Lavorare nella Luce

di Paolo Pugni

Che poi l’arte spieghi la vita, quando è arte con la A maiuscola, non quella pseudo, che confonde l’interpretazione con lo sgorbio, il pasticcio, ecco non quella lì, ma quella che interpreta il vero, lo si capisce facile. No dico, davvero: quando rinuncia alla presunzione di creare il mondo, e il bene e il male, e cerca di leggere la trama, il sottofondo, allora sì che dice con un linguaggio che non ha bisogno di parole.

Perché la tragedia delle virtù è che ognuna di loro trascina due vizi: uno per eccesso ed uno per difetto. E il lavoro non fa eccezione.

Che è di questo che voglio parlare, del lavoro e della vocazione e chiarire alcune cosette che sono necessarie: primo che lavoro è occupazione, opera, non necessariamente retribuita, sennò la casalinga, il volontario, lo studente ce li perdiamo. E sarebbe un peccato, in senso letterale.

L’eccesso è ormai più raro come vizio, sembra si sia perso nei thriller di Grisham, quegli avvocati che dormono sulla scrivania perché ogni minuto sia fatturabile. L’eccesso è il fine: lavorare per il gusto di, perché la piramide di Maslow implode sull’affermazione, di un sé così debole che deve disperdersi in un titolo, una carica, un occupazione. Droga, workaholic la chiamano gli americani, una percezione che lì, in quel potere dato dalla tecnica, dalla competenza, si esaurisca tutto l’orizzonte, il cielo si ripieghi e ne finisca aspirato. Risucchiato.

E malattia dei vecchi, dei milanesi, quelli che quando escono alle otto di sera il capo li apostrofa: “prendi mezza giornata di ferie oggi?” che ti verrebbe da mandarlo a ciapa’ i ratt. E chiedergli se lui non tiene famiglia. Ma è inutile, perché no, non la tiene famiglia. Non nel senso di Costanza.

Il difetto è il mezzo, ma per un fine monco, troncato, sbiellato. E colpisce più questa generazione orfana di genitori, che siamo noi, che siano riusciti a trasferire un senso, un indirizzo, un nome, come canta Vecchioni più o meno. Generazione non solo digitale, ma accecata dal pensiero, anzi dalla convinzione, che il lavoro s’a da fare per sfangare la grana, quella che permette lo sballo della vita vera, della vita oltre. Oltre? Oltre! In tutti i sensi. Con tutti i sensi. Sensuale appunto. Immediata. Delle passioni, emozioni che qui c’è il vivere vero.

E il lavoro allora è veramente castigo, come falsamente si crede sia la pena ereditata da Adamo.

E invece no, c’è l’arte a raccontarcelo, che il lavoro è altro: è creazione. Compartecipazione alla creazione del mondo, compito che Dio affidò ad Adamo prima della vicenda del serpente: ut operaretur. Il mondo perché tu lo lavori, lo trasformi, con il tuo genio.

Il lavoro è offerta, e per questo deve essere perfetta, come la scatola di cioccolatini che regali, sì come Forrest, che non devono essere scaduti. Un lavoro svolto con perfezione umana elevato a Dio sull’altare della propria scrivania, del proprio tornio, del proprio camion, della propria cattedra. E’ tutto qui.

Il lavoro è vocazione, nel senso che chiama ad un senso alto, divino. E nel fare le mie piccole cose -fotocopiare, pinzare, sbucciare le patate, guidare nel traffico, tenere una lezione, scrivere un articolo, montare un servizio, preparare un post, leggere un post, stendere un commento- nel fare ogni piccola cosa ci devo mettere tutto me stesso, perché in quella perfezione, che posso raggiungere, c’è la mia offerta a Dio, un Dio che restituisce con gli interessi quel dono, riversando grazie su chi ne ha bisogno, magari ascoltando la mia raccomandazione.

Allora ogni lavoro onesto è divino, anzi santificabile; di più: mezzo di santificazione. Come scriveva san JoséMaria, del quale sono figlio spirituale: santificare il lavoro, santificarsi con il lavoro, santificare gli altri con il lavoro.

E se non mi piace quello che faccio? Beh intanto cominciamo a farlo bene, e poi si vedrà: l’alibi della passione non regge. Non è scusa per l’offerta di Caino, che poi si sa come possono andare a finire le cose.

E l’arte lo dice tutto senza l’imperfezione delle mie parole, e la fragilità del ragionamento, che vedo già le brecce dentro le quali si infileranno i commenti: come vento e come serpi. E absit injuria verbis: la poesia m’ha preso la tastiera.

Perché in questo quadro di George de La Tour c’è tutto: Giuseppe che lavora, Gesù che lo guarda. E lo illumina. È l’unica fonte di luce. E ho detto tutto.

P.S. E se non ho detto tutto, per quanto possa apparire poco elegante, consiglio due libri, che ebbene sì ho scritto io me medesimo:

Lavoro & responsabilità     e      L’anima del leader

54 pensieri su “Lavorare nella Luce

  1. Adriano

    “E se non mi piace quello che faccio? Beh intanto cominciamo a farlo bene, e poi si vedrà: l’alibi della passione non regge”

    Sarà che ho la fortuna di fare qualcosa che mi piace (mentre, invece, vedo tanta gente che si trascina ogni giorno verso un posto di lavoro che odiano e che influenza negativamente anche la loro vita extra-lavorativa), ma il fare qualcosa che piace secondo me deve essere un obbiettivo da perseguire, tenendo in mente i grandi traguardi che uno si è messo nella propria vita.

    Qualcuno aveva detto che ci si potrebbe fare piacere quello che si fa… Se lo sforzo non è troppo grande e il risultato è autentico, allora perché no? Il rischio, però, è quello di ritrovarsi a fine giornata a sentirsi in colpa perché “non si fanno gli straordinari serali”, ma se li si fanno ci si sente in colpa perché si trascurano famiglia e/o amici… ù

    Un bel corto circuito, vero?

    1. Non ho una risposta, solo un’idea. Se provi a fare quello che devi con amore, scopri una passione. Se gli dai un senso soprannaturale tutto diventa piacevole. Viktor Frankle lo scrive dei lager (più o meno).
      Temo, non so ma presumo, che siccome il lavoro è una necessità per fare altro, nulla finisce per piacere.
      Che ne dite?

      Sul secondo punto, sul corto circuito, che dire… ci sono priorità: se costantemente ti senti in colpa per gli straordinari serali forse stai sbagliando prospettiva.
      Credo.

      1. Adriano

        “siccome il lavoro è una necessità per fare altro, nulla finisce per piacere.”

        La sfida è poter fare qualcosa che piace e poterci campare. Io ho questa fortuna. Ci sono dei costi, è vero, e delle rinunce, ma nel mio bilancio personale, i vantaggi superano, e di gran lunga, gli svantaggi.

  2. Due, se ne può considerare, negli uomini, come tipi di lavoro:
    1) Il lavoro VERO cui appartengono tutte le categorie degli operai in genere, montatori, molatori, sabbiatori, fonditori, tornitori, verniciatori, facchini, stradini, contadini, camionisti, ruspisti, muratori, pompieri, e le migliaia e migliaia di categore senza nome da quanto nemmeno catalogabili …
    1) i lavori delle mezzeseghe cosiddette operanti nel settore servizi progettazione (SIC!!!)
    mercato, fatturazione, scritturazione eccetra, convincitori di altre persone di tutti i generi,
    la cui principale occupazione VERA consiste nello stare via da casa (forse) dalla mattina alla sera, e attraversare il terribile traffico di cui tanto si parla è che è diventato la principale occupazione dell’uomo fetens.

  3. Purtroppo lo siamo tutti mezze seghe, ci sarebbe da vergognarsi del contrario!!!
    Ma per fare un po’ luce e ridimensionare ogni cosa ho trovato un pensiero che può aiutare:“L’uomo deve infine destarsi dal suo sogno millenario per scoprire la sua completa solitudine, la sua assoluta stranezza. Egli ora sa che, come uno zingaro, si trova ai margini dell’Universo in cui deve vivere. Un Universo sordo alla sua musica, indifferente alle sue speranze, alle sue sofferenze, ai suoi crimini”.

    (Jacques Monod, Il caso e la necessità)

    Buon Natale

    1. e qui non ti seguo, carissimo, perché non siamo soli. La differenza è qui: mi sento piccolo, misero, ma non solo. E c’è di più, piccolo e insignificante, ma infinitamente di più amato, e desiderato per quello che sono, chiamato per nome, per nomignolo.
      La differenza è tutta qui.
      Ed è una differenza che fa la differenza.

    2. Alessandro

      Ma è mai possibile che un libro come quello di Jacques Monod (Il caso e la necessità) sia ancora preso in seria considerazione? Scientificamente è anacronistico; quanto a teologia e filosofia, Monod non se ne intende, e quindi sulla solitudine o la non solitudine dell’uomo nell’universo l’autore esprime pensieri personali rispettabili ma scarsamente illuminanti

      1. Sì, probabilmente è vero, Monod è anacronistico, come, anche, credo, penso, probabilmente anacronistico andarsi (da parte mia o di chiunque altro) a impicciare delle cose che gli altri credono o non credono delle cose che accettano o non accettano, mentre, invece, molto meglio guardarle così come sono senza mai metter bocca, come uno pretendesse giudicare gli usi di altri popoli o le cose che mangiano
        o altri loro costumi in genere (come faceva,scusate ,un altro scrittore in disuso, Montaigne,che osservava con interesse le cose del mono per vedere, anche, la quantità di contraddizioni che era lui stesso)

        1. Alessandro

          Esperimento: prova a pensare TUTTE le volte in un giorno nelle quali “ti impicci delle cose che gli altri credono o non credono delle cose che accettano o non accettano”.
          Di’ la verità: sono parecchie, le volte che t’impicci.
          E sai perché? Non perché sei un impiccione, ma perché chi si comportasse come tu auspichi (“guardare le cose così come sono senza mai metter bocca”) sarebbe un eremita misantropo. Anzi, pure un eremita misantropo per sopravvivere dovrebbe un minimo impicciarsi di “ciò che gli altri credono o non credono, accettano o non accettano”. Quindi la condotta che propugni (a parte le pure notevolissime considerazioni etiche che andrebbero fatte al riguardo e che ne manifesterebbero la deprecabilità) è assolutamente irrealizzabile.

  4. Karin_G

    Ci sto dentro in pieno, Paolo, e ti ringrazio per questa nota profonda.
    Grata di avere un lavoro, in continua lotta con la mia indole vera.
    Offerta a Dio delle sofferenze, ma sembra che Lui me le mandi indietro,
    altrimenti a me dovrebbero diminuire. 😉
    Il mio lavoro, in questo momento, è santificazione e non esagero, perché
    una croce lo è sempre.

  5. 61Angeloextralarge

    Paolo! mi piace quello che hai scritto, in particolare:
    “Il lavoro è vocazione, nel senso che chiama ad un senso alto, divino. E nel fare le mie piccole cose -fotocopiare, pinzare, sbucciare le patate, guidare nel traffico, tenere una lezione, scrivere un articolo, montare un servizio, preparare un post, leggere un post, stendere un commento- nel fare ogni piccola cosa ci devo mettere tutto me stesso, perché in quella perfezione, che posso raggiungere, c’è la mia offerta a Dio, un Dio che restituisce con gli interessi quel dono, riversando grazie su chi ne ha bisogno, magari ascoltando la mia raccomandazione”: hai proprio ragione! Se le cose che faccio le faccio con amore, con l’offerta a Dio, anche il sugo che si è bruciato ha un sapore migliore. Provare per credere!

  6. Claudia

    Anche il sugo che si è bruciato ha un sapore migliore… Meraviglia! 🙂 Questa è la risposta, credo, alla ricerca della (vera) felicità!
    Grazie a tutti per i pensieri che condividete! Grazie a Paolo per aver condiviso questa perla della spiritualità dell’Opera che ho avuto la grazia di incontrare nel mio fidanzato! C’è molto da meditare!

  7. Alessandro

    “263 Il LAVORO rappresenta una dimensione fondamentale dell’esistenza umana come partecipazione non solo all’opera della CREAZIONE, ma anche della REDENZIONE.

    Chi sopporta la penosa fatica del lavoro in unione con Gesù, in un certo senso, coopera con il Figlio di Dio alla Sua opera redentrice e si mostra discepolo di Cristo portando la Croce, ogni giorno, nell’attività che è chiamato a compiere.

    In questa prospettiva, il lavoro può essere considerato come un mezzo di SANTIFICAZIONE e un’animazione delle realtà terrene nello Spirito di Cristo. [Cfr. Catechismo della Chiesa Cattolica, 2427; Giovanni Paolo II, Lett. enc. Laborem exercens, 27].

    Così raffigurato il lavoro è espressione della PIENA umanità dell’uomo, nella sua condizione storica e nella sua orientazione escatologica: la sua azione libera e responsabile ne svela l’intima relazione con il Creatore ed il suo potenziale creativo, mentre ogni giorno combatte lo sfiguramento del peccato, anche guadagnandosi il pane con il sudore della fronte.

    […]

    272 il lavoro è per l’uomo e non l’uomo per il lavoro, « lo scopo del lavoro, di QUALUNQUE lavoro eseguito dall’uomo — fosse pure il lavoro più “di servizio”, più monotono, nella scala del comune modo di valutazione, addirittura più emarginante — rimane sempre l’uomo stesso ».[Giovanni Paolo II, Lett. enc. Laborem exercens, 6]”

    275 Il lavoro conferma la profonda identità dell’uomo creato a immagine e somiglianza di Dio: « Diventando — mediante il suo lavoro — sempre di più padrone della terra, e confermando — ancora mediante il lavoro — il suo DOMINIO sul mondo visibile, l’uomo, in ogni caso ed in ogni fase di questo processo, rimane sulla linea di quell’originaria disposizione del Creatore, la quale resta necessariamente e indissolubilmente legata al fatto che l’uomo è stato creato, come maschio e femmina, “a immagine di Dio” ». [Giovanni Paolo II, Lett. enc. Laborem exercens, 4]. Ciò qualifica l’attività dell’uomo nell’universo: egli non ne è il padrone, ma il FIDUCIARIO, chiamato a riflettere nel proprio operare l’impronta di Colui del quale egli è immagine.”

    (Pontificio Consiglio Iustitia et Pax, Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa, 2004)

  8. Erika

    Caro Paolo, temo di essere fortemente critica nei confronti dell’Opus Dei (e non perche’ ho letto Il Codice Da Vinci…), la canonizzazione di San Josemaria Escriva’ mi ha lasciato assai perplessa… Pero’ non posso negare che l’assunto del lavoro come mezzo di santificazione mi affascina e mi trova d’accordo. Credo davvero che quando ci sforziamo di fare bene una cosa, inevitabilmente finiamo per amarla. Io amo il mio lavoro, ma, ad esempio, detesto cucinare. Eppure, quando mi sforzo di preparare qualcosa di buono come atto d’amore verso mio marito, diventa quasi divertente 🙂

        1. 61Angeloextralarge

          Erika, scusa se chiarisco!
          Lo smack era per la seconda parte del tuo commento.
          Per la prima: “temo di essere fortemente critica nei confronti dell’Opus Dei…la canonizzazione di San Josemaria Escriva’ mi ha lasciato assai perplessa… ” ti dico che, secondo me, se Escrivà è stato elevato agli onori degli altari dalla nostra madre Chiesa, qualcosa di buono deve esserci, no? Attualmente l’Opus Dei ha ben 12 appartenenti dei quali è in corso la causa di beatificazione, compresi un monsignore e una coppia di sposi: non è poco per una realtà che ha meno di 100 anni, no?
          non conosco profondamente l’Opus Dei, ma mi fido della Chiesa.

            1. Alessandro

              Grazie a te Angela!

              dall’omelia di Giovanni Paolo II per la canonizzazione di Josemaría Escrivá de Balaguer (6 ottobre 2002)

              “Il Signore Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse” (Gn 2, 15). Il Libro della Genesi, come abbiamo ascoltato nella prima Lettura, ci ricorda che il Creatore ha affidato la terra all’uomo, affinché la “coltivasse” e la “custodisse”.
              I credenti, operando nelle diverse realtà di questo mondo, contribuiscono a realizzare questo progetto divino universale. Il lavoro e qualsiasi altra attività, portata a termine con l’aiuto della Grazia, diventano mezzi di santificazione quotidiana.

              “La vita quotidiana di un cristiano che ha fede – era solito affermare Josemaría Escrivá – quando lavora o riposa, quando prega o quando dorme, in ogni momento, è una vita in cui Dio è sempre presente” (Meditazioni, 3 marzo 1954).
              Questa visione soprannaturale dell’esistenza apre un orizzonte straordinariamente ricco di prospettive salvifiche, poiché, anche nel contesto solo apparentemente monotono del normale accadere terreno, Dio è vicino a noi e noi possiamo cooperare al suo piano di salvezza.
              Si comprende quindi più facilmente quanto afferma il Concilio Vaticano II, ossia che “il messaggio cristiano, lungi da distogliere gli uomini dal compito di edificare il mondo, … li impegna piuttosto a tutto ciò con un obbligo ancora più stringente” (Gaudium et spes, n. 34).”

  9. Io lavoro?
    Non lo so. Certamente fatico (labor significa fatica) e nei momenti di maggior fatica mi è di conforto pensare a tanti altri che probabilmente faticano come me e anche di più, ma in cose meno avvincenti. Mi fa stare “al chiodo”, per così dire, mi dà il senso di un quotidiano che è un po’ la pazienza del contadino e un po’ i calli dell’operaio.
    Però forse lavoro non è la parola giusta per dire ciò che faccio, in effetti io sono un ministro (da ministerium = servizio).
    Per questo vorrei rivalutare tutti quelli che fanno un lavoro di servizio. Ho ancora Maria nella mente e nel cuore (tra le tante giornate che la liturgia Le dedica la quarta di Avvento è quella che preferisco) e così vorrei dedicarvi un pensiero di una mia amica, che fa la segretaria e che mi sembra aver colto perfettamente il senso di quello che dice Paolo e tempo fa mi diceva: “in fondo il mio lavoro consiste nel mettere gli altri in condizione di lavorare al meglio”.
    Cosa c’entra Maria? Bhe credo che se la Madonna avesse lavorato nel terziario si sarebbe espressa così.

        1. Erika

          Grazie, don Fabio! Che bella immagine del lavoro terziario…Il lavoro da’ un significato potente alla nostra esistenza, pero’ credo che tutti, per potersi mettere davvero al servizio degli altri, abbiano bisogno di una buona dose di tempo libero. E per libero non intendo lo shopping con le amiche, intendo il tempo della riflessione, in cui possiamo lasciare libera la mente e sedimentare i pensieri. Mi piacerebbe sentire in merito l’opinione di qualche mamma lavoratrice, ovvero la categoria con meno tempo libero al mondo.

    1. emilia

      “in fondo il mio lavoro consiste nel mettere gli altri in condizione di lavorare meglio” Caro D. Fabio, è proprio del mio “lavoro” che avrei necessità di parlare con te.
      Potrai ascoltarmi?
      emilia
      mieali51@yahoo.it

  10. Prove e riprove
    Pensavo: considerato che tante sono le prove dell’esistenza di Dio di Gesù eccetra,
    e nessuna prova che non esista, ergo, vuole dire, che chi non ha fede è in mala fede.

    1. Alessandro

      No, il discorso non fila.
      Certamente le prove dell’esistenza (storica) di Gesù (di Nazaret, figlio di Giuseppe, nato intorno al 6 a.C. e morto in croce intorno al 30 d.C.) sono tali da essere inconfutabili, sicché chi nega l’esistenza storica di Gesù è un ignorante, o è in malafede.
      Ma la fede di cui parli è – immagino – virtù teologale con cui si confessa che detto Gesù è figlio di Dio e Dio Egli stesso; ebbene, che Gesù sia tale non è oggetto di prove inconfutabili (come invece inconfutabili sono le prove dell’esistenza storica di Gesù di Nazaret) – se lo fossero, tra l’altro, non si potrebbe avere fede in Gesù Dio ecc., ma solo SAPERE infallibilmente che Gesù è Dio ecc. – e pertanto è possibile non avere fede in Gesù figlio di Dio e Dio gli stesso ecc. senza essere in malafede.

  11. Rosa
    18 dicembre 2011 a 18:20 # In riferimento alle sue “emergenze teologiche” ritengo che l’unica emergenza da considerare sia far conoscere l’unico volto di Dio che è Amore. Dall’affermazione “chi crede in me avrà la vita eterna” non consegue logicamente che chi non crede brucerà all’inferno, poiché l’unico fuoco che Dio conosce è il fuoco dell’Amore per i suoi figli e sarà il fuoco di quell’Amore a purificare tutto. Rassicuri sua figlia che la sua amica che all’età di quattro (!) anni non crede in Cristo non avendolo conosciuto (e auguriamoci che incontri dei degni testimoni) non sarà per questo dannata in eterno. Chi ha conosciuto Cristo ha il privilegio di poter partecipare già oggi di quella gioia di comunione che sarà piena alla Sua presenza. Dunque se anche l’amica di sua figlia non dovesse incontrare Cristo per tutta la sua vita (al pari di molti milioni di persone di continenti lontani) sarà comunque accolta dall’Amore di Cristo e solo allora si renderà conto di cosa si sarà persa per tutta la sua vita.
    Mi viene in mente, a proposito di serietà della vita, una barzelletta: un giorno un ebreo muore ed arriva alle porte del paradiso, con suo grande stupore viene accolto da Cristo che lo accoglie dicendogli “vieni figlio mio prediletto, questa è la tua casa”; l’ebreo stupito esclama “mio Signore! ora ho capito tutto”. Gesù lo accompagna nelle “dimore preparate” per tutti noi e l’ebreo si stupisce nel vedere musulmani, induisti, buddisti e atei e Gesù gli spiega come anche loro siano figli amati e prediletti, voluti sin da prima della creazione del mondo e che la salvezza è per tutti. Ad un tratto passano davanti bianca e chiusa al di là della quale si sentono schiamazzi festanti, l’ebreo chiede “Signore, chi c’è dietro quella porta?” e Gesù risponde “sono i cristiani, sono convinti di essere gli unici ad essersi ad essersi salvati”.

    Sta a noi, testimoni dell’Amore di Cristo, ad annunciarlo in maniera inclusiva e non esclusiva

  12. Caro Paolo, cari tutti,
    questo argomento mi tocca nel profondo.
    Per una serie di vicissitudini non cercate (intravedo in questo ora la mano di un Altro) mi trovo a fare due attivita’ bellissime ma non retribuite che occupano cosi’ tanto tempo da rendere pressoche’ impossibile incastraci anche un lavoro retribuito. In questo tempo di crisi, in cui i conti non tornano sempre.
    In questo periodo mi chiedo sempre piu’ spesso come risolvere questo dilemma, faccio progetti, fantastico soluzioni piu’ o meno imprenditoriali, ma sento che qualcosa stona. Percepisco che diminuire il tempo che passo nell’insegnamento e organizzazione della Catechesi del Buon Pastore e quello nell’archivio della mia parrocchia non sarebbe un buon contrappeso alla mia ansia per il futuro “economico” della mia famiglia. Ma soldi non ne entrano, anzi ne escono solamente perche’ tutto il necessario, non solo il mio tempo e la benzina ma anche il tanto materiale, viene finanziato di tasca propria.
    Mi piacerebbe leggere qualcosa al proprosito per approfondire questo aspetto.
    Voglio ancora aggiungere che le attivita’ su base volontaria che mi trovo a poter svolgere sono proprio quello che avrei sempre voluto fare ma che non ero riuscita ad ottenere con i miei soli sforzi in passato. Quindi niente altro che soddisfazione nel lavoro.

    1. Nei paesi da voi aborriti come atei etc. (per esempio scandinavi)c’è almeno il sussidio di disoccupazione che equivale a uno stipendio minimo. Naturalmente le tasse vengono fatte pagare e così è possibile che chi non ha lavoropossa andare avanti con dignità e dedicarsi, se gli piace, a quello che vuole.

      1. Accidenti che velocita’ di risposta!
        Peccato che a volte non premia!
        Io abito infatti da anni in uno di quei paesi che ormai sono tra i piu’ atei del vecchio continente: i liberalissimi ed efficentissimi Paesi Bassi. Dove si passa alle manovre riparatrici di un deficit che ancora non c’e’ ma che potrebbe formarsi a causa della crisi. Tra l’altro ci sto molto bene, tanto e’ vero che ci ho messo su famiglia e non ho intenzione di lasciarlo per tornare da vecchia al paesino di origine.
        Quello che dici e’ vero ma avrei piu’ bisogno di un approfondimento per il mio dilemma morale. Grazie comunque.

        1. Meglio stare male per un dilemma morale, penso, che uno approfondirà da sé o con l’aiuto teologico di qiesto blog, che tirare la cinghia all’ultimo buco. Anche io ho vissuto parecchio in cotesti paesi barbarici e mi sembra che almeno si era trattati da cittadini, e uno, eventualmente, poteva anche andare in chiesa o dove voleva, o avere anche, perfino, dilemmi morali.

    2. se posso dare un parere, per quanto personale, io riconsidererei, con l’aiuto di un sacerdote, le priorità.
      Nelle scrittura sta scritto che è bene impegnarsi per gli altri, ma purché questo non vada a discapito della propria famiglia.
      Se la famiglia ha bisogno di uno stipendio in più, forse vale la pena darle la priorità.

    1. «Onora le vedove, quelle che sono veramente vedove; ma se una vedova ha figli o nipoti, questi imparino prima a praticare la pietà verso quelli della propria famiglia e a rendere il contraccambio ai loro genitori, poiché è gradito a Dio. Quella poi veramente vedova e che sia rimasta sola, ha riposto la speranza in Dio e si consacra all’orazione e alla preghiera giorno e notte; al contrario quella che si dà ai piaceri, anche se vive, è già morta. Proprio questo raccomanda, perché siano irreprensibili. Se poi qualcuno non si prende cura dei suoi cari, soprattutto di quelli della sua famiglia, costui ha rinnegato la fede ed è peggiore di un infedele.»

      1Tim 5,4-8

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