca piuttosto rimboccarsi le maniche; perché l’educazione diventa sempre più un’emergenza, dunque un compito e una missione.
Macerie: pensa a come una volta, e per tanti, fortunatamente, ancora oggi, la stabilità fosse un valore grande e la mobilità quasi una condanna, da subire se proprio non se ne poteva fare a meno. Se io fossi il capo del personale di un’azienda e, tra i mille curricula che, con banale monotonia, sottolineano le molteplici esperienze e la disponibilità a lavorare in giro per il mondo, trovassi quello di un candidato che afferma la propria indisponibilità a trasferirsi e sottolinea la propria costante permanenza in un’unica precedente esperienza lavorativa, mi affretterei a convocare l’autore di questo, ritenendolo, se non un genio, almeno una personalità degna di considerazione. Oppure pensa a com’è in ribasso il principio di passività, che consiste nel non inseguire la novità, non prendere iniziative, né dedicarsi ad altro, finché non sia manifesto che a ciò è Dio a chiamare. E se leggi la sesta e ultima delle Massime di Perfezione Cristiana di Rosmini, troverai istruzioni più uniche che rare, a riguardo. Quante opere durature e quante grandi imprese costruiscono coloro che vivono stabilità e passività: arrosto, case fondate sulla roccia. Quanta fuffa, invece, produce chi è capace solo di mobilità e attivismo: fumo, case fondate sulla sabbia.
Siccome, dunque, c’è in giro, ormai da anni, questo clima nel quale l’accidia, invece che essere riconosciuta per quella sentina di vizi che è, viene spacciata per stile e proposta di vita, non stupirti se la capacità di tener fede alla parola data diventa merce rara. Per questo oggi, più che una volta, è doveroso non dare nulla per scontato. Ecco perché è indispensabile che tuo figlio, se e quando sarà ora, si metta difronte a se stesso per capire la qualità della materia che porta nel Sacramento del Matrimonio.
Premesso questo, vediamo questi quattro punti.
Punto uno.
Nessuno è perfettamente prudente, giusto, forte e temperante. Ma chiunque voglia avere un’umanità formata e non deforme, non può non riconoscere in queste quattro virtù il cardine di una vita vissuta in modo degno.
Lascio parlare per qualche riga il Compendio del Catechismo della Chiesa Cattolica. Prudenza: saper discernere in ogni circostanza il vero bene e scegliere i mezzi adeguati per attuarlo. Giustizia: volontà costante e ferma di dare a Dio e agli altri ciò che è loro dovuto. Fortezza: fermezza nelle difficoltà e costanza nella ricerca del bene, a costo di qualunque sacrificio. Temperanza: moderazione dell’attrattiva dei piaceri, dominio della volontà sugl’istinti, equilibrio nell’uso dei beni creati. Quattro virtù: disposizioni abituali e ferme a fare il bene. Disposizioni, c’è scritto. Non vuol dire che uno faccia sempre e soltanto il bene: Dio solo ne è capace. L’importante è impegnarsi ad acquisire queste virtù e a crescere in esse. Con l’aiuto della grazia, naturalmente.
Allora ecco un primo strumento da mettere in campo, quando la valutazione della propria umana consistenza diventa amore e attenzione all’altro: chiedermi se i miei atti esprimono, perlopiù, prudenza, giustizia, fortezza e temperanza; e se, quando non lo fanno, me ne rendo conto, me ne addoloro, intensifico il mio impegno, anche di preghiera e di mortificazione; e ricorro con costanza ai Sacramenti.
Come vedi è questione molto pratica, dato che per ascoltare la propria coscienza, gioire del bene, rammaricarsi del male, proporre di emendarsi e chiedere aiuto, non serve essere istruiti, ricchi o geniali. Anzi, è meglio essere, piccoli e semplici, secondo l’auspicio di Gesù: «Se non ritornerete come bambini». Tanto che la domanda giusta cui dare risposta, alla fine di questo esame di coscienza sulle quattro virtù, non è se sono abbastanza grande per sposarmi, ma se sono abbastanza piccolo; non se sono sufficientemente adulto, ma se sono sufficientemente bambino, per farlo.
Punto due.
Un bimbo piccino vive in modo immediato la coscienza della propria totale dipendenza: quell’io sono tu che mi fai, che afferma davanti a sua madre, senza rendersene conto. Questo, nell’adulto, cui è richiesto di ritornare come un bambino per entrare nel Regno dei Cieli, deve diventare l’io sono Tu che mi fai, coscientemente e ragionevolmente espresso davanti a Dio. Coscienza di dipendenza e, dunque, mendicanza. Anche qui, allora, la prospettiva giusta non è chiedermi se sono abbastanza ricco e dotato per sposarmi, ma se sono abbastanza povero.
Punto tre.
Che è una declinazione di questa dipendenza: ho un’aspettativa giusta su di me e sulla donna che amo? Che vuol dire due cose: avere ben chiaro che la mia felicità non dipende da lei, né la sua da me; e, in secondo luogo, ammettere che, celebrando il Sacramento, all’altare e poi ogni giorno della vita, io, in un certo senso, mi ricevo da lei e viceversa.
La tua felicità non dipende da me, né la mia da te: quante difficoltà, invece, insorgono quando una convinzione infantile sostiene ciascuno dei due sposi nell’illusione che la propria felicità dipenda dall’altro. Un bel niente: solo Cristo è risposta adeguata all’esigenza di felicità totale che ogni uomo è. Chi non pratica questa certezza, prima o poi comincia a pretendere ciò che è impossibile; e se la pretesa non cede in fretta il posto alla realtà, inizia la fine di un amore. A meno di un miracolo. Questo non vuol dire che gli sposi non c’entrino con la reciproca felicità: il Creatore stesso ha stabilito che non fosse bene per l’uomo restare solo, quando ha deliberato di dargli un aiuto che gli fosse simile, carne della sua carne. Un aiuto per un bene, cioè per sostenersi vicendevolmente nei giorni e negli anni; per diventare migliori; per le fatiche da portare e le faccende da sbrigare. Ma, soprattutto, un aiuto per quella felicità, che non può prescindere dal riconoscimento della propria originale dipendenza: io sono Tu, o Dio, che mi fai; e che non può compiersi se non nell’esaudimento della preghiera: vieni, Signore Gesù. Ma vieni dove? Vieni qui, a casa nostra, in queste nostre giornate cariche di daffare, in ogni istante, in tutti i gesti concreti che sono la sostanza del nostro amore e della nostra vita.
Moglie e marito non sono autori, ma via per la reciproca felicità: la strada maestra che Cristo percorre per farsi incontro a entrambi. Cosa di cui è naturale conseguenza il fatto che ciascuno dei due riceva se stesso dall’altro. Se tu sei tramite attraverso cui Cristo giunge a me, allora attraverso te passa Colui che è il significato di me: per questo io mi ricevo da te e davvero sarò dipendente da te per tutta la vita. Beata dipendenza. Santa: nella misura in cui tu avrai portato Cristo a me e mi avrai e condotto a Lui, allora la morte che, come ti ho detto poco fa, avrà posto termine al Sacramento, non scioglierà ciò che in terra ci ha unito; diventandone, piuttosto, l’eterno e grato compimento.
Qui hai modo di considerare come la verginità consacrata costituisca, per gli sposi, un richiamo grande alla verità del loro amore. Essa, infatti, è concreta e visibile affermazione che Cristo è l’unico necessario; e che per una donna o un uomo è possibile scegliere, quando Dio a questo chiama, di anticipare il cielo in terra, rendendo evidente al mondo, con il proprio stato di vita, che la venuta di Cristo è il destino di ogni persona e della storia. Davanti alla verginità, due sposi sono visibilmente sollecitati a ricordare che solo Cristo compie ciò che il cuore desidera e che ogni desiderio è buono, se può essere riconosciuta e vissuta in esso questa tensione all’esaudimento totale che Cristo è. Dio, prima ha fatto quella donna e quell’uomo e poi, come si dice, li ha accoppiati, perché si aiutino a realizzare la venuta di Cristo nelle loro vite, nella famiglia e nella Chiesa. In virtù del Sacramento, ogni istante, è colmo dell’implorazione: vieni Signore Gesù; pronunciata con i fatti, prima e più che con le parole. Ti è chiaro questo? Lavare i piatti, per la grazia del Sacramento, diventa amore tra Cristo e la Chiesa, cioè diventa esclamare: vieni Signore Gesù; anche se in questo momento sei alle prese con le mani insaponate e il telefono che squilla, e urli che qualcuno, per favore, vada a rispondere; e manco ti passa per la testa una giaculatoria.
Verginità: io sono Tu che mi fai. Affermare Cristo come consistenza e destino della vita e del cosmo. Domandare che Egli venga. Percepire la realtà tutta come richiamo a quel di più che è Cristo, perché nulla basta se non Lui. Ricordare questo al mondo.
Dunque. Prima domanda: se sono abbastanza bambino. Seconda: se sono sufficientemente povero. E adesso la terza: sono abbastanza vergine per sposarmi?
Guarda che se la risposta a una di queste tre domande, e all’ultima che arriva tra poco, fosse un prevalentemente no, sarebbe meglio che tuo figlio aspettasse a celebrare il Sacramento, per maturare ancora un poco, camminando con la sua fidanzata. Magari entrambi sostenuti da quella porzione di Chiesa che è loro più prossima. Per essi potrebbe essere un’occasione per far pratica in quell’opera di educazione che, da sposi, saranno chiamati a compiere, insieme e l’uno verso l’altra, per tutta la vita. Se hai voglia, prova a rivedere un po’ di quanto ti ho scritto in ognuna delle lettere come se, anziché indirizzate a te, fossero lettere a un coniuge sull’educazione: potresti trovare spunti interessanti anche a questo proposito. In ogni caso, due sposi che, per amore del quieto vivere, o per pigrizia o, peggio ancora, per leggerezza o disinteresse, trascurassero questa funzione di mutua educazione, tutto sarebbero, meno che aiuto l’uno per l’altra.
Punto quattro, infine.
L’ho lasciato per ultimo, ma è di importanza vitale perché tuo figlio possa prendere le misure della stoffa della propria umanità, per vedere se ne ha abbastanza per cucire il suo abito nuziale. Che, come hai capito, non è questione di giacca e pantaloni, ma di maturità e affidabilità.
Suggeriscigli di immaginare una bilancia, di quelle a due piatti, sulla quale mettere, come pesi, il suo orgoglio da una parte, la sua umiltà dall’altra. Senza stare a lambiccarsi il cervello: pochi ragionamenti e molta osservazione; che non stia a perdere tempo con le idee: badi ai fatti, giacché vedersi all’opera è il modo migliore per conoscersi per davvero. Che consideri come agisce. Dunque: nei suoi atti esteriori e interiori, che so io, nell’ultimo anno, ha dimostrato più orgoglio o più umiltà? Da che parte pende l’ago?
E casomai avesse bisogno di un ripasso per declinare l’umiltà, prenda la Regola di Benedetto e ne scorra, senza fretta, il capitolo dedicato a questa virtù, il settimo: contiene tutto quanto serve sapere. Invece sull’orgoglio c’è poco da ripassare: siamo tutti pratici di questo che il salmo diciannove chiama il grande peccato. Comunque, basta osservare che è tutto il contrario di quanto san Benedetto ascrive all’umiltà.
In effetti nella vita di chiunque, prima o poi, qualche motivo per sentirsi orgogliosi capita: ma c’è un modo virtuoso di esserlo.
Considera Maria, la sapiente e giovane casalinga, ebrea palestinese, che è la donna più grande della storia, avendola contenuta tutta nel grembo. Qual è stato il suo atteggiamento davanti all’evento enorme che l’ha resa Regina in terra e in cielo? Ne è stata orgogliosa? In un certo senso sì: non avrebbe potuto non esserlo. Ma lo è stata proprio toccando la vetta dell’umiltà, cioè della verità di sé. Davanti alla cugina Elisabetta abbandona per una volta il proprio riserbo, quella riservatezza capace di contemplazione e certo non dovuta a timidezza, fatta di silenzio e custodia nel cuore di parole e avvenimenti; e prorompe in quel cantico estasiante che è il Magnificat.
«D’ora in poi tutte le generazioni mi chiameranno beata», esclama, non potendo negare la realtà.
Tuttavia, non s’intesta questa grandezza, non se ne appropria: «L’anima mia magnifica il Signore», proclama, volendo subito riferire tutto all’Unico vero grande; quasi a renderLo ancora più grande, mai le fosse possibile.
«E il mio spirito esulta in Dio mio Salvatore»: si riconosce salvata per prima e, lungi dal menarne vanto, ringrazia l’Autore della sua salvezza.
«Grandi cose ha fatto in me l’Onnipotente»: è come se lei non avesse fatto nulla.
«E santo è il Suo nome»: non si attribuisce nessuna patente di santità.
In fin dei conti: perché magnifica il Signore?
«Perché ha guardato l’umiltà della Sua serva.»
Trionfo dell’umiltà.
Ecco allora la quarta domanda con cui tuo figlio potrà tastare il polso della sua umana consistenza. Una domanda che potrebbe suonargli un po’ strana, lì per lì; poco male: si accorgerà che saranno proprio le risposte a chiarirgliela. Purché ci lavori. Che si chieda questo, dunque: nella sua secolare saggezza, la Chiesa, ogni sera, nella Liturgia dei vespri, ripropone la recita del Magnificat. Ho capito perché? In altre parole: nei miei giorni e nelle mie opere, ricorro a Maria perché mi aiuti a vivere secondo il suo sguardo e la sua posizione? Magnificat.
Basta. Sono contento di congedarmi con il Magnificat.
Nel tuo Matrimonio, nell’educazione di tuo figlio, nella vita tutta, sii sempre molto umile. Umilissimo. Come Maria: non nascondere la grandezza, ma spariscici dentro, affermandola per la gloria di Dio.
Allora, anche quando vedrai crescere bene tuo figlio e assisterai allo spettacolo del suo diventare uomo grande, cioè secondo Dio, ricorderai che ogni benemerenza è di Dio. A te, come a me, toccano: la certezza del servo inutile che, se va bene, ha semplicemente fatto quanto doveva; e la gratitudine verso il Padre per i Suoi doni e per le Sue inesauribili misericordie. Fai come se tutto quanto di bene ti vedi intorno, avvenisse grazie a Lui e nonostante te. Tu coltiva un desiderio sempre crescente di farti da parte, quasi nasconderti, per non guastare l’opera di Dio. Perché sia chiaro che a Lui, che tutto conduce, va ogni merito.
Magnificat: questa parola che quotidianamente ripeto, prendila, adesso, come il mio grazie a Dio per te, per le tue sorelle e i tuoi fratelli e per la mia sposa. E per questa grande compagnia che il Signore ha voluto che poi ci fosse tutto intorno. E per quella che, di sicuro, poi sarà.
Grazie.
Ciao.
Salve, è possibile essere rimossi dalla mailing list? Perché arrivando così tante mail mi si blocca il telefono e forse è meglio per me consultare il vostro sito. Grazie mille, Laura
Non dipende da me, ma credo che in fondo alle mail che ricevi ci sia un’opzione “unscribe”. Basta cliccare e seguire le istruzioni.
Io non ho mai ricevuto nessuna mail. Per vedere devo venire sul blog. Basta non cliccare sulla casella apposita.
…più famiglia “borghese” di così!!!
(vedi foto sopra)