Accompagnare e imparare

224424_cure_ralfL’età anziana è anche l’età in cui accompagnare nella malattia   prima di essere a nostra volta accompagnati, come da questa testimonianza che un amico mi ha inviato e che col suo permesso, vi invio. 

Innocenza Laguri

***

Carla, mia sorella, era ammalata di Alzheimer da alcuni anni ma da tre stava in poltrona o a letto e più il tempo passava, meno riconosceva e capiva. Ogni mercoledì, prima di prendere il treno per Milano, dove lavoro, l’andavo a trovare. In macchina, mentre percorrevo il tratto di strada da Giussano a Capriano, pensando a lei così immobile e sofferente, volevo esser degno di stare con lei. Quante volte dopo esser stato un po’ in sua compagnia e averla salutata, mentre mi recavo al treno a Carugo, più che la soddisfazione di una visita fatta, mi prendeva una strana amarezza.

Perché per molti altri incontri che avvenivano in giornata questa esigenza d’esser degno non raggiungeva questa intensità?

Bambino, mi avevano colpito le parole di Gesù: ero malato e mi avete visitato.

Mentre ero in macchina e mi avvicinavo a casa sua, queste parole così semplici e così belle risuonavano, con certa trepidazione, nel mio cuore. Era una cosa così piccola quella che mi apprestavo a fare, una breve visita, ma le parole di Gesù le davan valore, un valore inaspettato: allora chiedevo a lui, che di queste cose se ne intende, di farmi degno.

E così la salutavo e le parlavo. I primi tempi, Alberto, suo marito, sentendomi raccontare tante cose, mi ricordava che Carla non capiva ed era un po’ inutile quel raccontare. Io, incurante, le parlavo dei ragazzi che venivano a Portofranco per essere aiutati  nello studio: Lina, una ragazza etiope, occhi sgranati, Olga, una ragazza moldava, troppo impegnata, Giacomo, un ragazzo milanese speciale, Arze, albanese, affettuosa e le raccontavo dei volontari che gratuitamente, con dedizione, si applicavano a spiegar loro quanto non capivano.

A volte lei diceva due, tre parole e poi si fermava, si impappinava e le parole diventavano mormorio incomprensibile ed io: cosa vuoi dire? Allora concludevo io la sua frase, iniziata una infinità di volte, dandole un senso. Ma a lei non interessavano le mie conclusioni che non capiva. Forse più importante era  che io fossi lì. A fare che? Niente. Quanto è importante esser lì a far niente, quando quel niente è riverbero di un amore. Le ricordavo quando in casa, la sera, in latino, sotto la direzione decisa della mamma dicevamo il rosario e la mattina, nel grande atrio, risuonavano le preghiere con cui cominciava la giornata e tante altre cose anche ridicole o divertenti della nostra infanzia. Quella volta che il papà, tornato da Milano, come sempre con un grande appetito, mi manda dal Pepinu, il nostro salumiere, a comprare un etto di crudo ed io torno con una scopa!

E qualche volta, mentre eran con me Viola o Anna, le due signore polacche che la servivan  con tanta cura, dicevo lentamente, in latino, l’Ave Maria perché mi sembrava che così potesse ricordarla e desideravo che quelle belle cose scendessero come un balsamo nel suo cuore e sul suo  corpo. ” Prega per noi peccatori, adesso”…quell’adesso lo ripetevo più volte, perché, mentre  ero lì con lei, io potessi riconoscerlo presente sul suo volto, spesso vuoto e smarrito e in quegli occhi, a volte impauriti, altre volte, invece, guardavan con una intensità struggente quasi a implorare aiuto e  incontravano in me, solo un silenzio impotente. Al senso di impotenza che spesso mi prendeva, rispondeva solo l’accettazione della vita che è dono, sempre. E bisogna aver ripetuto e ripetere ogni giorno le parole del “ Ti adoro” “ conservato in questa notte” per ritrovare, appena svegli, la sorpresa dell’esserci nuovamente, altrimenti tutto è solamente un peso.  Quando poi dicevo: “ e benedetto il frutto del ventre tuo Gesù “, allora potevo riconoscere, con sollievo, che il senso di tutto è dato in quel bambino e che la sofferenza non è inutile. Quel sollievo che non toglie l’asprezza della vita  che Dio abbraccia.

Avevo  imparato ad accarezzare il suo volto e non era un mio gesto abituale. Quante volte le scorrevan le lacrime sul viso mentre la accarezzavo. Volevano esser carezze d’amore. Ecco perché io domandavo spesso a Gesù che riempisse del suo calore i miei gesti, le mie parole e il mio sguardo che invece spesso eran vuoti e forse l’amarezza che a volte mi afferrava era per questa mancanza di affetto cristiano. Le carezze  son tenerezza e la tenerezza un po’ si può imparare guardando quelli che la vivono. I malati e i bambini in particolare un po’ la  facilitano, poi il desiderio e la nostalgia di essa ci spingono a chiederla in dono e a coltivarla.

Ecco perché è necessario fissare lo sguardo su chi sa amare e non perde tempo inutilmente. E mi venivano in mente, mentre ero in macchina, le vite di San Camillo de Lellis, di don Orione, di Santa Teresa di Calcutta e una schiera infinita di uomini e di donne semplici  che negli ospedali, negli ospizi, nelle case, lungo i secoli e oggi, servono e amano con ardore.

A volte tra fratelli e parenti si diceva, un po’ sottovoce, che quella malattia non ci voleva e che tutto era senza senso. Certo noi non scegliamo la malattia e la sofferenza, ma chi è malato e soffre, dopo le parole di Gesù:”ero malato e mi avete visitato”, è sacro ed io, con la Carla, un po’ l’ho imparato.

Accettare e amare ciò che è dato, in qual forma è dato. Come è difficile accettare che Dio, anche attraverso questa forma, si manifesti. Come è facile la tentazione di rifiutare e di girarsi dall’altra parte. Però, chiedere aiuto per amare, è forse più facile: riconoscere in noi una incapacità ad amare, soprattutto in queste circostanze e chiedere aiuto a chi se ne intende e può rispondere, è l’unico modo per sfuggire alla trappola della assurdità e del non senso.

Ancor oggi nella mia mente ci sono i volti e le storie di amici che per un decennio o per anni hanno curato padri e madri o figli sacrificandosi e quando li incontravo mi colpiva che non c’erano lamenti, eran affaticati ma sereni e grati a Dio per l’aiuto ricevuto.  Portavan un così grave peso che mi sembrava  dovesse schiacciarli, invece eran più leggeri di me. Non riuscivo molto a capire queste cose, ma eran sotto i miei occhi.

Accogliere e amare, due cose che Gesù faceva bene, due cose che seguendo Gesù si possono imparare, due cose, pensando alle mie visite alla Carla, che non sempre ho vissuto in modo autentico e l’amaro che me ne veniva ne era un segno, benefico, una medicina, perché, in qualche modo, mi costringeva a invocare aiuto a chi può donarlo oggi. Quelle parole: ero malato…non son più astratte o favole, perché han reso la nostra povera e piccola volontà di compagnia un po’ più ardente. Che bello constatare a volte che il tuo cuore è un riverbero del cuore vibrante d’amore di Gesù e ringraziare di questo dono.

Quando è venuto il vecchio don Gino per l’estrema unzione eravamo tristi e contenti perché è stato più evidente, pregando insieme, che la Sua presenza non è nemica della felicità ma realizza il nostro desiderio di felicità, soprattutto quello di Carla che, in una forma misteriosa, si compiva in quei giorni.

Proprio negli ultimi giorni, mentre eravamo attorno al suo letto, una mia sorella diceva alla Carla, ormai del tutto assente, che in Paradiso, dove era attesa, doveva preparare, anche per lei, un posto. Fu la parola più bella di quei giorni perché ci ricordava che il destino ultimo della nostra cara sorella Carla era il Paradiso e non la morte che stava arrivando.

Quella parola, così familiare ai nostri vecchi e che arrecava loro sollievo, perché evocava la dolce compagnia di Gesù, ritornava a splendere anche tra noi quei giorni e se ne parlava con semplicità ai bambini presenti che credono alle promesse di Dio. Per noi adulti c’è solo da sperare che il fascino e la gioia del Paradiso, Gesù presente tra noi, riapra quella partita che Carla ha giocato fino in fondo vittoriosamente, come Gesù sulla croce.

Qual paradosso ci si è mostrato in questi anni di malattia di Carla: se Gesù al massimo della debolezza, sulla croce, aprendo le porte del Paradiso al buon ladrone, ha mostrato al mondo che il miracolo è uno sguardo d’amore, Carla, senza saperlo e volerlo ci ha sospinti ad amarla e a guardarla come Gesù guarda ed ama.  Nessuno aveva scelto quella forma di vita, dovevamo però scegliere di accoglierla e amarla. Se abbiamo imparato e vissuto un po’ di più lo sguardo di amore di Gesù, un po’ lo dobbiamo anche a lei e questo è il tesoro più bello che Carla, che non poteva fare niente e parlare, ci ha regalato.

Senza che lei lo volesse ci è stata affidata perché la amassimo. Non è questa la cosa grande per cui siam fatti e che inconsapevolmente ci ha ricordato e ci ha invitati a fare? Non si riempie di senso e di gioia la nostra vita quando amiamo veramente? E se siamo ancora incapaci non è a nostra portata guardare e imparare da chi lo fa? Siamo fortunati perché circondati da molte persone che vogliono vivere intensamente e amare.

Il tempo che Carla è rimasta con noi ammalata è stato una scuola fruttuosa e impegnativa per chi l’ha accompagnata, per i suoi in particolare, perché ci ha fatto capire dove sta il colore vero della vita.

Preghiamo Dio per lei e che ci aiuti a giocare fino in fondo la partita in cui ci ha coinvolti, suo malgrado, durante la malattia e oggi ,facendo il tifo di lassù.

 

Giovanni

3 pensieri su “Accompagnare e imparare

  1. francesca

    Bellissima riflessione!Sottoscrivo in pieno.Spero che anch’io,se un giorno dovesse capitarmi una malattia del genere,possa trovare nei miei cari un accompagnamento simile…

  2. lele

    E’ evidente che non abbiamo molte alternative alla morte o alla malattia.
    Ma datemi un’alternativa e a quel punto si vedra’ se le religioni reggono o meno.

    Il problema di Giobbe resta irrisolto.

I commenti sono chiusi.