di Paolo Pugni
Cara Marisa
che dono infinito mi hai fatto! Perché non solo mi hai dato la vita, ma l’hai caricata di quella gravità che tocca solo ai sopravvissuti, agli scampati. A chi esce da un massacro per un colpo di fortuna, perché l’hanno creduto morto, o qualcuno s’è preso le pallottole per lui.
Oggi ho rubato un sussurro che m’ha gelato il cuore, prima di accenderlo. Parlavano di santi e beati e s’è fatto il nome di quella Gianna che fece il gran rifiuto per muovere il cielo e le altre stelle. E si diceva che nell’accettare la vita eterna per offrire quella terrena alla nascitura, stava proteggendo i figli già nati, che se avesse scelto la sua di esistenza a costo di sopprimere l’altra, che eredità avrebbe lasciato? Non avrebbe forse affermato che la sua vita era più importante della loro? E che era solo un caso che loro fossero vivi e non soppressi dai colpi di una battaglia di sopravvivenze.
Mentre scegliendo di dare la vita, prendendo per sé l’eternità, sussurrava loro che quella vita valeva la pena di assaporarla e che nessuno può dire ad un altro: la mia vita vale più della tua.
Ecco.
Queste parole mi son scese piano dentro, prima di esplodere con una violenza che non immaginavo, di quella che strappa la carne della ossa e srotola quel passato che con energia hai conficcato nel suolo, per tenerlo nascosto, per evitare che ti venga alla bocca ad ogni respiro, per evitare che sia così forte il rigurgito che ti soffochi.
Perché finalmente ho capito dove nasce questa dolcezza triste che mi sta dentro, questa sensibilità acuta, che fa bene e a volte fa male, anzi fa più male, ma non di quel dolore sudicio e imploso, che ti fa sentire vittima e quindi giusto, colpito dalla vita, da Dio, che puoi accusare e insultare. No. Di quel dolore assorbito per osmosi, che respiri dagli altri, che diventa com-passione, che fa gruppo, compagnia. Insieme. E quindi non scava dentro, ma ferisce per dare vita.
Di questo dolore qui, io sono malato, e lo sento quanto respiro, forte. E ho capito la sua origine.
Perché io sono un sopravvissuto.
La mia sola fortuna è di essere stato il primo. Il primogenito.
Dopo, apparentemente per proteggere me, hai negato la vita a chi dopo di me ha provato a bussare alla nostra famiglia. Due? Tre volte? Me l’hai sussurrato una volta, come accusa, in uno di quei giorni in cui la rabbia ti teneva lontana dagli affetti, e gli occhi ti si accendevano per ciò che, dicevi, la vita ti aveva rubato. Perché ti sentivi vittima, sempre. E probabilmente lo sei stata.
Che questo mio essere superstite non è un atto d’accusa a te. No. Tu che già conosci la Misericordia e ti sogno nelle Sue braccia ad accarezzare quei figli che non vedesti.
No.
Semmai è atto d’accusa per chi non ti fu vicino allora, per chi quella tua età la spense, la raggirò. Per chi pensava di fare bene togliendo il respiro, a te per prima.
E quindi è atto d’accusa per me, che non so amare chi mi è vicino. Non so sedermi sugli argini, quale sia la forma che prendono oggi, i sedili di una metropolitana o i tavoli di un meeting, e ascoltare. Perché l’amore è soprattutto silenzio attivo, non parola. Quella viene dopo.
Ricordo un verso di un autore a pagamento, bassa manovalanza della poesia, che sa squillare senza infiammare che suonava così: “come avremmo potuto parlare davanti a colori che non avremmo rivisto mai più?”. Ecco. Il potere del silenzio che abbraccia.
Questo il cammino che mi hai insegnato con le tue scelte che hanno scavato la mia vita, l’hanno caricata di senso ed espiazione.
E dell’eredità di vivere per quei fratelli che ho lasciato cadere nel nulla con la mia sola presenza. Senza volerlo. Che poi l’ho imparata il principio di Heisenberg: “di un elettrone non è possibile conoscere contemporaneamente posizione e quantità di moto”. No, non m’è partito un embolo. Se guardi tra le righe questa roba qui suona in altro modo: “l’osservatore influenza l’osservazione” e il mio esserci, essere il primogenito, il maschio unico desiderato, ha offuscato la vostra osservazione per cui non ci dovevano essere principi che contendessero il trono al maggiore. E quindi i pretendenti… giù dalla rupe Tarpea, preda di mammane che praticavano pianificazioni familiari al buio di sguardi compiacenti, della borghesia di una città che negava la sua vocazione pretendendo di guardare al futuro.
Quante cose sull’amore m’hai insegnato con questa carneficina!
E la mia vita è ora moltiplicata per tutti:per voi, per loro, per me. Per la mia famiglia.
Me la sento addosso questa vita, tutti questi cuori che pulsano e sento le loro emozioni. Sarà per quello, dicevo, che mi commuovo facile, che la mia sensibilità è tesa come un palloncino e fragile e basta poco per farla scoppiare, e non sai da che pare scollina, se nel pianto o nel livore, ma nessuno dei due nero, piuttosto arancio, come il fuoco quando pulisce, toglie tutto, rade al suolo. E questi cuori sanguinano, perché parlano di voi, che mai o non più siete, ma non sordi, non muti, non assenti, piuttosto qui, infissi, come paletti che nella nebbia e nella neve segnano il cammino.
Non più sopravvissuto, ma vivo. Per voi.
Che meraviglia, Paolo!
(anna)
Paolo Pugni:
“Queste parole mi son scese piano dentro, prima di esplodere con una violenza che non immaginavo, di quella che strappa la carne della ossa e srotola quel passato che con energia hai conficcato nel suolo, per tenerlo nascosto, per evitare che ti venga alla bocca ad ogni respiro, per evitare che sia così forte il rigurgito che ti soffochi.”
Mi ha fatto venire in mente quello che ci raccomandava il nostro professore di italiano al Ginnasio:
“Quando vi sembra di aver scritto qualcosa di “straordinariamente drammaturgico” rileggetelo e rileggetelo, e poi tagliate!”
Non ha mai detto: “Quando vi sembra di dire sempre la stessa cosa andate dal medico che forse vi è venuta la teresina”?
a me hai fatto venire in mente il Poeta e il Cristo, il primo quando dice nell’anticamera dell’inferno “non ti curar di lor ma guarda e passa” e il secondo quando dice “non gettate le perle ai pòrci”.
Capisco che bisogna avere un certo cuore per capire e assaporare. Chi non ce l’ha proprio, perché ormai l’ha svenduto o prosciugato, non ha che una cosa da fare: irridere per invidia e rinserrarsi sempre di più nell’atroce deserto della sua vita sfatta.
Paolo Pugni
…cercavo solo di richiamarti alla semplice umile prosa di ogni giorno, a non lasciarti imbambolare dallo slancio creativo quando, anche, scrivi, per esempio: “nell’atroce deserto della sua vita sfatta”.
Caro Paolo, quando scrivi riesci a catturare la mia attenzione e trovo sempre qualche frase che mi colpisce. Leggendo, mi è venuto in mente il giorno in cui, da adolescente 15 enne, ho implorato mia madre di non rinunciare a far nascere la sesta sorellina, dicendo che l’avrei aiutata a crescerla. Promessa mantenuta.
Grazie, apprezzo molto