Infelici e contenti, sull’arte di rovinarsi la vita

di Costanza Miriano

Sono certa che il Signor Nerosfina mi abbia regalato il suo libro – Infelici e contenti, Sull’arte di rovinarsi la vita – non perché mi stimi e gli faccia piacere che io lo legga, ma perché, è evidentissimo, pensa che sono grassa e che debba vestirmi di nero per sfinarmi, per sembrare più magra, ciò che evidentemente sarà impossibile, dal momento che quando mi ha dato il volumetto ero appunto vestita di nero: si vede che questo accorgimento non è stato sufficiente. Ciò spiega perché io sia rimasta praticamente l’ultima al mondo a non avere letto il suo libro: perché non ne ho nessun bisogno. Riesco già da sola a produrre pensieri autogenerantisi dal nulla, stupidi e negativi, in grado di rovinarmi l’umore senza ragione, per quanto le vette della perfezione a cui porta questo libro sono per me ancora da raggiungere.

Si tratta infatti di un preziosissimo manualetto che dà un decisivo aiuto a chi, come forse fa la maggior parte di noi, vivacchia in uno stato di infelicità media, ma vuole passare a un livello avanzato. Spiega come si può agire, con metodo, sui pensieri e i desideri, sulle azioni, sulle relazioni, sulla capacità di riflettere.

Ha un difetto, fa molto ridere. Ma proprio molto. E questo per uno che cerca di perfezionarsi sulla strada dell’infelicità è un serio problema. Sconsiglio per esempio la lettura del capitolo V, sui greatest hits del pensiero negativo. Ieri in aereo ho sghignazzato senza ritegno, leggendo l’elenco dei pensieri negativi che l’autore consiglia di raccogliere su un taccuino rigorosamente nero. Per esempio: “Data: 12 luglio 2016. Luogo: Ufficio. Autore: mio padre (non presente in ufficio anche perché defunto da alcuni anni). Offesa: il nuovo collega mi piaceva e volevo parlarci, ma per timidezza non ce l’ho fatta. L’ho visto più tardi chiacchierare allegramente con un’altra collega più disinvolta di me”. Dove si intende che l’autore dell’offesa è il padre morto perché responsabile della timidezza, per quella volta che portò la bimba di tre anni a sciare sulla nera e lei aveva paura. (Noto sommessamente ancora due richiami al nero: il taccuino e la pista da sci, mi pare chiaro che l’autore mi stia dicendo qualcosa, proprio a me, e di sicuro non è una cosa bella).

Sconsiglio caldamente anche il capitolo sul water, luogo di meditazione, calma e solitudine (nemiche dell’infelicità) e quindi oggi provvidenzialmente reso innocuo dall’esistenza della wi fi, mentre sono vietatissimi agli aspiranti infelici gli esilaranti esercizi per iniziare: si comincia scegliendo un amico – o il marito o la moglie, o la mamma, aggiungo io – come personal demotivator, segue una lunga lista di comportamenti vietati a chi vuole essere seriamente, professionalmente, stabilmente infelice: cantare, soprattutto sotto la doccia, fingere di essere direttore di orchestra, le gare di cucina; tra i comportamenti consigliati, invece, cercare su google sintomi comuni e cominciare a leggere le prime cinque patologie trovate, leggere sempre l’oroscopo. Altre perle di saggezza potranno aiutarci sicuramente. Una per tutte: se non puoi googlare la domanda, non fartela.

Per correttezza professionale – sarei pur sempre una giornalista, in fondo – devo svelare che l’autore, che veste sempre di nero, partecipa a molti funerali e pochi matrimoni, a dire il vero sembra non essersi mai impegnato seriamente a seguire i consigli che qui dispensa, perché ha una faccia bellissima e felicissima, di chi ha capito il segreto della vita. Credo che abbia a che fare con la sua scelta esistenziale, e con la citazione di Manzoni che chiude l’ultimo capitolo: “si dovrebbe pensare più a far bene che a star bene, e così si finirebbe anche a star meglio”.

 

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