Questa è trascrizione della lectio fatta da padre Nicola Commisso all’incontro di preghiera dei SS Quattro Coronati ,sulle letture di domenica prossima 7 luglio
Rallegratevi. Esultate. Sfavillate. Il profeta Isaia ci invita, io direi ci comanda ad un tripudio di gioia, ad un trionfo di gioia. Bene, non so voi, ma faccio sempre grande fatica, umanamente, naturalmente, quando si parla di gioia. Non è facile parlare della gioia, anche perché non si può propriamente parlare della gioia; semmai è la gioia che può parlare. Siamo sempre un po’ ridicoli quando ci mettiamo lì a parlare della nostra gioia, a esplicitare ciò che in realtà già parla, eccome se parla, ciò che parla nei nostri volti, nei nostri occhi, nei nostri sorrisi.
E faccio ancor più fatica perché come indole non sono propriamente un entusiasta. Leopardi è indubbiamente il mio poeta preferito – ogni tanto penso che potrei continuare l’ascesa del suo pessimismo: individuale, storico, cosmico, fondando la corrente del pessimismo teologico – ma, al di là delle battute, ve lo confesso apertamente perché credo possa aiutare altri, perché credo non sia solo la mia… e, soprattutto, perché credo nasca dal reale, dalla profondità del reale, dalla sofferenza che è insita nella realtà, nella creazione “che geme e soffre”, come dice San Paolo.
E in un mondo che geme e soffre, ci viene comandato di rallegrarci, di esultare, di sfavillare. E come è possibile? Non possiamo negare la realtà, non possiamo negare il dolore. Chi di noi qui non ha un dolore, più o meno grande, nel corpo o nello spirito? Chi di noi qui ora, mentre parlo, non sta soffrendo qualcosa? E se non soffre lui, chi non soffre per la sofferenza di qualcuno a cui vuole bene? Come si fa a gioire, mentre si soffre? Gioia e dolore. Gioia nel dolore, dolore nella gioia. Ecco il nostro grande paradosso. Paradosso. Parola meravigliosa. Deriva dal greco, parà – contro – la doxa – cioè l’opinione comune. Il paradosso è qualcosa che va contro l’opinione comune. E l’opinione comune è che gioia e dolore si contraddicono. Ed in un certo è senso questo è vero. Eppure la parola di Dio ci dice che in un altro senso non è così. Possono coesistere. Insieme. Et – et.
Ecco, la nostra meravigliosa fede, infatti, per il mistero dell’Incarnazione non può che essere un grande abbraccio al mondo, a tutto il mondo. L’unica cosa che non possiamo abbracciare è il peccato, anche perché il peccato propriamente non è, è non vita, non godimento, non bellezza, è non essere. E non si può abbracciare ciò che non è. Di tutto il resto, la nostra fede ne fa un grande abbraccio, nella logica sempre dell’et-et. Equilibrio santo, equilibrio da santi: tenere insieme le cose, tenere insieme il Vangelo, le parole di Gesù, tutte; tenere insieme la realtà, tenere insieme l’uomo – tutto – corpo, anima e spirito, sentimenti, volontà e ragione; tenere insieme le persone tra loro, tenere insieme le persone e Dio. Et – et.
E invece, quanto solitamente siamo molto più vicino all’aut-aut: questo oppure quello. Lui sì, lei no. Fede oppure ragione. Ragione oppure sentimento. Uomini o Dio. Aut – aut. Gioia oppure dolore. Sei stai soffrendo non puoi essere felice. Se sei felice non puoi soffrire. Mai. Aut – aut.
Ecco, questo credo sia l’inganno di fondo del grande menzognero di sempre. Quell’inganno sul quale costruiamo i nostri falsi schemi e, peggio ancora, li usiamo per spiegare la vita nostra e delle persone che ci sono vicine. Teniamo presente questo inganno, vale per ogni cosa. Diceva il geniale C.S.Lewis che il demonio manda nel mondo gli errori a coppie di opposti e nello spingerci, nel fomentarci a combattere – giustamente – contro uno di essi, ci spinge inesorabilmente verso l’altro.
In medio stat virtus, dicevano gli scolastici medievali. L’equilibrio. Ancora una volta, l’equilibrio dei santi, l’abbraccio dei santi al mondo.
Dunque, anche qui, abbiamo i nostri due estremi: il primo è chiaro, abbastanza, è il dolorismo, il pessimismo, l’aria perennemente triste e malinconica, il cristianesimo che finisce il venerdì santo; quello che ci spinge ad essere insopportabilmente lamentosi e critici, disperati e cupi, perché “qui siamo nel dolore; gli anni della nostra vita sono settanta, ottanta per i più robusti; quasi tutti sono fatica e dolore”, lo dice anche la Parola di Dio. La gioia è altrove, nell’al di là, nel paradiso. Qui non c’è gioia, mai, mai, letteralmente, mai ‘na gioia. Ora io sto caricaturando un po’, ma basta farvi un giro su instagram, insomma: gare senza sconti di stati deprimenti, da eterne vittime, pure in salsa cristiana, pure da cristiani. Immagino sarà stato questo a spingere Nietzsche verso la morte di Dio: perché se il cristianesimo è questo, c’aveva ragione lui. No, davvero, faccio mea culpa, me per primo, noi sacerdoti per primi, noi consacrati per primi.. immagino che preti avesse visto per scrivere nel suo Così parlò Zarathustra:
«Mi fanno pena questi preti: per me sono dei prigionieri e dei marchiati. Colui che essi chiamano redentore, li caricò di ceppi. Di ceppi di falsi valori e di folli parole! Ah, se qualcuno potesse redimerli dal loro redentore!».
Dobbiamo essere leali, fratelli e sorelle: a volte è così, a volte sembra che sarebbe bene che qualcuno ci redima dal nostro redentore per l’effetto che ci fa! Dobbiamo essere leali, non certo per farci venire i sensi di colpa, ma per aprire davvero le porte a Gesù Cristo! Basta ammettere a se stessi la cosa e chiedere aiuto: non ho alcuna gratitudine per la vita, la concezione del mio esistere è pressoché quella di Schopenauer – la vita è come un pendolo che oscilla fra la noia e il dolore – e Dio è solo la parola fine di questa mia vita – la buona notizia è che finisce, ecco il mio vangelo si condensa nell’annuncio che sta vita prima o poi finisce.
Ecco, questo è evidentemente un estremo malato, da combattere, da combattere. Un po’ ce l’abbiamo tutti dentro, ma non possiamo nutrire questa bestia. È male. Ci divora. Ci distrugge.
Eppure, se questo è alquanto evidente, esiste un altro estremo, l’estremo opposto, meno evidente, ma ugualmente devastante. Anche la gioia ha il suo estremo: non nel senso che si possa essere troppo contenti, ovviamente, ma nel senso che si possa essere falsamente contenti, stupidamente contenti, aggressivamente contenti. È il cristianesimo della domenica di risurrezione, quello che ha tolto la croce e saltato l’attesa del sepolcro. È il cristianesimo che fa della gioia un’ideologia, come il nazismo, come il comunismo, come tutte quelle ideologie che vogliono imporre l’idea sul reale. È il cristianesimo che vuole imporre a colpi di frusta il paradiso sulla terra e nel cuore degli uomini. Guardate che è altrettanto malato del cristianesimo triste, dimentico della croce che sanguina, dimentico del seme che muore e marcisce prima di dar frutto, dimentico della pazienza di Dio, dormiente in un sepolcro, prima di risorgere. Quel cristianesimo che ti impone di essere contento, che te lo fa pesare, che ti fa sentire in colpa: beh, sei cristiano che è sta faccia?! Su il cristianesimo è gioia, è felicità.
È un cristianesimo ridicolo. Scusate, rischiamo di diventare ridicoli a volte. E di diventare una contro testimonianza. Se volete un’immagine, è la caricatura di Pollyanna. Immagino molti di voi da piccoli avranno letto questo simpatico romanzo che ha come protagonista questa piccola bambina insopportabile, intrisa di glucosio, che va diffondendo per il mondo un gioco, un gioco straordinario, un gioco lasciatole in eredità dal papà, ovvero il gioco della felicità! In cosa consiste questo gioco? Nell’essere contenti, sempre. Muore tua zia? Evviva! Ti rompi una gamba? Evviva. Perdi il lavoro? Evviva! Ora, sto scherzando, ma guardate che a volte ragioniamo così, parliamo così: stai male? Beh, è la croce, Gesù sceglie i suoi più intimi per dagli queste sofferenze. Qualcuno a te caro muore, magari anche da giovane, improvvisamente: beh, Dio coglie i fiori più belli, ora è nel giardino di Dio. Guardate che queste cose le diciamo! E sono ridicole, scusate, non sono evangeliche. Cristo ha pianto di fronte alla morte di Lazzaro, e sapeva che tra poco lo avrebbe resuscitato, eppure ha pianto! Cristo ha sudato sangue, ha tremato, ha chiesto che gli fosse tolta quella croce, perché umanamente non la voleva, altro che eletto di Dio! La croce è la logica nostra, non di Dio: Dio l’ha assunta su di sé per amore nostro, ma non sta lì ha organizzare crocifissioni per trarre gli uomini a sé. Stiamo attenti a parlare della gioia, stiamo attenti a rendere ridicola la nostra fede.
Stiamo nel mezzo, allora. Stiamo nel Vangelo, stiamo sul vangelo. E ascoltiamo il vangelo, ascoltiamo Gesù, impariamo da Gesù.
Stiamo leggendo il vangelo di Luca. Come abbiamo ascoltato ieri, Gesù sta andando a Gerusalemme. Sta andando a Gerusalemme per morire, non è propriamente un viaggio di piacere: infatti, il vangelo ci dice che si diresse decisamente, letteralmente “rese la sua faccia dura come pietra”. Dunque, Gesù, per amore, con volontà di amore verso il Padre e verso la nostra salvezza, fa forza alla sua volontà per andare incontro alla morte, alla morte di croce. Restando in ciò che siamo detti, Gesù non va saltellando a Gerusalemme, cogliendo margherite e cantando l’alleluja delle lampadine: Gesù deve rendere di pietra la sua faccia, il momento è duro, la decisione è dura.
In questo viaggio passa per la Samaria, dove non ha proprio una buona accoglienza, e ricorda a chi vuole seguirlo la esigenza della vocazione apostolica. Terminato qui il capitolo nove, inizia il capitolo dieci, quello che ascolteremo domenica. Gesù designa altri 72 discepoli – 72, numero simbolico che indica la totalità, richiamando tutti i popoli della terra dopo il diluvio in Genesi 10 – e dà loro alcune raccomandazioni per la missione.
In questi 72 discepoli ci siamo anche noi; anche noi siamo mandati da Gesù. Anche noi siamo mandati da Gesù: sei battezzato? Sei in missione per conto di Dio, come i Blues’s brothers. Ovunque. Qualsiasi cosa tu faccia. Qualsiasi. Ma siamo mandati in quell’ottica, in quell’equilibrio da funamboli di cui abbiamo parlato. Gioia e dolore. Croce e risurrezione.
Il vangelo ci dice che questi discepoli tornarono pieni di gioia. Pieni di gioia per il successo apostolico: come a dire, è fatta! Persino i demoni si sottomettono a noi, cioè abbiamo vinto, Gesù, abbiamo vinto, il male si può sconfiggere, è sconfitto. Ora badate bene, questa è una vera gioia. Gesù non la distrugge: Lui stesso sottolinea che è il frutto del suo potere dato loro, Lui stesso dice di vedere Satana cadere come folgore. È bene così. È giusto. È santo. Però aggiunge Gesù e qui è tutto il cuore di ciò che vorrei dire questa sera, in queste profondissime e stupende parole di Gesù:
«Non rallegratevi perché i demòni si sottomettono a voi; rallegratevi piuttosto perché i vostri nomi sono scritti nei cieli».
In queste parole di Cristo è il segreto della vera gioia, della gioia del discepolo. Gesù ci invita ad una gioia più profonda; non per toglierci le gioie vere, della vocazione, del vedere l’opera di Dio attraverso di noi, del vedere frutti della nostra semina – ma per proteggere quelle gioie, custodendole nel profondo del cuore, nello scrigno del cuore dove risiede la fonte della gioia, lì dove solo possono stare insieme, anche qui sulla terra, dolore e gioia, croce e risurrezione. Gesù ci invita a porre la nostra gioia nel fatto che i nostri nomi sono scritti nei cieli. Che significa?
In diversi luoghi della Scrittura si parla del libro della vita, dove vengono scritti i nomi di coloro che sono ordinati alla vita eterna. Ma vorrei tornare un attimo al libro dell’Esodo, al capitolo 32, lì dove si parla del vitello d’oro. Ricorderete l’accaduto: Mosè si trova sul monte con Dio per ricevere le tavole della Legge, tarda a scendere, e allora il popolo si costruisce un vitello d’oro, che elegge a proprio dio, che cammini alla loro testa e venga portato da loro stessi in processione. Ecco il vitello d’oro è il peccato originale del credente. Non si tratta di paganesimo, non è la rivalità con un altro dio, è lo stesso dio, il Dio d’Israele, ma ridotto alla propria portata; è la tentazione che abbiamo tutti di ridurre Dio a noi – Dio troppo grande, troppo sapiente, troppo bello, così imprevedibile, così alto nei suoi pensieri – è meglio ridurlo un po’, è meglio rimpicciolirlo un po’ e così poter essere noi a portare Dio dove vogliamo; il vitello d’oro è Dio, ma a modo mio. È la fine dell’amore, perché è la rottura della relazione. Ed è per questo che Dio dice: «Io cancellerò dal mio libro colui che ha peccato contro di me», perché non si può godere dell’amicizia di Dio se gli si toglie la libertà di essere Dio. Al contrario, se i nostri nomi sono scritti nei cieli, se i nostri nomi, ovvero noi – biblicamente il nome è la persona, tutta la persona – se tutto me stesso è in relazione con Dio, è in comunione con Dio, allora sì che si può sperimentare quella gioia piena di cui parla Cristo ai suoi amici. È questa la vera gioia, la gioia del discepolo: è la gioia di chi sa di essere stato salvato e vive una relazione vera con Dio, dove non manipola Dio. Dio mi ha liberato e io lo lascio libero di fare Dio. Io sono contento perché io e Dio ci amiamo come due persone libere, in una relazione vera: e allora, io posso essere contento anche quando Dio mi dice di no, anche quando non fa ciò che vorrei io, perché ciò che mi rende felice non in primo luogo ciò che Dio fa, ma ciò che Dio è per me. La gioia del discepolo è ancorata alla sua relazione con Dio: la mia gioia, qui, questa sera, non sarà il frutto di questa catechesi, non sarà nel numero dei partecipanti, non sarà nemmeno ancorata al numero delle conversioni: la mia gioia sarà tra poco, quando io e Dio saremmo faccia e faccia, liberi e amanti. E questo vale per ognuno di noi, qui. Questo vale per ogni uomo.
Certo, questo implica per forza di cose un’ascesi della gioia, cioè un esercizio, quotidiano, a coltivare sopra ogni cosa la relazione con Dio. Se è vero che la gioia è un frutto dello Spirito, è anche vero che questo frutto lo gusta solo chi semina il terreno. Solo in una visione pagana la gioia è frutto del fato, della fortuna, capita ad alcuni, non capita ad altri; in una visione cristiana la gioia è donata, certamente, a chi cerca Dio, a chi ripone tutto in Dio, nella relazione d’amore con Dio.
Una relazione che, in Cristo, non può che essere filiale. Il Padre è il senso del mondo; la gioia è sentirsi e sapersi sempre figli amati. Come descrive meravigliosamente il profeta Isaia:
Voi sarete allattati e portati in braccio,
e sulle ginocchia sarete accarezzati.
Come una madre consola un figlio,
così io vi consolerò;
a Gerusalemme sarete consolati.
Voi lo vedrete e gioirà il vostro cuore,
Pensate se credessimo veramente di essere come bimbi allattati, portati in braccio, accarezzati da Dio. Ultimamente per me la catechesi più bella me la fa sempre mio nipote Giulio, nemmeno un anno e mezzo: il suo sorriso, la sua gioia, una gioia confidente nell’amore nella mamma, del papà, dei nonni, è quella che mi manca, è lì che siamo mancanti. Il senso del mondo è il Padre; la gioia del mondo è l’essere figlio. Cristo ha potuto morire sulla croce, proprio perché Figlio, proprio perché era certo dell’amore del Padre: nulla di male, veramente, può accadere ad un figlio quando è nell’amore del Padre, un Padre onnipotente, un Padre buono.
Padre e figlio. Mi viene in mente lo straordinario romanzo di Cormac McCarthy, La strada. Un romanzo durissimo, eppure allo stesso tempo profondamente dolce. Come il cristianesimo. Et – et.
Immaginate uno scenario post-apocalittico: una catastrofe non ben precisata ha devastato il mondo come lo conosciamo; non c’è più cibo, gli uomini, affamati, sono ormai in competizione tra loro per sopravvivere, gli uomini sono ormai cibo l’uno per l’altro.
Io ci ho sempre visto un potentissimo richiamo alla condizione del mondo dopo il peccato originale, l’unica vera catastrofe umana e naturale, che ci ha divisi gli uni dagli altri, in competizione per un po’ di potere, per un po’ di cibo, per un po’ d’affetto e di amore.
Nella desolazione di questo mondo distopico, l’unica speranza sono un padre e un figlio, e il loro amore. L’unico fuoco a dare luce, speranza, senso a questo mondo è il loro amore.
Lo Spirito Santo, l’amore tra Cristo e il Padre è la segreta gioia del mondo. Il fuoco di questo amore, visibile solo agli con gli occhi della fede, è la profonda gioia del reale. Chiediamo questo fuoco, tra poco, volto a volto con Gesù: che ci consumi di Lui per Lui; che ci inabissi nelle profondità della gioia di Dio, dove niente di male può succederci; come nel dialogo bellissimo del libro di McCarthy tra il figlio e suo padre, con il quale concludo:
Ce la caveremo, vero, papà?
Sì. Ce la caveremo.
E non ci succederà niente di male.
Esatto. Non ci succederà niente di male.
Perché noi portiamo il fuoco.
Sì. Perché noi portiamo il fuoco.
Bellissima riflessione su quel che è LA GIOIA cristiana,
della quale abbiamo bisogno
affinché questo nostro mondo malatissimo possa RESPIRARE UMANITA’=VITA:
l’ipotesi alternativa è la morte, tutta e subito!
Grazie grazie per la risposta molto gradita riguarda mia carissima figlia Sophie aveva solo 23 anni .
Chi mi ha scritto non so il suo nome.
Pace e bene. Grazie .
.
Grazie mille della trascrizione!! Davvero. Molto profondo e reale! Qualsiasi cosa ci possa accadere ce la caveremo! Che bella lezione di vita! Una ventata di Fede Vera in mezzo a tanto Buonismo a basso prezzo.
Non grazie a noi ma a Dio…ce la caveremo! E senza stamparci un finto “smile” in faccia…
Bellissima lezione di vita, la gioia vera si trova in Cristo Gesù , ci vuole felice
Perché ci Ha creato per la gioia. Anche nel dolore. A questo proposito ho un memoriale, quando mia figlia stava male, ho chiesto a Gesù la sua guarigione con tutto il mio essere , dopo poco tempo la sua dipartita, il mio primo pensiero era; ecco come la guarita se le porta to con sé. Non come desideravo io. Certo in questo momento duro, ho avuto la consolazione che il Signore la guarita Come voleva Lui.
E di questo ne sono certa anche ,se la separazione fa male, ma so e spero che un giorno ci ritroviamo insieme . Il dolore poi anche trasforma in questa fiducia, Dio Padre è giusto e non inganna mai. E sarà gioia per sempre con i nostri cari insieme a Gesù e Maria. Cristo Gesù sula croce disse perdona loro perché non sano quello che fanno, e a Maria Ss madre di Dio a Giovanni ecco tuo figlio ,
Maria di ogni consolazione è sempre vicino a noi anche nella sofferenza ed intercedere per ogni figli.
Grazie per tutto.
@marierose
Il dolore e’ dolore. Affrontato con Fede, anche quando proprio non lo capiamo…non può che avvicinarci un pochino di + al Signore.
Questa e’ una piccola/grande consolazione. “Piccola”, perché umanamente il distacco e’ devastante, immobilizzante, inconcepibile; ma anche “Grande” perché aggiunge qualcosa in + al ns rapporto con Dio… Non ricordo quale santo diceva che nel dolore sono scritte le pagine più luminose della ns vita ( ma forse questo lo capiremo poi…).
Qua, sulla terra, fra noi mortali, non c’è una formula magica… il dolore va “attraversato”, coi ns tempi e con l’aiuto del Signore.
Per quello che possa contare, ti sono vicina.
Un abbraccio forte. Ciao
Grazie per questa catechesi così intensa e vera! Ne avevo proprio bisogno!
Scusate, ma io proprio non ce la faccio a non rispondere a questo post. Sarà che adesso ho un po’ di tempo libero che me lo consente. Ma cosa c’è di sbagliato nel “gioco della felicità” di Pollyanna? Non dovremmo sforzarci tutti di vedere il bello che accade nelle nostre vite soprattutto quando circostanze avverse ce lo rendono molto difficile? Io sono cresciuta con le storie di Pollyanna, Mary Lennox del “Giardino segreto”, Sara de “La piccola principessa”, Anna dai capelli rossi, tutte bambine una più sfortunata dell’altra. Al confronto delle loro le mie sventure sembravano niente e mi aiutava potermi identificare in bambine che, nonostante tutto, continuavano a conservare un insensato amore per la vita. Era una lettura catartica come quella delle fiabe, dove accadono cose orribili tutto il tempo ma alla fine arriva sempre il lieto fine (lo stesso avviene dopotutto nella storia di Gesù).
Di Pollyanna sono affezionata in particolare alla scena in cui la bambina prende i cristalli di un lampadario e li appende in giro per la stanza in modo da creare un arcobaleno di luci che lascia senza fiato tutti. Nel soggiorno di mia zia c’era un lampadario molto pacchiano con cristalli che mi ricordavano quelli di Pollyanna e mi divertivo a fare lo stesso tipo di gioco, a osservare i riflessi colorati che la luce del sole creava entrando in contatto con i prismi. Io, che ero una bambina malinconica con già tante ragioni per essere infelice, grazie a Pollyanna avevo trovato una piccola gioia a cui ripenso ancora oggi con immutato affetto.
Andare a fare lezioncine morali a chi soffre su come si sopporta il dolore, ma anche no! Però prendersela con qualcuno che di fronte a enormi tragedie cerca di andare avanti come può e non sta lì a piangersi addosso tutto il tempo, ma che scherziamo? Una Beata che amo molto, Chiara Luce Badano, ha convertito molte persone nel corso della sua malattia proprio per il modo coraggioso in cui l’ha affrontata: davanti alla prospettiva della morte e nel patire le immani sofferenze causate dal tumore osseo (uno dei più dolorosi che ci siano), invece di disperarsi come avremmo fatto tutti (io per prima), lei, che era una ragazzina di appena 18 anni, rideva, scherzava e consolava le persone con cui entrava in contatto a cominciare dai suoi genitori.
Diceva cose che sicuramente sembreranno ridicole a molte persone di oggi, come ad esempio: «L’importante è fare la volontà di Dio… è stare al suo gioco… Un altro mondo mi attende… Mi sento avvolta in uno splendido disegno che, a poco a poco, mi si svela… Mi piaceva tanto andare in bicicletta e Dio mi ha tolto le gambe, ma mi ha dato le ali…». Disse di vestirla da sposa il giorno del suo funerale e di organizzare una grande festa perché andava a incontrare il suo sposo Gesù. «Quando in cielo arriva una ragazza di diciotto anni, si fa festa!», confidò una volta alla madre. Le sue ultime parole furono: «Mamma, sii felice perché io lo sono».
Tutto questo risulta ridicolo ai non credenti? Beh, sì, a molti sì, perché l’ho sperimentato raccontandolo pochi giorni fa a dei giovani atei di 25/27 anni. E allora Chiara Luce ha forse fatto male a comportarsi così perché avrebbe dovuto badare a non risultare ridicola agli occhi dei moderni? Probabilmente se avesse chiesto l’eutanasia per non soffrire più a causa del tumore e per avere una “morte dignitosa” non sarebbe risultata ridicola a quei giovani di cui ho parlato. Perché non so se ve ne siete accorti, ma oggi si è diffusa una mentalità mortifera per cui se non raggiungi una certa qualità della vita non puoi far altro che soffrire e desiderare la morte. Se ti trovi a vivere in determinate condizioni, a detta di molti, la tua vita non è degna di essere vissuta, punto. E pazienza se ci sono persone che dimostrano che anche in quelle condizioni si può prendere del buono dalla propria esperienza. Avete presente il linciaggio che ha subìto Nadia Toffa quando ha osato definire il suo tumore un “dono”?
Io ho discusso animatamente con dei giovani che dicevano di non sopportare Bebe Vio, perché nelle sue condizioni non si può sostenere che “la vita è una figata” come dice sempre lei. E perché no, dico io? Effettivamente se si va a vedere in internet ci si accorge quante siano le persone che la odiano. Il fatto è che lei in quelle condizioni non può essere felice per la mentalità comune. E noi cristiani dovremmo abbassarci a pensare lo stesso? Siccome una da quando ha 11 anni non ha più le braccia, deve per forza soffrire, perché come si fa ad essere felici così? Ma per favore! Io mi rifiuto di pensare una cosa del genere!
Da quando noi cristiani dobbiamo stare attenti a cercare il consenso del mondo? Davvero pensate che non risultiamo ridicoli nel rivelare molte delle verità in cui crediamo? Insomma, siamo convinti che ad ogni messa un pezzetto di pane si trasformi nel Corpo e Sangue di un uomo-Dio morto e risorto duemila anni fa! Non risultavano ridicoli persino Gesù e gli apostoli quando iniziarono ad annunciare il Vangelo in giro per il mondo? Nelle Scritture non ci vengono forse descritte ampiamente le reazioni violente che hanno suscitato in alcune comunità? E allora? Di che parliamo?
È vera la massima “in medio stat virtus”, ma non la si può applicare a tutto, perché in alcuni casi si sfocia nella mediocrità, nella tiepidezza e nel compromesso. E francamente non ci vedo nessuna mezza misura nella forza straordinaria di una 18enne malata terminale di cancro che rifiuta la morfina per non perdere lucidità e godersi insieme alle persone che ama tutti gli attimi di vita donatele ancora per poco. Per quanto mi riguarda una ragazzina che, sottoposta a prove tremende, dimostri di riuscire ad essere lo stesso felice è tutto fuorché insopportabile, che si chiami Pollyanna, Bebe Vio o Chiara Luce.
Ma che palle.
Le critiche, il dibattito, sono ottime cose quando partono dalla (semplice, corretta) comprensione del testo e del suo significato.
In questo caso, tu l’hai completamente ribaltato. Che spreco di tempo, di parole, di talenti!
La ringrazio Beatrice per questo suo commento profondamente molto chiaro e verace ; con degli esempi che testimoniano da sé la bellezza dell’ essere cristiani e per chi non lo è , certamente cambia la prospettiva e la vita può risultare un non senso e un succedersi di cose caotiche e assurde .
Concordo con Beatrice, mi pare che l’interpretazione del gioco di Pollyanna non sia proprio centrata. L’insegnamento che personalmente ne ricavai da bambina non fu certo di infilarsi gli occhiali rosa per guardare il mondo ma piuttosto quello di cercare con coraggio un lato positivo anche nelle situazioni più difficili, anzi, forse ancora di più, di guardare alla vita come a un progetto più grande del mio limitato orizzonte. Un progetto Bello e Buono perché non mio, ma di Chi mi ama da sempre. Poi certamente un santo equilibrio è sempre da ricercare, insieme a un vero sguardo soprannaturale sulla realtà.
@ Beatrice
Credo il contenuto della catechesi sia diverso. L’atteggiamento che si vuole criticare è quello di chi vuole la ‘domenica senza venerdì’ cioè facendo finta che le croci non esistano, concentrandosi sul positivo o cose simili. In questo senso i vetri colorati non vanno bene, falsano la realtà. Invece l’insegnamento di Gesù è di attraversare la croce, direi quasi assaporarla, per arrivare alla vita di Dio.
Non conosco ancora abbastanza la storia di Chiara Luce, ma anche lei avrà avuto un tempo in cui avrà gridato come Giobbe e poi ‘indurito il volto’ e deciso di stare nel piano di Dio. Magari, per grazia, anche un tempo abbastanza breve, perchè in fondo Gesù ci ha aperto la strada e nella storia della Chiesa ci sono anche martiri che sembrano aver accettato il martirio con più prontezza si Gesù. Però, appunto, poter dire che tutto è dono è un punto di arrivo. Magari anche in quei romanzi che conosci era così (io ricordo un po’ il cartone, ma ero troppo piccolo).
Lo diceva anche Chesterton, quando raccontava delle critiche contraddittorie che sentiva contro il cristianesimo (cito a memoria): “Insomma, il cristianesimo erano degli occhiali rosa su un mondo nero o degli occhiali neri su un mondo rosa?”
@zimisce
Quando Chiara Luce ha saputo dal medico di avere un tumore maligno al quarto stadio, una volta a casa si è chiusa nel silenzio per 25 minuti, gettandosi sul letto con un’espressione cupa e tormentata. Quello è stato il suo Getsemani. 25 minuti per dire di sì a Dio, per dire di sì alla croce che le era stato chiesto di portare. Dopo di allora mai un dubbio o una lamentela. Solo un’inspiegabile gioia che ha contagiato tutti quelli che la circondavano. Una gioia che non aveva niente di zuccheroso, ma faceva assaporare a chiunque la incontrasse un pezzetto di Paradiso (non per niente ha riavvicinato alla fede alcuni medici che la seguivano). Chiara Luce non era masochista, non gioiva della sua situazione, ma gioiva nonostante la sua situazione. Era una ragazza normale, con i suoi progetti di vita (voleva fare il medico), i suoi amici, i suoi hobbies e le difficoltà che poteva avere un’adolescente qualunque (era stata bocciata al primo anno di classico). Aveva anche chiesto la Grazia della guarigione, accettando poi il fatto di non averla ottenuta.
Il punto è che parliamo di 25 minuti di silenzio sgomento di fronte al male che le era capitato e di due anni di serena accettazione nei confronti di una malattia tremenda che tra atroci sofferenze e terapie altrettanto dolorose l’avrebbe portata a perdere l’uso delle gambe e alla morte prematura giusto poco tempo prima di compiere 19 anni. È per questo che è stata proclamata Beata. Insomma, c’è una sproporzione esagerata tra il male piombatole addosso da giovanissima e la reazione avuta di fronte a tutto quel male che avrebbe gettato nella disperazione chiunque. È lì che è emersa la tempra della Santa, quel canale d’accesso privilegiato con la fonte di ogni Grazia che permette di manifestare il divino anche qui in questa vita. Quella stessa tempra che ha portato Padre Massimiliano Kolbe a donare speranza ai condannati a morte per fame e per sete nella botola di un lager nazista, tanto che hanno dovuto tirarlo fuori da lì e ucciderlo con un’iniezione perché non solo non moriva ma teneva in vita gli altri prigionieri con la sua presenza e le sue preghiere.
In tutti i casi citati non stiamo parlando di persone pazze, che erano felici di soffrire e di morire giovani. Stiamo parlando di Santi che hanno trovato nel Signore la forza di affrontare con serenità anche i momenti più brutti della loro vita. Il dolore fa schifo, è orribile da sopportare per chiunque, il cristiano non lo deve esaltare né ricercare di sua spontanea volontà, ma una volta che arriva sotto forma di croce con l’aiuto di Dio lo si può trasformare in una fonte di Grazia per sé e per gli altri.
Tutti questi esempi luminosi di Santi testimoniano un eccesso di ottimismo, di amore per la vita e di resilienza, in situazioni davvero estreme e drammatiche, testimoniano quel “sperare contro ogni speranza” di paolina memoria. Non ci vedo nessuna mezza misura nel loro modo straordinario di rapportarsi al dolore fisico e psicologico che ha investito in forme brutali la loro persona. Mi fa strano leggere, in un discorso che passa tutto il tempo a esaltare l’et-et, la condanna verso chi cerca di mantenere inalterato il proprio entusiasmo nei confronti della vita anche quando questa colpisce duramente e la condanna di quanti, magari in maniera goffa e ingenua, cercano di interpretare certe tragedie alla luce della fede.
Non si tratta di guardare il mondo con le lenti rosa di un ottimismo superficiale che non vede il male, ma di guardare il mondo con gli occhi della fede, occhi che vedono nel male un’occasione per permettere a Dio di trarre anche da esso il bene. Noi cristiani dobbiamo sforzarci di guardare al dolore in maniera diversa da come fanno i non credenti, soprattutto quando in quel dolore ci siamo immersi fino al collo. Questo non significa che sia facile, tutt’altro, lo dice una famosa per avere la lacrima facile, però per fortuna non siamo lasciati soli ad affrontare le prove con le nostre misere forze umane.
So per mia esperienza che quando vieni travolto da imprevisti vari e vedi i tuoi sogni crollare uno dopo l’altro, insomma è difficile rimanere in piedi durante quei terremoti, anzi è molto più probabile cadere rovinosamente a terra e farsi molto, molto male. Quindi non sto dicendo che sia giusto andare col ditino puntato a trattare da cattivi cristiani chi comprensibilmente davanti a piccole o grandi tragedie sente in maniera fortissima il peso della prova e magari fatica tantissimo ad accettare una croce. Bisogna accostarsi sempre al dolore altrui in punta di piedi, con grande pudore e delicatezza. Appunto, et-et, non siamo tutti come Chiara Luce o Massimiliano Kolbe, non riceviamo tutti gli stessi carismi e le stesse Grazie, ogni persona ha la sua storia, il suo carattere e i suoi tempi e non sta a noi giudicare la reazione di qualcuno davanti al dolore. Tuttavia non andiamo neanche a prendercela con chi ha l’enorme Grazia di riuscire a sopportare una o più croci con sovrannaturale letizia, non andiamo a trattarlo da “estremista dell’ottimismo”, da individuo affetto dalla “sindrome di Pollyanna”.
Quando ho incontrato per la prima volta Chiara Luce Badano era il 2011 durante il periodo più difficile della mia vita. All’epoca ero all’inizio della mia conversione, quindi con una fede molto acerba e imperfetta. Ebbene, non ho pensato: “guarda quanto è insopportabile questa, come si fa a gioire in quelle condizioni e a chiedere di far festa il giorno del proprio funerale?”. Al contrario, ho pensato: “guarda che forza straordinaria ha dimostrato questa ragazza, ma dove l’ha presa? Come si fa ad essere così? Come si fa ad avere quel sorriso, quell’espressione serena sul volto, quel tono di voce gaudioso quando si è malati terminali di cancro a 18 anni? E io che per molto meno sono qui a disperarmi come una scema!”.
Mi ricordo che vidi un documentario di Paolo Brosio su di lei e fu veramente un’iniezione di speranza: da quel momento guardai alla mia situazione personale con occhi diversi, provando a fare mio il modo di ragionare che aveva assunto Chiara Luce di fronte alla sua malattia. Come da bambina le storie immaginarie delle orfanelle testardamente felici mi avevano aiutato a superare i piccoli drammi della mia infanzia, a maggior ragione la testimonianza vera e potente di questa Beata arrivò proprio nel momento giusto per risollevarmi da una caduta.
Insomma, tutto quel male sopportato eroicamente è stato fonte di bene per me e per tanti che Chiara Luce l’hanno conosciuta di persona o sentendo parlare di lei da qualche parte. Ed è stato fonte di bene non perché per 25 minuti la Beata avrà dubitato dentro di sè sulla bontà di Dio e sull’assurdità di quanto le era capitato, ma perché per i due anni successivi a quei 25 minuti si è affidata completamente a quel Dio da cui continuava a sentirsi amata anche nella sofferenza, tanto che ogni volta che stava male ripeteva: “Se lo vuoi tu Gesù, lo voglio pure io”. I discorsi che faceva, tipo quando diceva che Dio con i patimenti fisici la stava ripulendo ben bene da ogni peccato in modo che si presentasse a Lui candida come la neve, possono apparire assurdi e senza senso ai non credenti, ma non ai cristiani che credono in una dimensione trascendente. Quei discorsi che possono apparire ridicoli a tanti oggi, a me hanno aiutato e continuano ad aiutare.
Quindi, per favore, non assumiamo il modo cinico di vedere il mondo che hanno tanti uomini moderni e non lasciamoci togliere quello sguardo sovrannaturale sulle vicende terrene che il cristiano deve sempre coltivare in qualsiasi situazione e a maggior ragione in quelle che hanno a che fare col dolore, anche a costo di apparire ridicoli.
Anche i solo 25 minuti sono una enorme Grazia, perché sono i 25 minuti del Getsemani come hai detto, del notte oscura, del dubbio, della disperazione, del grido: DIO MIO, DIO MIO, PERCHÉ MI HAI ABBANDONATO!?
Per alcuni quei 25 minuti, durano 25 ore, 25 giorni, 25 notti, 25 mesi… ed è forse lì la sofferenza più grande.
Quel lungo, interminabile tempo in cui la croce ti schiaccia, alla croce ti ribelli…
Per la poca Fede si direbbe con facile sentenza mentre è una Fede che viene messa alla prova ogni giorno, per giorni e giorni… Sinchè ci si arrende e si scopre che nella resa sta la vittoria e la gioia, la gioia profonda di stare nella Volontà di Dio… e tutto cambia.
D’accordo Beatrice, condivido tutto, ma non credo che la catechesi “incriminata” volesse minimamente negare questo. Come sottolineavo prima, voleva mettere in guardia da due derive spirituali: il cristianesimo che vuole la domenica senza il venerdì e quello che vede solo il venerdì e non crede davvero nella domenica. Il punto è, esistono dei cristiani che vivono concentrandosi su ciò che non è croce? Sì, molti ci provano finchè possibile. Come Giobbe all’inizio dei suoi guai dice “il Signore ha dato, il Signore ha tolto; sia lode al Signore”. E magari fa anche bene a dire così, ma non è quello il punto di arrivo della sua vicenda (anzi noi nell’immaginario collettivo abbiamo l’idea di Giobbe come campione della pazienza mentre quasi tutta la sua storia è focalizzata sul momento in cui perde la pazienza e fa il processo a Dio).
Mi pare che ti abbia un po’ offeso l’utilizzo di Polyanna come esempio di un ottimismo immaturo, ma non devi prendertela. A volte le immagini letterarie vengono usate per spiegare una situazione, senza pretesa di rendere ragione dell’intera opera o di un suo personaggio.
Immagina un’omelia in cui si parli di matrimonio e il prete voglia criticare l’atteggiamento odierno di fissarsi sui sentimenti. Potrebbe ben dire qualcosa come “il matrimonio non è sentimentalismo alla Jane Austen, che tra l’altro non si è mai sposata”. Certo che in questa frase sminuirebbe la profondità e la positività della sua opera. Non starei a dibattere sul fatto che nei suoi libri i personaggi che si fanno trascinare dai sentimenti sono i più frivoli e di solito finiscono nei guai. Ma appunto sarebbe un’immagine, basata su un aspetto delle sue opere.
Oppure immagina che qualcuno faccia una catechesi sul non avere un rapporto superstizioso con Dio e sulla necessità del nostro impegno personale per cambiare la nostra vita. Potrebbe starci bene una frase del tipo “perché le cose non si risolvono magicamente come in Harry Potter”. Sarebbe un’uscita ingiusta verso i romanzi della serie, dove le cose non si risolvono affatto magicamente e anzi si impara che non tutto si può aggiustare e ci sono ferite che restano. Ma se uno prende solo come immagine il gesto di fare magie con una bacchetta l’esempio funziona.
Un ultimo esempio, da una catechesi che ho sentito davvero. Un frate una volta ha esordito criticando il Piccolo Principe e la famosa frase “l’essenziale è invisibile agli occhi”. Infatti, diceva, questo è assolutamente falso, perchè per noi cristiani l’essenziale si è reso visibile ed è Gesù (eravamo vicini a Natale) e l’Eucarestia. Ecco, il discorso ci sta, anche se non prende in considerazione il contesto del romanzo.
Tutto questo per dire che un conto è il piano retorico, nel senso delle immagini utilizzate, un conto è la realtà che si vuole rappresentare.
Quindi sì, esiste la realtà descritta in questa catechesi, e l’atteggiamento descritto può essere paragonato a quello dei vetri colorati di Polyanna, senza voler con questo dire che il personaggio rientri nella categoria.
Consentitemi la richiesta personale di preghiere per mia madre, da giorni ricoverata, non vedo una situazione rosea, umanamente parlando…
Certo, Bariom! Hai fatto bene a dirlo!
@zimisce
Urca, se fosse stata attaccata Jane Austen, allora sì avreste visto fuoco e fiamme. Sto scherzando! Più o meno… Mi sembra evidente che sono legata al personaggio di Pollyanna per le ragioni che ho già spiegato e che non sto a ripetere. Non penso che il prete di questa catechesi abbia detto qualcosa di particolarmente grave o addirittura eretico, ci mancherebbe. Stiamo discutendo di questioni opinabili. Tra l’altro il giudizio da lui espresso su Pollyanna è alquanto diffuso, in psicologia è stato pure usato il suo nome per chiamare una malattia ben precisa.
Anche Aldo Maria Valli, giornalista che stimo, ha usato in un articolo questo personaggio letterario come metafora negativa dell’ottimismo sciocco tenuto dal Vaticano nei confronti del governo cinese. Perché è indubbio che un ottimismo sciocco esista: è l’ottimismo di chi decide di non vedere gli aspetti negativi di una situazione per ignoranza (non conosco tutta la questione), per stupidità (sottovaluto gli ostacoli e i pericoli), per rimozione (è troppo orribile visualizzare tutto il male che ho davanti) o per convenienza (faccio come le tre scimmiette del “non vedo, non sento, non parlo” per non avere problemi o per interesse di qualche tipo). Io sono per la verità sempre e comunque. Le cose vanno guardate in faccia per come sono nella loro brutale realtà. In Matrix avrei scelto la stessa pillola presa dal protagonista: è meglio vivere dolorosamente ma nella verità che vivere spensieratamente nella menzogna.
Quello che io contesto è il fatto che questo ottimismo sciocco sia davvero stato incarnato da Pollyanna nel romanzo omonimo (e tra i cattolici non sono l’unica a dissentire dal luogo comune ostile verso il personaggio letterario: https://it.aleteia.org/2019/01/03/pollyanna-gioco-essere-sempre-contenti/ ). Il suo non era un negare le cose tristi che accadevano nella sua vita, anche perché come si fa a non ricordarsi ogni giorno che non si ha la mamma e il papà quando si è orfani? Mi ricordo che Silvana De Mari in un articolo disse che è una ferita che rimarrà aperta tutta la vita e vedendo mio padre, rimasto orfano della figura paterna a tre anni, so per certo che è così. Figurarsi che sentivo io la mancanza dei nonni (ne ho conosciuto solo uno per pochi anni)! Mia mamma mi ha raccontato che una volta all’asilo quando le maestre mi chiesero cosa volessi da Gesù Bambino risposi un nonno. Quello che faceva Pollyanna col famoso gioco della felicità era semplicemente non permettere che le cose brutte le impedissero di vedere quelle belle che accadevano nella sua vita. Il suo era un arcobaleno che come tutti gli arcobaleni nasceva da una tempesta, dall’incontro tra questa e la luce del sole, la tempesta da sola non forma l’arcobaleno, la luce del sole da sola non forma l’arcobaleno, ci vogliono entrambi: la fede (luce del sole) che resiste nel mezzo della prova (tempesta) dà luogo alla speranza (arcobaleno), fede che può essere anche solo la laica fiducia nella bellezza della vita (“Che sia benedetta” è arrivata a dire un’agnostica come Fiorella Mannoia in una famosa canzone).
Pensando a Pollyanna mi è venuta subito in mente la Beata Chiara Luce perché entrambe, nonostante perdano l’uso delle gambe, non si lasciano togliere il sorriso. La storia di Chiara Luce è più forte perché vera e perché le è andata decisamente peggio che alla già sfortunatissima Pollyanna. Infatti le storie d’infanzia sulle orfanelle andavano bene per i miei piccoli drammi di bambina, poi quando sono arrivati i problemi veri Dio ha messo in campo l’artiglieria pesante facendomi conoscere le vite dei Santi.
Se io vado da uno che ha perso l’uso delle gambe a dirgli “poteva andarti peggio, potevi rimanere paralizzato dal collo in giù”, quello giustamente mi manda a quel paese. Ma se sono io a pensarlo per cercare di tirarmi su di morale, che c’è di male? Che c’è di male se la mia mente mette in moto tutta una serie di ragionamenti volti a farmi accettare la disgrazia che mi è capitata? Trasferendo lo stesso discorso sul piano spirituale, se vado a dire sempre a quella persona “che fortuna che sei diventato disabile, così puoi offrire la tua sofferenza al Signore per il bene della tua anima e di quella degli altri”, quello ancora una volta fa bene a cacciarmi via a male parole. Ma se sono io a dirlo a me stesso, perché dovrebbe essere sintomo di un ottimismo sbagliato? Una volta ho visto un video di una malata di sla che parlava con un computer che ha detto una cosa del genere: “pensare che tutta la mia sofferenza non è vana, ma unendosi alla croce di Cristo contribuisce alla redenzione delle anime, me la rende più accettabile”.
Ritornando agli esempi già fatti non è che Padre Kolbe e Chiara Luce coltivassero un rifiuto della realtà per poter essere ottimisti, lo sapevano benissimo a cosa stavano andando incontro, non si facevano false illusioni per resistere al dolore. Il loro ottimismo nasceva dalla certezza di essere amati e di essere parte di un progetto più grande in cui anche il male peggiore si trasfigura in bene. E questa consapevolezza, però, non toglieva loro la fatica, la rendeva solo tollerabile, come l’alpinista che sopporta il peso della salita, le scottature del sole, le vesciche ai piedi, le ferite dovute alle cadute, tutto perché sa che la vista sulla cima ripagherà di tutto lo sforzo.
Anche la frase che viene criticata nella catechesi, frase che uno si dice a volte quando perde un proprio caro magari giovane: “Dio coglie i fiori più belli, ora è nel giardino di Dio”, ma che c’è di male nel dirsi qualcosa del genere? La mente umana ha bisogno anche di questo tipo di meccanismi di auto-difesa per poter andare avanti e superare un lutto. Tra l’altro una frase simile la dicevano già i poeti del passato: Menandro nel frammento 111 scrisse «muor giovane colui che gli dei amano» (hon oi theoi philusin apothnēskei neos), citazione poi ripresa da Leopardi (epigrafe del suo Amore e morte «muor giovane colui ch’al cielo è caro»).
Nel libro di Marco Santagata “Come donna innamorata” che è una biografia romanzata di Dante, si ipotizza che la sofferenza possa essere una forma di elezione divina e la interpreta così l’Alighieri nella finzione letteraria durante tutte le sue tribolazioni terrene. Ancora una volta non ci vedo nulla di male in un concetto del genere. Mi sembra tra l’altro che il popolo eletto sia stato il più perseguitato nella storia dell’umanità.
Durante una messa per un uomo ucciso da un pirata della strada, la famiglia ha chiesto di pregare per l’assassino del proprio caro. In quell’occasione mia mamma ha discusso con un’amica di famiglia che sosteneva come fosse falsa tutta quella misericordia. Ma perché dico io? A me sembrò invece una testimonianza molto cristiana che riecheggiava quel “perdona loro perché non sanno quello che fanno”. Per concludere, voglio solo dire che secondo me il problema vero al giorno d’oggi sono quelli che la croce la vogliono eliminare non per un ottimismo ingenuo e facilone, ma perché, togliendo il peccato e la necessità di pentimento, non sono più in grado di spiegarla teologicamente e su questo mise in guardia una mente illuminata come Ratzinger in un discorso famoso.