Oggi è San Giuseppe, il mio santo preferito!!!! Solido, fattivo, concreto, silenzioso.
Dice santa Teresa d’Avila: «Non mi ricordo finora di averlo mai pregato di una grazia senza averla subito ottenuta. Con questo Gesù vuol farci capire che come era soggetto a Giuseppe in terra, dove egli come padre putativo gli poteva comandare, altrettanto lo è ora in cielo nel fare tutto ciò che gli chiede. È da vari anni che nel giorno della sua festa gli chiedo una grazia e sempre la ottengo”.
Auguri a tutti i Giuseppe e a tutti i padri, fondamentali, imprescindibili, insostituibili rocce delle nostre famiglie.
E adesso beccatevi le cravatte di carta e i diplomi con disegno che pioveranno a casa dagli asili e dalle elementari di tutto il suolo patrio.
Bene, questa sera a Messa chiederò anche io esplicitamente a San Giuseppe!!! grazie!!!
Poetico il significato, Giuseppe, dall’ebraico Josef, significa ‘accresciuto da Dio’.
Io non mi arrendo. E quindi oggi, 19 marzo, leverò in alto il calice e farò gli auguri a tanti miei “colleghi”. Perché oggi, signori miei, è S. Giuseppe, festa del Papà. Lo scrivo con la p maiuscola per richiamare l’attenzione, smuovere le coscienze, sensibilizzare, insomma provare a fare qualcosa. Perché noi padri, parafrasando Giorgio Gaber, siamo sempre più una razza in via di estinzione, tanto che nella nostra opulenta ed evoluta società, ormai a stento si trovano tracce della figura paterna. Prima il ’68 e la rivolta contro il principio di autorità, poi il femminismo, e poi la premiata ditta Freud&Co, e oggi il tentativo di mandare in soffitta la famiglia cosiddetta tradizionale (ove tradizionale, manco a dirlo, suona dispregiativo), che fa tutt’uno con il dilagare del nuovo mainstream culturale: ho diritto, ergo sum. Col risultato che il padre non conta più nulla, o meglio non si vuole che conti più nulla, tutt’al più ridotto al rango di amico, in nome e per conto di una ideologia secondo cui l’uomo, fin da piccolo, ha diritto a decidere da solo come meglio vivere, a stabilire cosa è bene e cosa è male, a vivere della sua libertà in modo totalmente indipendente e autonomo da ogni riferimento valoriale che non siano i suoi desideri. In una parola: ad essere dio di se stesso.
Il paradosso è che questa antropologia, veicolata ad arte da ben precisi gruppi di pressione, nel mentre abbatte la figura paterna col piccone legislativo e imponendo nuovi modelli e costumi, rivendica allo stesso tempo il diritto alla paternità (e specularmente alla maternità), avendo negato l’inscindibile connessione tra sessualità coniugale e procreazione. In una recente intervista al Foglio l’arcivescovo di Bologna, card. Caffarra, ha colto lucidamente la questione: “…coerentemente si è passati dall’idea del figlio atteso come un dono al figlio programmato come un diritto: si dice che esiste il diritto avere un figlio. Si pensi alla recente sentenza del tribunale di Milano che ha affermato il diritto alla genitorialità, come dire il diritto ad avere una persona. Questo è incredibile. Io ho diritto ad avere delle cose, non le persone.”. E’ tutto qua il paradosso: affossano il padre ma rivendicano il diritto alla paternità. Ma di che stupirsi? Se Dio non c’è tutto è possibile, diceva Dostoevskij. “All’ascesa a Dio”, scriveva con lungimiranza il filosofo cattolico Augusto Del Noce, “si sostituisce l’idea della conquista del mondo, ovvero l’affermazione del diritto che il singolo soggetto ha sul mondo. Diritto che non ha limiti, perché, chiamato al mondo senza il suo volere, egli sente di aver diritto, quasi a compenso di questa chiamata, a una soddisfazione infinita nel mondo stesso.”.
Questa è la realtà. Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti. E forse non è un caso se qua e là, sia pure in netta minoranza, cominciano ad apparire sempre più analisi controcorrente, che suonano come una decisa critica, e in alcuni casi autocritica, di quell’apparato di pensiero che di fatto ha seppellito il ruolo paterno e scardinato la famiglia. Quella che un tempo era la parola d’ordine, il mitico “proibito proibire”, ora non è più così scontata. E anzi i più attenti osservatori sottolineano l’importanza di saper dire “no”, di non essere semplicemente un “amico” dei figli. Insomma, di tornare a fare il padre: magari moderno quanto si vuole, ma che è e resta il padre. Ci sarà pure un motivo se il quarto comandamento dice “Onora tuo padre e tua madre” (che non vuol dire semplicisticamente “rispetta” né “obbedisci”), aggiungendo “se vuoi essere felice e avere lunga vita sulla terra”, o no? Quello di padre è un mestiere difficilissimo, lo sa bene chi lo vive tutti i giorni, aggravato dal fatto che mentre nella donna è inscritta la maternità, la paternità non è affatto un attributo naturale dell’uomo. Della serie: padri si diventa, non si nasce. Anche per questo ho molto apprezzato le parole del Papa, che durante l’udienza generale di oggi in piazza S. Pietro ha detto: “Chiedo per voi la grazia di essere sempre molto vicini ai vostri figli, lasciandoli crescere, ma vicini, loro hanno bisogno di voi, della vostra presenza, della vostra vicinanza, del vostro amore, siate per loro come san Giuseppe, custodi della loro crescita in età sapienza e grazia, custodi del loro cammino, educatori, camminate con loro, e da questa vicinanza siate veri educatori, grazie per tutto quello che fate con i vostri figli, grazie, a voi tanti auguri e buona festa del papà a tutti i papà che sono qui“. Sarebbe auspicabile che anche la società, in tutte le sue articolazioni, restituisse alla figura paterna autorevolezza e status, e la smettesse di considerare il padre un ente inutile o, nel migliore dei casi, un suppellettile affettivo. Ne va del futuro dei nostri figli, il che vuol dire del futuro del paese, sempre che a lor signori stia ancora a cuore. Altrimenti non lamentiamoci se molti ragazzi non hanno spina dorsale, sono fragili, capaci di suicidarsi per un brutto voto o una delusione affettiva, o di uccidere senza pietà quando non ottengono quello che vogliono perché nessuno gli ha mai spiegato come funziona il mondo. Sulla scia del mito del buon selvaggio e di una pseudo cultura in nome della quale i figli vanno cresciuti senza divieti di sorta, senza vincoli alla loro libera espressione, abbiamo cresciuto mostri di egoismo, ragazzi fragili, facilmente influenzabili e soprattutto, eternamente fanciulli. Crescere significa confrontarsi con la realtà, che spesso e volentieri è ben diversa da come uno se l’immagina. La vita è bella proprio perché in essa c’è tutto, gioia e dolore, successo e fallimento, allegria e tristezza. E prima inizia il confronto, meglio è. In questa prospettiva, il padre ha una funzione di straordinaria importanza nella famiglia, poiché agli occhi dei figli rappresenta la porta d’accesso al mondo reale, a volte larga altre volte necessariamente stretta. Ma se continua di questo passo, tra poco ci toccherà erigere un nuovo monumento dove celebrare il 19 marzo: al Padre Ignoto.
W S. Giuseppe! Chiedo a lui la grazia di essere un padre secondo la volontà di Dio per i nostri 8 cuccioli
Sono contento di lasciare il mio primo commento nel blog a un post dedicato a san Giuseppe. A proposito, trovo eccezionale il titolo del post. In linea con quanto dici delle grazie di cui san Giuseppe è potentissimo intercessore, suggerisco di pregare il Sacro Manto. Ottima Costanza.
“In tempi difficili per la Chiesa Pio IX, volendo affidarla alla speciale protezione del santo patriarca Giuseppe, lo dichiarò «Patrono della Chiesa cattolica»…
Questo patrocinio deve essere invocato ed è necessario tuttora alla Chiesa non soltanto a difesa contro gli insorgenti pericoli, ma anche e soprattutto a conforto del suo rinnovato impegno di evangelizzazione nel mondo e di rievangelizzazione in quei «paesi e nazioni dove – come ho scritto nell’esortazione apostolica “Christifideles Laici” – la religione e la vita cristiana erano un tempo quanto mai fiorenti», e che «sono ora messi a dura prova». Per portare il primo annuncio di Cristo o per riportarlo laddove esso è trascurato o dimenticato, la Chiesa ha bisogno di una speciale «virtù dall’alto» (cfr. Lc 24,49; At 1,8), donazione certo dello Spirito del Signore non disgiunta dall’intercessione e dall’esempio dei suoi santi.
Oltre che nella sicura protezione, la Chiesa confida anche nell’insigne esempio di Giuseppe, un esempio che supera i singoli stati di vita e si propone all’intera comunità cristiana, quali che siano in essa la condizione e i compiti di ciascun fedele.”
Giovanni Paolo II, Esortazione apostolica “Redemptoris Custos” del 1989
Il sacerdote che stamattina ha presieduto le Lodi, ci ha ricordato che è la festa di san Giuseppe “sposo di Maria” e quindi si festeggiano anche tutti gli uomini in quanto sposi e custodi della famiglia (san Paolo e Costanza docet).
San Giuseppe è davvero un grande Santo! Auguri a tutti gli sposi, a tutti i babbi, a tutti quelli che portano il grande nome, alla nostra Giusi per prima!
Stasera a Messa chiederò di nuovo la grazia che attendo da tanto a San Giuseppe, offrendo la Messa per il mio babbo che è già lassù, nelle braccia della Chiesa trionfante.
Una preghiera speciale anche per tutte le famiglie e la nostra Santa Madre Chiesa.
Grazie, Sara! Io farò dire una messa per le Anime Sante del Purgatorio. San Giuseppe è infatti anche il Patrono della buona morte. Mi piacciono molto queste parole che Gesù dice a Maria Valtorta sulle Anime del Purgatorio (anche per chi non ci crede sono belle comunque):
“Pregate molto per questo anime: i vostri suffragi sono aumento del loro fuoco di amore. Mai i vostri cari vi amano come in Purgatorio, perché alla luce di Dio comprendono quanto li amate e come avrebbero dovuto amarvi. E non potendo dirvi parole d’amore le dicono a Me per voi ed Io ve le porto, insieme alla loro richiesta d’amore e benedizione che Io accetto”.
Queste parole mi hanno commosso, in un modo particolare. Sono di grande conforto. Grazie Giusi.
Auguri a tutti i Giuseppe e a tutti i papà… Guido, Mario, Giancarlo, etc. Il Cielo vi ha caricato di una responsabilità non da poco, ma di sicuro San Giuseppe è con voi. Smack! 😉
Ops! Auguri anche a te, Giusi… Smack! 😀
😀
Auguri Guido!!!
Nel giorno di San Giuseppe questo commosso e commovente ricordo di Mario Palmaro:
Ricordo di Mario Palmaro
di Alessandro Gnocchi
Articolo pubblicato sul quotidiano Il Foglio di mercoledì 19 marzo 2014
Sorge dai secoli luminosi e profondi del medioevo quel “Dies irae, dies illa” che nella Messa tradizionale per i defunti trafigge i cuori e le menti prima della lettura del Vangelo secondo Giovanni. “Io sono la risurrezione e la vita” dice nel brano evangelico il Figlio di Dio a Marta, che piange la morte del fratello Lazzaro. “Chi crede in me, anche se fosse morto, vivrà; e chiunque vive e crede in me non morrà in eterno. Credi tu questo? Gli rispose: Sì, Signore, io credo che tu sei il Cristo, Figlio del Dio vivo, che sei venuto in questo mondo”.
La dolcezza maestosa del dialogo trascritto da San Giovanni può essere compresa solo nel contrappunto del rigore visionario in cui Tommaso da Celano descrive quel “Dies irae” che “solvet seculum in favilla: teste David cum Sibilla”, quel giorno dell’ira che dissolverà il secolo in favilla, come attesta Davide e la Sibilla. Quando il Giudice verrà nel tremore del mondo e la morte e la natura stupiranno al risorgere di ogni creatura.
E’ questa la vera misericordia che la Chiesa ha incarico di portare al mondo: mostrare la dolcezza di un Dio intenerito davanti alla morte dell’amico di cui sarà giudice giusto e inflessibile nel giorno del giudizio.
La Messa tradizionale dei fedeli defunti lo rammenta a ogni passo reiterando quel “requiem eternam dona eis, Domine” che vola verso il cielo da cuori e menti consci di essere solo momentaneamente su questa sponda.
La mattina del 12 marzo 2014, al funerale di Mario Palmaro, questo legame invisibile e invincibile tra i vivi e i morti, tra questa e l’altra sponda, ha preso forma nel nitido e luminoso rigore di una Messa come si celebrava nei tempi civili. Cantata in latino, con sacerdote, diacono, suddiacono e ministranti rivolti verso Dio, secondo il rito che non si lascia violentare dai sentimenti e dai protagonismi.
Mario vi si era preparato fin dal momento in cui i tecnici della medicina, eretti dal secolo a propri sacerdoti, gli dissero di non avere scampo. Anche il secolo ha le sue liturgie, riflessi di matematiche rigorose che, a differenza di quelle celesti, non conoscono speranza. Per questo ha pensato immediatamente all’epilogo terreno, che avrebbe dovuto essere abbastanza luminoso da vincere inesorabilmente i riti mondani.
E ha fatto di ogni giorno della sua malattia il passo di un incedere liturgico verso l’esito finale. Si è incamminato verso il sacrificio come il sacerdote in sacrestia si avvia a celebrare la Messa in cui presterà il suo corpo a Cristo sulla Croce.
Prima con esitazione, e poi con una levità che poco aveva di terreno, ha dato ai gesti, ai pensieri, alle preghiere dei suoi ultimi due anni un tratto nitidamente rituale. Che non significa algido formalismo, ma adorazione della grandezza infinita di Dio e, dunque, docile sottomissione al suo volere.
Per questo il suo Calvario è stato così sereno e così edificante per tutti coloro che vi hanno assistito almeno per un tratto.
Lui si preparava a morire e chi gli voleva bene si preparava ad accompagnarlo alla morte. Senza dircelo, lo abbiamo fatto dal momento in cui mi telefonò per dire che proprio non ci sarebbe stato nulla da fare, salvo un miracolo.
Ma una cosa è prepararsi ad accompagnare il tuo più grande amico alla morte e altro è avviarsi docilmente a morire: il Signore chiede sempre al migliore il sacrificio più grande.
Impercettibilmente agli occhi del secolo e di tanti cattolici, la vita di Mario è diventata come quella di un monaco e la sua casa, per quanto affollata di telefonate, visite e affari quotidiani, si è trasformata in un piccolo cenobio. Questo padre di famiglia con moglie e quattro figli ha replicato nella sua vita quotidiana ciò che millecinquecento anni or sono si era manifestato nel genio religioso di San Benedetto. Il santo della Regola aveva disegnato un itinerario di santità che prescriveva i modi e i tempi anche del più piccolo gesto nell’orazione, nel lavoro, nel riposo, nella ricreazione conferendo loro un significato ulteriore. Nella medesima maniera, ha salvato le cose, i gesti e le parole della sua vita quotidiana dall’abbandono al secolo per farne qualche cosa di sacro, il segno che la sua casa si sarebbe regolata fino in fondo secondo il volere del Cielo.
Così ha preso a prestare alle realtà un’attenzione che non era solo di questo mondo e si palesava nella forma di un candore sempre più inattaccabile. “L’attenzione” scrive Cristina Campo “è il solo cammino verso l’inesprimibile, la sola strada al mistero. Infatti, è solidamente ancorata al reale, e soltanto per allusioni celate nel reale si manifesta il mistero. (…) Davanti alla realtà l’immaginazione indietreggia. L’attenzione la penetra invece, direttamente come simbolo”.
Questa attenzione al reale, divenuta quasi devozione, portava Mario a parlare anche del suo male e degli inevitabili esiti con un distacco incomprensibile ai più. Per trarne giovamento, bisognava coglierne la radice nella capacità di leggere in qualsiasi frangente della vita disegni che sono celesti e, dunque, vanno accettati. Più si avvicinava la fine e più era possibile scorgere nel suo sguardo qualche dardo che testimoniasse questo dono. “Tali lampi” dice ancora Cristina Campo “non sono se non quella scintilla (di origine e natura sempre più misteriose via via che per ogni cosa ci viene fornita una chiave) che l’attenzione sollecita e prepara: come il parafulmine il fulmine, come la preghiera il miracolo, come la ricerca di una rima l’ispirazione che proprio da quella rima potrà sgorgare”.
Il fulmine, il miracolo, l’ispirazione sgorgata da una rima si manifestavano nelle tante telefonate con cui ci sentivamo ogni giorno, in uno straziante “Oggi sono contento perché…”. “Ciao Mario, come va?”, “Oggi sono contento perché…”. Era contento per ogni cosa, ogni evento, ogni pensiero che avesse anche solo una briciola di importanza. Perché la chemioterapia lo aveva lasciato in pace un po’ di più, perché le piaghe ai piedi e alle mani lo facevano tribolare un po’ meno, perché la moglie Annamaria gli aveva preparato quel tal piatto che gli piaceva tanto. Venti giorni prima di morire, nella telefonata di rito della nove di mattina era contento perché aveva trovato un hospice che lo avrebbe seguito a casa per la terapia del dolore. “Così non devo più andare in ospedale e non disturbo Annamaria. Sono proprio contento”. Sono proprio contento: ed era la certificazione che, di lì a poco, a vista umana, sarebbe finita.
L’occhio profano non poteva vederlo e il cervello mondano non poteva comprenderlo, ma quegli “Oggi sono contento perché…” erano come i paramenti di cui il sacerdote si riveste per entrare nell’agone della Messa, come i panni ricamati che coprono le Sacre Specie. Velature che la depravazione illuminista penetrata anche dentro la Chiesa considera come un ostacolo all’intelligenza, e, invece, sono ciò che dà all’invisibile una forma capace di mostrare all’uomo ciò che altrimenti non potrebbe percepire.
E ogni giorno di questo Calvario si è trasformato in un passo consapevole, accettato e gradito verso il sacrificio. Sempre più lieve e celeste, come promette l’inizio della Messa che Mario amava ed era riuscito a portare a Monza, a due passi da casa: “Introibo ad altare Dei. Ad Deum qui laetificat iuventutem meam”. Mentre agli occhi degli uomini il suo corpo invecchiava e segnava le prove e le sofferenze, agli occhi di Dio la sua anima ringiovaniva e letificava. Ed era proprio questo contrasto a edificare chi gli stava attorno. Vederlo dal fondo della chiesa, faticosamente inginocchiato al solito banco, alcune volte, faceva pensare all’uomo che sta per cedere alle aggressioni della terra. Ma poi, quando tornava dalla comunione, negli occhi conservava ancora più ravvivato quel lampo di attenzione che non può cedere a certe brutalità del reale perché ha la chiave celeste per comprenderle e si lascia raggiungere solo dall’inevitabile.
In quei momenti, sarebbe stato percepibile anche a occhi profani che quest’uomo di quarantacinque anni si stava avviando a morire così come professava la sua fede, a morire come aveva pensato, scritto e insegnato, a morire come era vissuto. In un mondo stanco per la troppa gente che finisce per credere come vive, Mario ha voluto fino in fondo vivere come ha creduto. Questo lo ha reso sempre più giovane e lieto agli occhi di Dio e agli occhi chi ha saputo guardarlo con almeno un po’ della sua stessa fede.
Diversamente, nella sua morte si potrebbe leggere solo il capriccio di una sorte beffarda e crudele. Ma, grazie a Dio, ha ragione il cardinale Newman quando, nel sermone Sul significato dell’esistenza dice: “A mio avviso, il termine delusione è l’unico in grado di esprimere quello che proviamo di fronte alla morte dei santi di Dio. Se la nostra fede non è abbastanza viva da penetrare al di là della tomba e intuire il futuro, ci sentiamo depressi per quella che sembra essere una sconfitta della grandezza. Eppure è proprio da questo sentimento che, come per contraddizione, riusciamo ad attingere un po’ di speranza, perché se questa vita è così deludente e così incompiuta, certamente essa non è tutto”.
Questa morte e questo modo di morire sono tattile e perenne testimonianza della concretezza della vita eterna, sono sacramento della certezza che l’essenziale è invisibile agli occhi. Ma certo non possono eludere le domande sul perché proprio Mario e proprio in questo modo. Negli ultimi tempi, in vista della fine, se ne parlava, come sempre con familiare semplicità. “Mario, tutti pregano per il miracolo e anch’io spero che tu guarisca. Ma ora riesco solo a pregare perché tu possa sposare fino in fondo il volere del Signore, qualunque sia… E poi penso che, se Lui ti vorrà con Sè, lo farà per risparmiarti ciò che presto si dovrà vedere fuori e, soprattutto, dentro la Chiesa”. “Dici che sarà davvero così?”, e tremava per la sua Chiesa. “Mario, più prego e più mi convinco che, se muori, è perché il Signore ti vuole veramente bene…”.
Un dialogo magari incongruente a orecchi mondani. Eppure, non potevo avere dubbi su come sarebbe andata a finire da quando un nostro amico sacerdote mi confidò di avere offerto a Dio la sua vita in cambio di quella di Mario, ma senza esito, senza risposta. “Io sono un povero parroco di campagna, conto poco e non ho famiglia. Lui ha moglie, quattro bambini e sta facendo tanto bene alla Chiesa… Ma, evidentemente, il Signore ha altri disegni”.
Questa è la comunione dei santi, il vincolo tra chi si ciba dello stesso corpo e dello stesso sangue, che si alimenta della vita santa di chi abbraccia la croce. Prima di scrivere queste righe ho chiesto a quell’amico se potessi rivelarne l’offerta, senza violare la sua identità: “Naturalmente” mi ha scritto “anche se non è cosa che meriti tanto riguardo – lo dico senza finzioni – nei tempi cristiani era cosa normale”. In quei tempi cristiani che oggi, nell’epoca dello splendore mediatico, sono completamente evaporati al sole malato del mondo.
Forse è proprio per fecondare questi tempi, così mondani anche dentro la Chiesa, che il Signore chiede il sacrificio dei suoi figli migliori, anche se si protestano servi inutili, come ha fatto in tutta sincerità Mario in uno dei suoi ultimi scritti.
Anche Mario sapeva che sarebbe andata così, lo sapeva prima di tutti e meglio di tutti. E sentiva che il tempo andava sempre più spedito. Poi sarebbe venuto il momento supremo e solenne, ma prima avremmo dovuto salutarci con tutte le nostre famiglie. La domenica prima di quella della sua morte, ha voluto che ci fermassimo a casa sua per cena. Una serata speciale nella sua normalità. Lui seduto a tavola, al suo posto, a onorare gli ospiti oltre il possibile, senza un lamento. Solo il vezzo gentile di mettere in tavola i piatti belli perché quelli di plastica proprio non andavano. Sapevamo tutti che quella sarebbe stata l’ultima volta che ci saremmo visti con le famiglie al completo. Lo dicevano gli sguardi e le attenzioni discrete, che in nulla contrastavano con il discorrere lieto e sorridente di una domenica sera tra amici che si vogliono bene.
La settimana dopo, sarei stato in ginocchio accanto al suo letto a recitare le preghiere degli agonizzanti. “Proficiscere, anima christiana de hoc mundo in nomine Dei Patris omnipotentis, qui te creavit; in nomine Iesu Christi, Filii Dei vivi, qui pro te passus est, in nomine Spiritus Sancti, qui in te effusus est, in nomine gloriosae et sanctae Dei Genitricis Virginis Mariae…”. Parti anima cristiana da questo mondo in nome di Dio Padre onnipotente… di Gesù Cristo… dello Spirito Santo… della Vergine Maria…
Nell’agonìa dolorosa e tormentata, ogni tanto riusciva a guardare chi gli stava attorno. Per chiedere aiuto e consolazione, ma sicuramente anche per elargirne, per dire che tutto si stava per compiere così come aveva desiderato e come aveva chiesto al Signore. “Libera, Domine, animam servi tui ex omnibus periculis inferni, et de laqueis poenarum, et ex omnibus tribulationibus…” Libera Signore l’anima del tuo servo da tutti i pericoli dell’inferno, dai lacci delle pene e da tutte le tribolazioni… Come liberasti Enoc ed Elia… Come liberasti Noè… Come liberasti Abramo… Come liberasti Giobbe… Come liberasti Isacco… Come liberasti Lot… E poi Mosè, Daniele, i tre fanciulli, Susanna, Davide, Pietro e Paolo, la beatissima Tecla. Non rammentare, Signore, le colpe e le ignoranze della sua gioventù… Gli si aprano i Cieli, si allietino con lui gli Angeli…”. Sembrano interminabili, le preghiere degli agonizzanti, quando si leggono nel breviario. Eppure sono un soffio quando le si recita accanto a un uomo che sta per comparire davanti al giudizio di Cristo per fargliele stringere in mano come ultimo dono.
Poi, poco dopo le dieci di sera, Annamaria ci ha invitato a intonargli il “Salve Regina” “che a lui piace tanto”. Con la mamma di Mario e due vicine di casa lo abbiamo cantato con la certezza che il Cielo ormai fosse aperto. “… O clemens, o pia, o dulcis Virgo Maria”.
Non c’è stato il tempo di avviare il “Gloria Patri” ed è stato l’ultimo respiro, proprio come fu per Gilbert Keith Chesterton, dopo il canto dolcissimo levato da padre McNabb.
Tutto questo per dire come muore un cristiano.
Che bello! Grazie, GIusi!
Spiace un po’ che, tra le righe di un elogio ad un così luminoso esempio, spunti la polemica.
…e gli altri come muoiono secondo te? Lo sai? Gli altri sono da meno? Lo vanno a dire in giro la gente come muoiono loro?
No, perché sono morti.
….lo vanno a dire in giro, la gente, come muoiono loro?
Forse con le virgole è più chiaro?
…loro cioè gli altri, Abbi pazienza
Devono chiedere il permesso a te per ricordare un amico?