La natalità come salvaguardia della libertà

G.K.-Chesterton-and-Child

di Andreas Hofer

Ogni bambino è di per sé simbolo e sacramento della libertà personale. È un nuovo libero arbitrio che si aggiunge ai liberi arbitri del mondo.

(G. K. Chesterton)

Distruggere la famiglia. È l’imperativo categorico che in ogni tempo ha animato le macchine totalitarie. (1)

Le ideologie sono vere e proprie agenzie di separazione familiare. Sempre, con ostinazione pari solo alla loro ferocia, hanno cercato di dare vita alla più assurda e innaturale delle astrazioni: il mito di un « individuo puro ». Nella realtà storica, infatti, non si dà un individuo assoluto: non esiste un essere emancipato da ogni legame, privo di relazione con qualche suo simile.

Addirittura, sostiene l’antropologo Marc Augé, l’opposizione dei sessi che fonda la famiglia può essere considerata come l’origine e il modello di tutte le opposizioni che servono a pensare l’identità (l’io), l’alterità (la differenza tra l’io e il mondo degli altri io), la relazione (il legame col mondo esterno).
Per realizzare la riduzione della persona a pura individualità le ideologie hanno cercato di operare essenzialmente su due registri, osserva Hannah Arendt nella sua celebre indagine sulle origini del totalitarismo.
Il primo registro è quello dell’isolamento sociale. Col terrore – che è l’essenza della politica totalitaria – si distrugge lo spazio della politica. Spezzare ogni legame tra gli uomini equivale ad impedire l’azione collettiva. L’individuo è ciò che resta: l’uomo che ha perduto il contatto coi propri simili.
Il secondo registro è l’estraniazione. Si tratta di spezzare un altro tipo di legame, e non di minore importanza: il legame simbolico dell’uomo con la realtà circostante. Qui si attacca la vita privata, fino ad istillare un senso di estraneità nei confronti del mondo.
L’uomo sottoposto a questo duplice assalto sente così di essere sradicato (cioè di non avere un posto riconosciuto e garantito dai propri simili) e superfluo (ovvero di non appartenere al mondo).

Ingiustizia e irrealtà

Sradicamento, superfluità, alienazione. Bastano queste parole chiave a smentire parecchi luoghi comuni. Perché il suddito ideale del regime totalitario, dice la Arendt, non è il militante fanaticamente devoto alla causa. Non è, come si crede, il nazista convinto o il comunista convinto. È piuttosto l’uomo de-realizzato, sconnesso dalla realtà: l’individuo per il quale non esiste più la distinzione tra realtà e finzione, tra vero e falso. E a ben vedere anche il cittadino infinitamente desiderante del mondo virtuale si attaglia alla perfezione a una simile descrizione…
L’irrealtà, non a caso, è il luogo della somma ingiustizia. È noto che per fare il bene la buona volontà e le buone intenzioni, da sole, non bastano (se non a lastricare le pareti infernali). Prima di agire bene occorre infatti aver conosciuto bene.
Prudentia dicitur genetrix virtutum (« la prudenza è detta madre delle virtù ») ha scritto san Tommaso. È chiaro il motivo che ha portato l’Aquinate ad assegnare un tale rilievo alla virtù della prudenza. Come ricorda Josef Pieper, la prudenza rappresenta il punto d’incontro tra la vita morale e la vita reale.
La preminenza della prudenza esprime, in relazione al campo dell’etica, la struttura fondamentale della realtà. « Il bene – afferma Pieper – presuppone la verità, e la verità presuppone l’essere ». (2)
Ogni attuazione del bene presuppone la conoscenza del reale. Dal momento che il bene è ciò che è conforme alla realtà, come si può compierlo senza sapere come le cose sono, come stanno realmente? Perciò la giustizia richiede un contatto reale con la realtà oggettiva.

Il rifiuto della nascita

La separazione che preclude ogni comunicazione vitale, pertanto, è sempre pretotalitaria. Grazie alle nuove tecnologie della riproduzione il processo di estraniazione dalla realtà acquisisce un inaudito potenziale di invasività: penetra in interiore homines, giunge ad intaccare le strutture più intime della natura umana attraverso la manipolazione delle sue invarianti biologiche.
Di più: va a scalfire con inusitata violenza lo scrigno che per la Arendt custodisce la fonte stessa della libertà umana: la nascita. L’essenza dell’ideologia, ricorda sempre la Arendt, sta proprio nel rifiuto della natalità.
Viene negato cioè il presupposto stesso della libertà, « che si identifica con la nascita degli uomini, col fatto che ciascuno di essi è un nuovo inizio, comincia, in un certo senso, il mondo da capo ». Occorre eliminare non soltanto la libertà, ma la sua stessa fonte, «che è data con la nascita dell’uomo e risiede nella sua capacità di compiere un nuovo inizio ». (3)
Venendo al mondo, ogni persona non è soltanto un nuovo inizio: è dotata della corrispondente capacità di agire, di dare impulso cioè a nuovi inizi. Agire equivale a prendere un’iniziativa, a iniziare qualcosa di imprevedibile ed inatteso che, come la nascita, non doveva avvenire di necessità né doveva necessariamente realizzarsi in quel modo.
Con la nascita viene all’esistenza un mondo nuovo. Si produce la vera, radicale novità di una realtà indipendente dal sistema dell’ideologia: un organismo inassimilabile a un prodotto artificiale. Con la nascita entriamo a far parte di una storia, di cui costituiamo un nuovo capitolo. Non siamo la semplice la ri-produzione di un elemento tipico, invariabile. Ogni nuovo nato non è il pezzo x, tipificato, seralizzato e riassemblato per l’ennesima volta secondo la stessa matrice.
Nella nascita, scriveva in largo anticipo sulla Arendt la geniale penna di Chesterton, si danno appuntamento rinnovamento e gioia, libertà e creatività. Essa è al tempo stesso « simbolo e sacramento della libertà personale » (4) e ricapitolazione dell’esistente: « Il fascino dei bambini consiste nel fatto che per ognuno di loro ricomincia tutto dal principio e l’universo viene di nuovo messo sotto processo ». (5)
Reca con sé, la vibrante vitalità dei bambini, l’emozione virginale e la gioia della scoperta, lo slancio e la freschezza di un nuovo inizio. Annuncio, stupefazione e mistero: è l’invincibile riaffermazione della forza creatrice su tutto quel che concorre ad incupire la condizione umana.
Ogni bambino è « qualcosa che i suoi genitori hanno scelto liberamente di procreare e che liberamente concordano di proteggere » ed è « nato senza l’intervento di padroni e signori. È una creazione e un contributo, il loro contributo alla creazione ». (6)

La « vergogna prometeica » dell’homo faber

La nostra, si dice da più parti, è un’era post-ideologica. Sono tramontate le « grandi narrazioni ». Questo deve confortarci?
Si ricordi che il totalitarismo non richiede la convinta adesione dei propri sostenitori: il tiranno, in esso, rappresenta un antico retaggio, e il militante, allo stesso modo, è al massimo una superflua e momentanea necessità. Anche l’ideologia, al limite, può evitare di presentarsi coi crismi della dottrina ufficiale.
Forse davvero, come osserva Fabrice Hadjadj, la mentalità efficientistica del produttivismo basta e avanza a realizzare il totalitarismo perfetto: « il suddito del regime totalitario non deve essere nato; sfuggirebbe, così, alla propria completa totalizzazione. È necessario, dunque, che egli sia prodotto ». (7) In fondo non è sufficiente che ogni nuova vita sia vista non più come dono da accogliere, ma in quanto prodotto da fabbricare?
La natalità non gode per l’appunto di migliore considerazione nella società della produzione e del consumo, dove è apparso un nuovo motivo per dichiarare la superfluità dell’umano. Günther Anders lo vedeva originato da quella che ha chiamato « vergogna prometeica »: il sentimento che si impadronisce dell’uomo « di fronte all'”umilante” altezza di qualità degli oggetti fatti da noi stessi ». (8) Dinanzi al mondo dei propri prodotti l’homo faber è assalito da un senso di radicale frustrazione. Gli ripugna di non essere, a sua volta, un prodotto. Si fa scrupolo della propria imperfezione di fronte all’opera delle sue mani.
La « macchia fondamentale » di un tale sentimento di vergogna, prosegue Anders, è da rintracciare nella coscienza di avere un’origine: l’uomo « si vergogna di essere divenuto invece di esser stato fatto, di dovere la sua esistenza, a differenza dei prodotti perfetti e calcolati fino all’ultimo particolare, al processo cieco e non calcolato e antiquatissimo della procreazione e della nascita ». (9).
Si vede bene come questo visionario anelare alla propria auto-fondazione esiga di liberarsi dall’origine sessuale. L’onta suprema sta nell’essere nato di donna natum esse »). E la suprema desolazione non va considerata, in una simile prospettiva, la propria antiquata origine, che impedisce l’infinita riproducibilità di se stessi? La provenienza dal grembo della donna esclude di per se stessa la serializzazione dell’essere umano. Da qui discende il desiderio dell’uomo contemporaneo di mercificarsi per essere all’altezza dei propri fabbricati, la sua voglia di « diventare un selfmade man, un prodotto ». (10)

Masse o folle: il trionfo dell’impersonalità

L’individualismo non è dunque l’antitesi, bensì la premessa del collettivismo totalitario a ragione del suo tentativo di dis-sociare gli individui per ridurre il popolo a massa. L’uomo-massa è così consegnato al suo destino di atomo isolato: uniforme, identico a miriadi di altri atomi ugualmente destinati ad agglutinarsi in una folla solitaria.
La massa è, nel tempo storico, ciò che la folla è nello spazio: una grande quantità di persone incapaci di esprimere le proprie qualità umane – in primis la creatività – perché svincolate le une dalle altre, tanto come individui quanto come membri di una comunità.
La promiscuità che investe simili agglomerati è una promiscuità isolante. I componenti di una folla, ridotti ad individui anonimi e intercambiabili, sono slegati tra loro e si coagulano solo attorno a qualche fattore impersonale e cristallizzante. Nel caso delle folle può essere un evento sportivo (una partita), un evento economico (saldi, liquidazioni) o anche, perché no?, un evento delittuoso (un linciaggio). Nel caso delle masse questo comune denominatore all’insegna dell’impersonalità può essere un evento politico (la kermesse di partito), un evento televisivo (un nuovo talk-show), un evento commerciale (l’ultima novità della telefonia mobile).
La famiglia, al contrario, non fluttua nell’astrazione ma si radica nel sentimento condiviso della reciproca solidarietà, si salda nella coscienza di avere un comune destino. Con buona pace di ogni  vaporoso emotivismo, il sentimento comunitario designa un gruppo di persone legate le une alle altre non solo da doveri e affetti, ma anche da interessi concreti e immediatamente personali.
Nulla meglio della famiglia esemplifica la relazione comunitaria, dove ciascun membro ha il suo particolare posto, adempie la propria specifica funzione condividendo al contempo gli obiettivi economici della comunità (il « bilancio familiare »), le tradizioni (la storia della famiglia), i sentimenti (le liti o gli scherzi), i valori (l’ethos familiare). La comunità, lungi dal pretendere anonimato e intercambiabilità, richiede la differenziazione dei ruoli e la valorizzazione delle particolarità.
E a nessuno sfugge che il singolo è integrato nella comunità, dove è più libero di sviluppare la propria personalità, in misura assai maggiore di quanto lo sia in una folla o in una massa.
È sintomatico che i regimi totalitari, nei loro tentativi di plasmare un uomo massificato, abbiano sistematicamente spezzato ogni legame comunitario (a cominciare dagli attentati a quelli che nella Dottrina Sociale della Chiesa vengono denominati « corpi intermedi »: famiglia, chiesa, sindacati, associazioni locali, perfino i circoli degli scacchi o i gruppo sportivi) per poterli forgiare in maniera tale da collegare direttamente ogni individuo col potere centrale.
La nascita sola, dunque, assicura la salvaguardia della vera libertà. Ed è la comunità familiare, il luogo delle origini, ad farsene garante. La famiglia ci affranca così dalla minaccia della superfluità. Scaccia l’incubo di diventare prodotti serializzati, intercambiabili, anonimi. Una consapevolezza, questa, che deve maturare in ciascuno di noi delle concrete direttive di fronte alle insidie dell’oggi. Tutto si riassume nelle parole di Gustave Thibon: « L’amore più alto si riconoscerà da questo segno, che saprà salvare la realtà più umile ». (11)

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(1) Si può vedere a questo proposito Jean-Jacques Walter, Les machines totalitaires, Ed. Denoël, Paris 1982, pp. 28-37.
(2) Josef Pieper, La luce delle virtù, tr. it. San Paolo, Milano 1999, p. 17.
(3) Hannah Arendt, Le origini del totalitarismo, 3a ed., tr. it. Comunità, Torino 1999, pp. 638-369.
(4) G. K. Chesterton, Bebé e distributismo, in Il pozzo e la pozzanghera, tr. it. Lindau, Torino 2012 (ed. or. 1935), p. 158.
(5) Idem, Difesa del culto dei bambini, in Il bello del brutto, tr. it. Sellerio, Palermo 1985 (ed. or. 1901), p. 85.
(6) Bebé e distributismo, cit., ibidem.
(7) Fabrice Hadjadj, Mistica della carne. La profondità dei sessi, tr. it. Medusa, Milano 2009, p. 149.
(8) Günther Anders, L‘uomo è antiquato, vol. I, Considerazioni sull’anima nell’epoca della seconda rivoluzione industriale, tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 2003, p. 57.
(9) Ivi, p. 58.
(10) Ivi, p. 59.
(11) Gustave Thibon, Ritorno al reale. Prime e seconde diagnosi in tema di fisiologia sociale, tr. it. Effedieffe, Milano 1998, p. 240.

15 pensieri su “La natalità come salvaguardia della libertà

  1. …allora sono solo io che conosco famiglie che vivono insieme come famiglie e che poi giunto il tempo dell’andare ognuno per la sua strada si cercano si ritrovano amano stare ancora insieme magari a mgare intotno alle tavole delle feste (chi ce l’ha da mangiare) dei compleanni della morti parlare ognuno di quello che è successo, c’è i bambini c’è i nipoti (perfino io ho due nipotine Matilda e Agata) c’è tutto quello che c’è sempre stato, salvo cambiamenti che anche quelli ci sono sempra stati, senza bisogno di ululare sempre sventure (farcite di citazioni e riferimenti a supporto).

  2. ….per chiarire meglio quello che voglio dire, bontà vostra se leggete (lo so che ormai non leggete più quello che scrivo, tanto ormai è sempre uguale) (come se quello che scrivete voi invece non fosse sempre uguale!) voi paragonate sempre la famiglia modello (che parzialmente potrebbe essere anche quella che cercate che sia la vostra) a spezzoni di gioranli, a link scandalizanti e scandalizzatori messi da questo o da quello (da questa o da quella) e mai fate un paragone fra la vostra famigli o la vostra idea di famigli acon altre famiglie che conosce in carne e ossa o cattoliche o cristiane o pagane o che altro. Allora uscendo fuori dal chiuso di quello che presentano i giornali i blog le notizie varie del cazzo vedreste che la vita fuori non è solo il peccaminoso marasma che vi lasciate portare a rappresentare, ma è una vita molto uguale alla vostra, con alti e bassi, entusismi o no, falimenti e riprase, generosità e/o avrizia, paure e slanci ininterrotti o interrotti, Mettetevi lo scafandro anti-vita e provate a uscire di casa e di chiesa. Provate! A parte Andrea Hofer chiuso in casa con la sua Pia Donna e il suo fedele Thibon!

    1. claudio

      in realtà quel che stai invitando a fare non nega, anzi conferma, il contenuto di quest’articolo.
      Serve comunque qualcuno che si fermi a riflettere per distillare il vissuto e valutarne la qualità. Indicando poi se e come potare, concimare, innestare… la strada da percorre, insomma.
      E questo in una famiglia equilibrata funziona, eccome.

    2. Velenia

      Il caldo comincia a mietere le prime vittime, vero Alvisuccio di mamma tua? Ma non te lo hanno detto che le persone anziane devono stare al fresco d’estate? Ammetto che il post non è semplicissimo ma uno che si fa chiamare Filosofiazzero dovrebbe essere in grado di capirlo.

    3. Sara

      Mi sa che tu indossi davvero lo scafandro anti-vita ed ecco che ti escono ‘ste tirate che, bontà mia, leggo sempre, se posso. Noi invece (visto che parli a dei “voi”) nella vita ci immergiamo senza scafandri e – se riusciamo – senza paura, affidandoci al Signore della Vita che ci tiene saldi nella Sua mano.

  3. «Saper godere del nostro essere così com’è è una forma di perfezione assoluta, e quasi divina. Noi cerchiamo condizioni diverse perché non siamo capaci di fare buon uso della nostra, e usciamo fuori di noi perché non sappiamo vedere quel che c’è dentro. Se pure saliamo sui trampoli, dovremo comunque camminare con le nostre gambe. E anche sul più alto trono del mondo saremo sempre seduti sul nostro culo».

  4. Valeria

    A me risulta che il nazifascismo abbia incentivato la natalità e la famiglia – una certa caricatura di famiglia, sarebbe meglio dire, con i ruoli di padre e madre ( giustamente diversi e complementari) esasperati negli stereotipi di uomo-maschio e donna-femmina. Consiglio a questo proposito l’interessante analisi del film “Moloch”, augurandomi che la difesa del prezioso bene che è la famiglia non assuma mai (specialmente in seno ai cattolici) sfumature che possano anche solo lontanamente ricordare la propaganda nazista coi suoi stereotipi di genere.

    1. Questo è un luogo comune piuttosto diffuso, ma in realtà ai nazisti la famiglia interessava solo come agenzia di “riproduzione demografica” per corroborare il “corpo collettivo” del Reich, secondo l’ottica tipicamente totalitaria della forza demografica come fattore di potenza. Nei fatti, al di là della retorica e della propaganda, il nazismo ha cercato, non diversamente dai sovietici, di trasferire nella misura più ampia possibile allo Stato le funzioni familiari. La dispersione della famiglia sarebbe avvenuta attraverso l’integrazione dei suoi membti nelle organizzazioni del Reich. La famiglia nazi ideale era composta dal padre membro delle SA o delle SS, la madre nella sezione femminile del partito, i fgli nelle organizzazioni giovanili hitleriane. Eliminare il tempo in comune nella famiglia mobilitando a tempo pieno i suoi membri, questo era l’ideale nazista. Hitler tentò perfino la via del famigerato progetto « Lebensborn » per sottrarre alla famiglia anche la funzione procreatrice. Il Reich avviò un’intensa propaganda a favore del « matrimonio biologico », che consisteva nell’invito pressante ad abbandonare gli antichi « pregiudizi » morali legati alla « desueta istituzione del matrimonio » per farsi ingravidare anche al di fuori del matrimonio. Il dovere della donna tedesca era quello di « dare più figli possibili al Führer ». Himmler, incaricato di sovraintendere il progetto « Lebensborn », arrivò a sostenere la necessità di farla finita con la coppia monogamica, a definire l’attuale forma della famiglia una « opera satanica della Chiesa cattolica » e a bollare come « immorale » la corrispondente legislazione familiare: http://www.zeit.de/1961/06/doppelehe-mit-domina
      Per quanto possa sembrare sorprendente, la campagna in favore delle nascite extramatrimoniali provocò in reazione l’unica manifestazione di piazza cui la Germania avrebbe assistito nel corso dei dodici anni del regime nazionalsocialista. Nel febbraio del 1943 il Gauleiter bavarese Paul Giesler insolentì pesantemente le studentesse dell’università di Monaco ricordando loro il dovere di offire figli al Führer. Nel caso non avessero avuto qualcuno con cui concepirli si offriva di mettere a loro disposizione i propri collaboratori, ché non se ne sarebbero pentite. Al che scoppiò una mezza insurrezione perché gli studenti di sesso maschile si levarono per difendere l’onore delle loro colleghe.

      1. Valeria

        Grazie delle informazioni fornite, sono dati che fanno davvero riflettere. Concordo naturalmente sul fatto che il nazismo non abbia incentivato la famiglia, ma una sua aberrante caricatura (l’ho scritto), come emerge dai documenti scritti e dai video propagandistici dell’epoca che hanno contribuito a formare le mie conoscenze (non accademiche). Una caricatura, appunto; qualcosa di vero e qualcosa di falso mescolati: l’unione di un uomo e di una donna, si, ma esasperati e grotteschi nei loro ruoli ( donna madre amorevole, sposa devota rigorosamente femmina ‘con la gonna’; uomo virile e ‘capo’ ). Non un ideale apertamente anti famiglia, ma un ideale di famiglia che scimmiotta quello bello e integrale voluto nel progetto di Dio: questa si’ “opera satanica”, (secondo lo stile dell’antico avversario scimmiottatore di Dio).

  5. vale

    “come tutti i grandi Imperi, quello romano non fu abbattuto dal nemico esterno, ma roso dai suoi mali all’interno.
    la maggioranza degli studiosi ritiene che le cause furono due: il Cristianesimo e la pressione dei barbari… noi non lo crediamo.
    il Cristianesimo non distrusse nulla. si limitò a seppellire un cadavere: quello di una religione in cui non credeva più nessuno,e a riempire il vuoto ch’essa lasciava.
    Una religione conta non in quanto costruisce templi o svolge certi riti; ma in quanto fornisce una regola morale di condotta.

    Tertulliano ,che ci vedeva chiaro, lo scrisse apertamente.Per lui tutto il mondo pagano era in liquidazione. e quanto prima lo si sotterrava,tanto meglio sarebbe stato per tutti.

    ma anche la crisi militare non era che il risultato di una più complessa decadenza, innanzitutto biologica.
    Essa era cominciata dalle classi alte di Roma( perché, come dicono a Napoli,”il pesce comincia a puzzare dalla testa”) con l’allentamento dei vincoli familiari ed il diffondersi delle pratiche malthusiane ed abortive.

    Le famiglie( dell’aristocrazia) che la componevano furono, sì,decimate anche dalle guerre……ma soprattutto si estinsero per penuria di figli. Grandi riformatori come Cesare e Vespasiano tentarono di rimpiazzarla con dinastie più solide di borghesi provinciali e campagnoli. Ma essi si corrompevano a loro volta…..

    Questo cattivo esempio fece presto a dilagare, e già al tempo di Tiberio furono previste sovvenzioni ai contadini per fare figli. Evidentemente…anche la campagna faceva del malthusianesimo e si spopolava.
    Pertinace offriva gratuitamente le fattorie abbandonate a chi s’impegnava a coltivarle.

    Ed in questo vuoto materiale,conseguenza di quello morale,s’infiltravano gli stranieri,specie d’Oriente,in doosi così massicce che Roma non fece in tempo ad assorbirli e a rifonderli in una nuova e vitale società.

    Indro Montanelli Storia di Roma cap51° pp.424-425-426 ed bur.

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