Qualcosa di diverso

Manghi Qualcosa di diverso

di Paolo Pugni

Tutte le famiglie infelici sono infelici nel medesimo modo. Ogni famiglia felice è felice a modo suo. E se cercavo un pretesto per poterlo affermare non da solo così come un bell’aforisma monco, ma connesso a qualche cosa che lo meritasse davvero, ecco qua come cacio sui maccheroni il secondo libro di Marcella Manghi Catania, Qualcosa di diverso (edizioni Ares), raccontato anche qui, che ci dispiega come la vita sia davvero un romanzo, specie quando non ha colpi di scena e tragedie. Che quelle le lasciamo alla letteratura d’autore.  

Intendiamoci, non che Marcella non sia da annoverare tra quelli che scrivono bene, tutt’altro, che qui l’ironia è sparsa a piene mani, e già questo me la fa apprezzare molto, ma perché non vuole parlare alla commissione del Nobel la Manghi, ma ad ognuno di noi.

Perché è proprio vero che ogni singola vita è un romanzo, ma non nel senso che è piena di adrenalina e di vene spezzate, ma perché c’è in filigrana quel senso che la rende degna di essere ascoltata, di essere presa a esempio, di essere affissa ad un cartellone perché ci parli e chi aiuti in fin dei conti a capire la nostra vita e il suo senso. Che poi per tutti ha le medesime radici.

Questa qui è una storia semplice, come quelle che raccontano Costanza e Andrea Torquato, fatte di cose apparentemente banali, ma che sono tali solo per coloro che si fermano sulla soglia dell’esistenza, s’accontentano della carta della caramella, convinti come sono che bastano quei colori, o la luce del cielo screziato a renderli felici, e non fanno il passo, non scartano il dono della vita per gustarla da dentro, fino in fondo.

Per Marcella questo gusto sa di minestroni di broccoli che continuano a bollire (la inviterò con le parole di Franz ad Ale: “basta pensare al passato!”) sa di Chanel nr. 5, sa di pannolini, sa di autogrill, di the e del silenzio del capo di buona Speranza –nome che può essersi casualmente introdotto nella vita di Marcella e Pietro, forse ma non per coincidenza, piuttosto come direbbe un amico mio sacerdote per Dioncidenza…- sa insomma delle piccole cose che punteggiano una vita da non lasciare lì come fosse un gioco, perché non vale affatto poco.

Ecco, questo libro, che si manda giù come fosse un’orzata gelata in una giornata di sole torrida e afosa, non fa che raccontare la storia di un amore, dalla nascita ad oggi, e che andrà avanti fino all’eternità lo sappiamo già. E lo fa guardandolo da dentro, con l’occhio di chi non si spaventa nel mostrare gli spigoli e le paure, i lati buffi quelli romantici, la passione e il dolore. Ma c’è un filo che conduce ancora più in là e che si rannoda a quanto Costanza va spiegando dal momento in cui il suo primo libro ha visto la luce.

E… no, non è il fatto che a pagina 177, all’interno di una lettera che l’autrice scrive all’amica Chiara, usa nello spazio di cinque righe in sequenza espressioni come “mi sono sottomessa a lui” non è però una “sottomissione in accezione negativa” ma piuttosto “mi sono messa sotto”, che se fossi in Costanza una accusa di plagio la prenderei in esame, -ma poi no perché il messa sotto di Marcella ha una sfumatura diversa che dice “messa sotto come chi in una giornata di pioggia intensa si stringe forte a colui che sorregge l’ombrello e tiene riparati entrambi” e che quindi è pronto a morire per lei.

Quanto perché ti spiega come l’amore non è il coronamento della ricerca del Principeazzurro, l’uomo perfetto disegnato dai secoli dei secoli per te e che lo scontro di miliardi di molecole rende possibile con una precisione che qualche volta però fa cilecca; no, non è così: il principe azzurro –e Biancaneve si intende, per par conditio e per evitare l’accusa di sessismo- te lo costruisci giorno dopo giorno, salendo e scendendo la scala del letto, inseguendo i suoi sogni che magari son troppo fumosi per abbattere la nebbia; te lo modelli sorridendo all’irritazione dovuta alla dieta da carcerato, te lo avvicini lasciandolo andare a cercare il suo posto. E te lo fai tuo, a tua misura, cambiando tu, rinunciando.

Perché per vincere bisogna lasciar perdere, specie in amore, che è una storia e non una emozione.

C’è un effetto collaterale alla lettura, consigliabilissima e capace di donarti una prospettiva in più, da affiancare a quella di Costanza, che qui è una sola storia ma in dettaglio, è che quando chiudi l’ultima pagina ti resta un po’ il senso di aver curiosato nella vita di due amici, un po’ troppo da vicino, come se li guardassi da dietro lo specchio degli interrogatori dei serial americani. Vorrà dire che per farci perdonare da loro, ci toccherà invitarli a cena, stando attenti a che cosa cucinare e a che vino proporre….

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