Il pentimento

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di Andrea Torquato Giovanoli
Anni fa mi capitò una commessa per un anello da fare intorno ad uno smeraldo di proprietà del cliente: una pietra molto bella, seppure non grossa, ma di un verde intenso che la rendeva davvero preziosa. L’anello era il regalo di anniversario che questo cliente, (che era anche un conoscente) voleva fare alla moglie e la pietra era il souvenir di una loro vacanza insieme.
Io feci l’anello, ma in quel frangente ero tanto oberato di lavoro che mi ritrovai in prossimità della scadenza datami con ancora la pietra da incastonare.
Feci presto due calcoli e mi resi conto che se avessi portato il lavoro all’incastonatore (come si fa ordinariamente) avrei consegnato l’anello in ritardo per il giorno dell’anniversario di quella coppia di conoscenti, così, visto anche che il tipo di incassatura era abbastanza semplice, mi risolsi a provare ad incastonare io stesso la pietra nell’anello.
Lo smeraldo è però una gemma piuttosto fragile, che persino gli incastonatori esperti incassano con una certa apprensione, quindi nel prendere la decisione di accollarmi un lavoro specifico che non mi è proprio, mi assunsi con riluttanza, ma costretto dalle circostanze, la responsabilità di un grosso rischio.
È che davvero ci tenevo tanto a non deludere quel cliente, permettendogli, col mio lavoro, di poter festeggiare con quell’originale sorpresa a sua moglie il suo anniversario di matrimonio.
Fattostà che mi misi ad incastonare lo smeraldo nell’anello: con leggeri ed accurati colpi di martelletto ribadii il metallo del castone, debitamente preparato in precedenza, sui bordi della pietra, stando ben attento a non toccare direttamente la gemma.
Sudai freddo per tutto il tempo dell’operazione, fino a quando la conclusi con successo, soddisfatto.
Quando però diedi un’ultima occhiata con il lentino d’ingrandimento al lavoro fatto, notai una leggera imperfezione nella ribattitura del metallo su uno dei bordi della pietra, e volendo fare un lavoro ad arte (ma patendo soprattutto un temperamento precisino e generalmente intollerante all’approssimazione), volli dare un ultimo colpo di martelletto.
Colpo che, nemmanco a dirlo, mi fu fatale.
Per quanto l’urto fu leggero, toccai uno spigolino di una delle facce dello smeraldo e questo, inesorabile come la ghigliottina per il re di Francia, si scheggiò.
Fu il disastro.
Dapprima ci fu l’incredulità, esclamata in una serie di negazioni ripetute a gran voce mentre fissavo il lavoro irrimediabilmente rovinato con occhi spalancati e le mani nei capelli.
Quindi ci fu la presa di coscienza della realtà: la pietra era rotta, il lavoro non poteva essere consegnato, il cliente sarebbe stato deluso, la sua festa rovinata, la commissione non solo non sarebbe stata saldata, ma mi avrebbe causato un esborso per ripagare il danno fatto, e così via in un turbinare di lugubre conseguenze che mentre mi si affacciavano al pensiero mi trascinavano in un gorgo di nera disperazione.
Poi un momento di ritrovata lucidità, che lasciò lo spazio necessario ad una flebile speranza: si vedeva poi tanto il danno? Forse il cliente non se ne sarebbe accorto: d’altronde io avevo visto la scheggiatura con la lente d’ingrandimento…
Era la negazione, che apparecchiava il posto a subentranti tentazioni.
Però, guardando l’oggetto ad occhio nudo ed alla luce naturale, constatai che il danno si vedeva eccome: perciò fui rappreso ancora (e se possibile con maggior violenza) alla realtà e così fu il panico.
L’ansia e lo smarrimento di non saper come affrontare le conseguenze di quella situazione, e la voglia di fuggire dalle proprie responsabilità, gettando tutto alle ortiche e facendo finta che nulla fosse accaduto.
Ma non si poteva fare, e lo sapevo.
Quindi montò la rabbia. All’inizio contro il destino avverso, che nulla c’entrava, ma sembrava più facile dare la colpa alla sorte, piuttosto che assumerla nella verità come esclusivamente propria. Poi fu l’ira, ed ira furente, con me stesso, per la mia dabbenaggine, per un lavoro che sapevo che andava lasciato fare a chi sapeva farlo davvero, per la mia mania di perfezionismo, per quel mio ultimo, non necessario, maldestro colpo di martello.
E questo mi portò fin sulla soglia di un pianto sommesso e digrignato, a gemiti di sconforto e rincrescimento: per l’ineluttabilità di un tempo che non può essere riavvolto, per gesti definitivi che non possono essere ripresi e corretti.
Mi condusse persino a moti di autolesionismo: mi presi a schiaffi per lenire il senso di colpa che m’invadeva, capocciai ripetutamente il muro per punire il mio errore.
Infine fu la catarsi: presi risolutezza delle mie responsabilità con la ferma decisione di porre riparo come meglio avrei potuto al danno, mi rassegnai ad accogliere tutte le conseguenze che sarebbero accorse, incominciando proprio dall’affrontare il cliente con contrizione, disponibilità e proponimento di un’eventuale, possibile, riparazione.

Ecco: questa è la dinamica del pentimento.
Quella volontà risoluta, capace di stare davanti alla realtà dei propri sbagli nel riconoscimento del danno fatto e con la ferma intenzione di riparare: costi quel che costi.
È il crogiolo bollente della contrizione del cuore: l’angoscia tremenda che ti tormenta l’anima per ciò che hai commesso, per la gravità che attribuisci alle tue colpe, per il rammarico che ne provi, ma soprattutto per l’inesorabilità che si deve riconoscere al tempo, per il quale non si può tornare indietro e correggere i propri errori, ma se ne deve sopportare le conseguenze, per quanto gravi esse siano.
È il dolore intimo, morale, che per la sua intensità ha un riverbero anche fisico, capace di esprimersi corporalmente nel pianto, nel tremito, nella sudorazione innaturale, in uno stato costante di irrequietezza: un’altalena di stati d’animo dovuti ad un profondo senso di colpa che ti sopraffanno financo con una spontanea tensione a farti del male.
È il riconoscimento di ritrovarsi causa di un guaio serio, per il quale si perde o si distrugge qualcosa di veramente prezioso per se stessi, e davanti alla definitività delle circostanze sorprendersi quasi a desiderare una punizione per la colpa commessa, cosicché la si possa espiare, e che dà un senso a tutta quella gestualità rituale che accompagna il pentimento dell’uomo nella tradizione, come il battersi il petto, il digiunare, il cospargersi il capo di cenere o il radersi a zero, il vestirsi di stracci o lo strisciare sulle ginocchia, fino al percuotersi con funicelle o ad indossare il cilicio. Ed ognuno di tali comportamenti non è affatto segno di masochismo, ma espressione corporale del dolore morale che si prova.
Sono, invero, “penitenza”.

leggi anche il primo capitolo della trilogia Il Peccato

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33 pensieri su “Il pentimento

  1. ….una cosa è la colpa, un’altra il senso di colpa. I Cattolici sono stati ,e sono ancora, per sua natura stessa intrinseca, tra i più grandi spruzzatori di senso di colpa fin dove potevano

  2. Ecco, ringrazio perché finalmente riesco a capire fino in fondo la differenza tra pentimento (cuore contrito) e senso di colpa. Il danno commesso, l’assumersi la responsabilità delle azioni compiute e la ferma volontà di voler riparare al danno.
    Mantengo però ancora qualche riserva sull’autopunizione: “percuotersi con funicelle o ad indossare il cilicio”. L’espiazione della colpa ti viene data da un altro (il prezzo della pietra danneggiata e persa è stato deciso dal cliente, no?). Questo, per quanto ne so, avviene nella confessione e da quando sono al mondo e vado a confessarmi nessun sacerdote, mai, mi ha dato come penitenza per i miei peccati l’uso del cilicio o le funicelle, solamente preghiere, solo preghiere. Forse questo vuol dire qualcosa, no?

  3. Una cosa è il senso di colpa, che non è proprio del Cristianesimo, visto che non porta da nessuna parte (vedi il senso di colpa di Giuda a cosa lo ha portato), una cosa è il senso del peccato, che ci rende consapevoli dei nostri errori, delle nostre mancanze e ci sprona al pentimento e (per quanto possibile, visto che certi danni non si aggiustano così facilmente) alla riparazione.

    1. Thelonious

      A parte che il senso di colpa da sé non è affatto pentimento, perchè se esasperato può portare alla disperazione, mentre il pentimento porta alla speranza del perdono (condivido in toto la risposta di Gabriele). Però in generale anche questi sentimenti bollati come negativi (la vergogna, il senso di colpa, ecc..) fanno parte della condizione umana e vanno incanalati, ma non eliminati. Un bambino che crescesse senza vergognarsi di nulla e senza mai provare senso di colpa per ciò che ha fatto di sbagliato diventerebbe solo un adulto privo di scrupoli e capace di giustificare qualunque cosa.
      Tornando al paragone di Giuda, va anche tenuto conto che la sua disperazione è stata giocata in solitudine, mentre il triplice rinnegamento di Pietro è stato lavato dal pentimento di fronte alla presenza di Cristo. Questa è una differenza fondamentale: la Presenza o la solitudine. Ed è fondamentale che la triplice domanda di Cristo a Pietro (“mi ami tu?”) centra il perdono sull’amore, non sulla perfezione morale, né sul rivangare la colpa. Il punto di partenza è sempre l’amore, mai l’analisi della colpa. La perfezione morale non è mai lo scopo della vita del cristiano: ne è, semmai, l’esito (con l’aiuto della Grazia).

    1. Cavaliere di San Michele

      Continui a parlarne come se fossero la stessa cosa. Ma non lo sono, a partire dal Vangelo (senso di colpa: Giuda; senso del peccato: Pietro), giù per tutta la storia della Chiesa, arte compresa.

      Guardati, o riguardati, Mission, ad esempio.

  4. Allora forse non è chiara la differenza. E’ chiaro che un bambino non deve essere colpevolizzato per quello che ha fatto (senso di colpa) ma deve essere aiutato a capire dove ha sbagliato e come evitare di sbagliare di nuovo (senso del peccato/mancanza). O è meglio mettere (o far mettere) la testa sotto terra come gli struzzi?
    Proprio nel Vangelo di ieri si parlava di correzione fraterna.

    1. Per chiarire ancora meglio, si potrebbe opporre al senso di colpa (con tutto ciò che ha di diffidente, disperante, odiator di sé, imprudente, debole, ingiusto, intemperante) il senso di responsabilità. Quello di chi riconosce la natura, portata e conseguenze dei propri atti e ne prende su di sé il peso, perché sa di aver davanti un Giudice misericordioso oltre che giusto.

      1. Giustissimo, questo è il salto che fa (o dovrebbe fare) chi crede, affrontare le proprie mancanze (in senso ampio) con la certezza di avere vicino Qualcuno che ti ama, ti perdona e ti è vicino nel cammino di perfezione!

      1. Caro Andrea, da padre di una bimba di 3 anni, penso che acquisterò il tuo nuovo libro. Approfitto per ringraziarti di aver condiviso le tue esperienze di vita, raccontate anche alla luce della propria fede, utili al cammino di altri. Per fortuna in questo viaggio non siamo soli, anzi possiamo aiutarci e confrontarci l’un l’altro (direi che anzi è indispensabile e che diversamente si arriverebbe ben poco lontano).

        Gabriele

    1. OT sconsolato
      Dall’articolo sul sinodo: «Al Sinodo sulla famiglia ci saranno uditrici donne?»
      Attendo di capire come sono fatte le uditrici uomo…

    1. Thelonious

      E’ cosa terribile anche citare la Scrittura senza comprenderne il senso. Scusa se mi permetto, ma il cristianesimo non è la religione del libro (ossia della Bibbia), ma dell’avvenimento. Il cristianesimo è l’avvenimento vivo e presente di Cristo risorto, e il rapporto vivo con Lui, attraverso il sacramento della Chiesa. La Chiesa, a sua volta, è il corpo mistico di Cristo, ed è un corpo vivente perciò. All’interno di questo Corpo vivente la lettura della Bibbia prende senso in relazione all’avvenimento di Cristo. Ma fuori dal rapporto con Cristo vivo, e svincolati dal Corpo Vivente che è la Chiesa con la Scrittura si può far dire anche l’opposto di ciò che essa intende.

        1. Thelonious

          Non fare il permaloso. Puoi citare quello che vuoi, dalla Bibbia a Mike Bongiorno, se ti fa piacere.
          Però, magari, sarebbe interessante capire quale sia il nesso di quella citazione con l’argomento trattato.

  5. “È il riconoscimento di ritrovarsi causa di un guaio serio (…) e davanti alla definitività delle circostanze sorprendersi quasi a desiderare una punizione per la colpa commessa, cosicché la si possa espiare, e che dà un senso a tutta quella gestualità rituale che accompagna il pentimento dell’uomo nella tradizione, (…)” come “espressione corporale del dolore morale che si prova.”
    Quest’espressione corporale del dolore che si prova non è affatto prerogativa dei cattolici “grandi spruzzatori di senso di colpa”, come dice filosofiazzero, esistono nell’uomo da quando lo intendiamo uomo e non bestia. Ogni cultura primitiva che si ha notizie ha fatto sacrifici, immolato agnelli, primizie per cercare di placcare quel senso di mancanza che è nell’umo, nel suo intimo.
    A ben vedere, il cristianesimo è la religione che ha tolto questo peso, perché comprende che l’agnello definitivo è stato già immolato, possiamo solo renderci partecipi, se vogliamo e nella misura che possiamo, di questo sacrificio compiuto per noi e al posto nostro.
    Questa consapevolezza ci toglie il peso e non aggiunge.

  6. ….il senso di colpa tardo antico (e fino a noi?) è tutt’altra cosa che le paure dei morti e delle contaminazioni e delle trasgressioni sacre e delle profanazioni e del terrore e ricerca del favore degli dei nei popoli primitivi. Ma qui il discorso si farebbe troppo lungo e nessuno di noi (Alessandro o Andreas Hofer o Thibon a parte) è forse in grado di portarlo avanti.

    1. Cara Antonella, il cliente è stato molto comprensivo, soprattutto perché gli ho detto la verità. Tuttavia vedere la sua faccia rammaricata mentre osservava la pietra danneggiata è stato come ricevere una coltellata nel petto: davvero vedere direttamente il dolore che la nostra colpa causa agli altri muove alla com-passione e richiama fortemente alla conversione (e così capisci un pochino di più perché è l’Amore crocifisso che realmente ti salva)… 😉

      1. Antonella

        Anche nel mio lavoro non posso “tornare indietro” e la tentazione di camuffare l’errore c’è sempre. Ma viene sempre dopo questo rammarico per non aver fatto una cosa bella.. Da noi si esclama “mannaggia’! Il passo successivo, quello della conversione, diciamo che ci sto lavorando. Grazie per il bell’articolo.

  7. guido

    Scusate il mio intervento fuori dalle righe (e dallo spessore della conversazione): ma comìè finita? Come l’ha presa il cliente?

    1. Caro Guido, alla fine m’é andata bene: ho proposto al cliente di far ritagliare la sua pietra (facendole ridare la forma originaria, ma perdendo un pochino di materiale) e di dargli l’anello gratis ed ha accettato. L’unico mio cruccio è che gli ho consegnato il tutto molto in ritardo rispetto alla data del suo anniversario di matrimonio (così la moglie s’é beccata due regali 😉 )…

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